La parashàh che viene letta durante chol ha mo’ed Sukkot è tratta dalla parashah di Ki Tissà, nel brano che segue al peccato del vitello d’oro. I Chachamim hanno scelto questo brano perché contiene nella sua seconda parte riferimenti allo Shabbat e a chol ha-mo’ed. Il verso che chiude la parashah è ben noto, perché da esso impariamo il divieto di cucinare carne e latte assieme, ma al suo interno vi è un altro comandamento:
“Reshit bikurè admatechà tavì bet H. Eloqecha, lo tevashel ghedì bachalev immò – Le nuove primizie della tua terra recherai nel Santuario del Signore D. tuo. Non cuocere il capretto nel latte di sua madre”.
Il secondo giorno di Mo’ed in sukkah ho avuto una discussione con Chayim Magrizos sulla costruzione di questo verso, per cui volevo affrontare oggi con voi alcune possibili letture dell’accostamento dei due comandamenti, apparentemente molto distanti fra loro, all’interno del verso. Non possiamo altresì considerarlo casuale, perché lo ritroviamo due delle tre volte (nella parashah di Mishpatim e in Ki tissà) in cui appare il divieto di cucinare il capretto nel latte di sua madre. I chakhamim nel trattato di Chullin dalla vicinanza dei comandamenti imparano che, come per le primizie, così vi è un divieto di godimento (issur hannahah) per carne e latte cucinate assieme. Non è pertanto vietato solamente mangiare o cucinare carne latte assieme, ma anche venderli o darli al cane. L’accostamento operato dei chakhamim è di natura tecnica, ma è possibile individuare una vicinanza a livello concettuale?
I Maestri italiani si sono interessati ampiamente del problema. Shadal nel suo commento alla Torah (Shemot 23, 19) si confronta con tale questione, scrivendo che presume che questo fosse l’uso di alcuni popoli, o anche di alcuni israeliti, che cucinavano i primogeniti del loro gregge nel latte della loro madre, nello stesso modo in cui veniva offerta ai sacerdoti la prima parte della lana dell’animale (reshit ha-ghez). Anche il latte è un prodotto significativo della bestia, e la sua prima parte veniva pertanto offerta ai sacerdoti, dopo avere cucinato assieme il primogenito ed il latte, o, in alternativa il sacerdote bruciava primogenito e latte sull’altare. Per questo il verso, dopo avere ricordato le primizie dei frutti della terra, ricorda le primizie del mondo animale. Il motivo per cui la Torah vieta questa pratica, sebbene la nostra intenzione sia rivolta pienamente al cielo, è che si tratta di un comportamento crudele, assimilabile a quello di chi sacrifica una bestia e suo figlio nello stesso giorno, cosa che la Torah vieta (Vaiqrà 22,28, nel brano letto nei primi due giorni di mo’ed). Shadal poi riporta una spiegazione linguistica: la radice b-sh-l difatti, oltre ad indicare la cottura, si riferisce anche alla maturazione del frutto. Per questo i caraiti leggevano il verso così: mentre per i frutti il tuo compito è quello di farli arrivare a maturazione, per l’animale primogenito sottraigli il sostentamento del latte materno, e offrilo in sacrificio all’ottavo giorno, secondo quanto stabilisce la Torah. La seconda parte del verso sarebbe pertanto in contraddizione con la prima. R. Avraham ibn Ezrà respinge fermamente questa lettura. La Torah piuttosto vuole evidenziare la contrapposizione fra il mondo vegetale, nel quale il calore del sole è determinante per la crescita dei frutti, e quello animale, dove il calore non concorre alla crescita dell’animale, che avviene attraverso un elemento “freddo”, il latte.
Anche Cassuto, sulla scia del Rambam nel Moreh Nevuchim (3,48), lega il divieto a pratiche idolatre. Il Rambam non aveva delle prove di quanto scriveva, mentre Cassuto porta una testimonianza dalle tavolette di Ugarit, che riportano esplicitamente questa usanza. Il messaggio è molto chiaro: quando ti rechi in pellegrinaggio alla casa del Signore, porta anche le primizie dei frutti della terra, ma evita di sfociare in usi idolatri come questo. Tale lettura permette fra l’altro di spiegare un’espressione difficile che abbiamo letto nella Torah alcune settimane fa, nella parashah di Ki Tavò (Devarim 28,4); “Barukh perì bitnechà ufrì admatechà ufrì beemtekha, shegar alafecha weashterot zonekha – sarà benedetto il frutto del tuo ventre, il prodotto della tua terra e il frutto del tuo bestiame; il parto delle tue vacche e gli agnelli del tuo gregge”. All’interno di questo verso compaiono due nomi di divinità, Shegar e Astarte, una, Shegar, che sovraintende al bestiame grosso, e l’altra Astarte, al bestiame minuto. QBH si oppone a questa credenza totalmente errata, essendo Lui l’unica ed esclusiva fonte di benedizione.
Un maestro contemporaneo, Rav Shabetai Sabato crede che l’elemento che accomuna queste mitzwot è quello della hakkarat ha-tov, la riconoscenza. La mitzwah di portare le primizie deriva dal divieto di servirsi della prima parte di qualcosa, che è la fonte del bene, ed è il segno tangibile dell’opera divina, che crea il mondo dal nulla. Questa parte viene consacrata, affinché la benedizione divina ritorni con forza. Varie mitzwot della Torah seguono questa logica, quella della riconoscenza. Cucinare il capretto nel latte di sua madre è la negazione suprema di questo modo di approcciarsi al mondo. Il latte è destinato a dare vita. Strappare la fonte della vita e avvalersene per privare della vita il capretto per soddisfare i desideri umani è segno di grande malvagità, e per tale motivo ci si deve distanziare quanto più possibile da tale predisposizione, che effettivamente nella sua formulazione halakhica viene estesa in maniera imponente, ponendo una serie considerevole di appendici, che sembrano snaturare la mitzwah rispetto alla sua formulazione biblica, ma è troppo grande il pericolo di avere atteggiamenti crudeli come questo, e per tale motivo bisogna prenderne le distanze.