http://www.anzarouth.com/2010/04/mesilat-yesharim-11-fattori-integrita.html
Messilat Yesharim, Rabbi Moshe Chaim Luzzatto, traduz. e note di Ralph Anzarouth
Commento di Rav Somekh
Le componenti dell’integrità sono molto numerose, quanto i molteplici dettagli di tutti i 365 precetti negativi. Difatti, abbiamo già spiegato che il concetto di integrità implica essere immuni da tutte le ramificazioni delle trasgressioni; tuttavia, benché l’istinto malvagio si sforzi di indurre l’uomo a commettere tutti i peccati, ciononostante ce ne sono alcuni che la [sua] natura desidera trasgredire più di altri e riguardo a essi gli suggerirà più pretesti. E perciò egli dovrà prestare una attenzione particolare a questa specifica categoria [di trasgressioni] per sconfiggere il suo istinto e ripulirsi dal peccato. E infatti i Maestri di benedetta memoria dissero (Talmud Bavli, trattato Chaghigà, foglio 11b): “Lo spirito dell’uomo brama e desidera l’appropriamento dei beni altrui1 e le unioni proibite“.
E infatti vediamo che benché coloro che rubano alla luce del sole, appropriandosi letteralmente dei beni del prossimo per prenderne possesso, non siano la maggioranza, malgrado ciò la maggior parte delle persone assapora il gusto della truffa nell’ambito delle proprie attività commerciali, quando si permette di gonfiare i propri guadagni a spese del prossimo con il pretesto che, quando si tratta di fare quattrini, le regole non sono più le stesse. Eppure, molti precetti negativi sono stati proclamati riguardo all’estorsione:
- (Lev. 19, 13): “Non truffare“.
- (ibid.): “Non estorcere“.2;
- (Lev. 19, 11): “Non rubate3, non rinnegate e non mentitevi a vicenda“.
- (Lev. 25, 14): “Non ingannatevi l’un l’altro“.
- (Deut. 19. 14): “Non spostare i limiti [della proprietà] del prossimo“.
Tutte queste tipologie di appropriamento indebito includono molti degli atti che si compiono nelle transazioni sociali e tutti comportano numerosi divieti. Poiché ciò che è vietato non è solo l’atto dell’estorsione e della truffa, conosciuto e riconosciuto da tutti, bensì qualunque atto che possa condurre a commetterlo: perfino questo fa già parte del divieto. E a questo riguardo, i nostri Maestri di benedetta memoria dissero (Talmud Bavli, trattato Sanhedrin, 81a): “Il versetto (Ezechiele 18, 6) ‘Colui che non insozza la moglie del prossimo’ proibisce di insidiare l’attività commerciale esercitata dal prossimo“. E difatti Rabbi Yehuda proibiva al negoziante di regalare noci e noccioline tostate ai bambini per abituarli a venire nel suo negozio; e l’unico motivo per cui gli altri Maestri invece lo permisero era che anche i suoi concorrenti avevano la possibilità di farlo (si veda il Talmud Bavli, trattato Baba Metzia, foglio 60a). E nel trattato Baba Batra (foglio 88b) i nostri Maestri di benedetta memoria dissero: “Rubare a una persona è più grave che rubare all’Altissimo, perché nel primo caso [la Torà] menziona il peccato prima ancora che l’atto sia compiuto, mentre nel secondo caso cita prima la mancanza e solo in seguito la definisce un peccato“.
E i lavoratori salariati che svolgono la loro attività presso un datore di lavoro sono stati esentati dalla benedizione che si pronuncia prima del pasto e dalle ultime benedizioni che si recitano dopo il pasto4; e perfino per leggere lo Shemà, l’obbligo di trascurare il proprio lavoro si limita unicamente alla lettura del primo brano. Certamente a maggior ragione [non si interrompe il proprio lavoro] per compiere azioni facoltative, che sono vietate a tutti i salariati, per non trascurare le prestazioni dovute al datore di lavoro; e chi trasgredisce questo divieto è un truffatore.
Per esempio, Abba Chelkia5 non rispondeva nemmeno al saluto dei Talmidè Chakhamim6, per non trascurare il lavoro dovuto al prossimo7. E il nostro patriarca Giacobbe, la pace sia su di lui, si espresse in questo modo (Genesi 31, 40): “Di giorno mi ha consumato l’afa, di notte il gelo; e il sonno ha abbandonato i miei occhi“. Dunque, cosa potranno dire coloro che si occupano dei propri piaceri durante gli orari di lavoro a scapito del lavoro stesso? O che si occupano dei propri affari per il proprio tornaconto?
La regola generale: tutto il tempo di chi è impiegato da altri per svolgere qualsiasi mansione, per quel giorno è interamente venduto loro, come detto dai Maestri di benedetta memoria (Talmud Bavli, trattato Baba Metzia 56b): “L’impiego salariato è come una vendita8 per quel giorno“, e qualunque parte di essa [il lavoratore] dedichi al proprio interesse, sotto qualunque forma, è una vera e propria truffa. E se [il datore di lavoro] non condona questa mancanza, egli non è perdonato. Difatti, già dissero i nostri Maestri di benedetta memoria (Talmud Bavli, trattato Yoma, 86b): “Il giorno di Kippur non fa perdonare i peccati commessi verso il prossimo, finché non si è ottenuto il perdono da parte del prossimo“.
E non solo, ma perfino se durante quel tempo di lavoro egli compie una Mitzvà, essa non gli viene contata come un merito; anzi, si è procurato un peccato, poiché una trasgressione non può essere una Mitzvà. E dice il versetto (Isaia 61, 8): “Io Hashem […] odio l’offerta che proviene da una rapina“. E i nostri Maestri dissero anche una cosa simile (Talmud Bavli, trattato Baba Kama, 94a): “Chi ruba una misura di grano, la macina, la cuoce e poi pronuncia la benedizione, in realtà non benedice bensì offende, come è detto (Salmi 10, 3): ‘Chi ruba offende D-o’.” E in modo analogo è detto (Talmud Yerushalmi, trattato Sukkà 3, 1): “Povero colui il cui difensore si è trasformato in accusatore” e come dissero i nostri Maestri riguardo al Lulav rubato (ibid.). E la logica dice che così come rubare un oggetto è un furto, anche rubare del tempo è un furto; e così come quando si compie una Mitzvà con un oggetto rubato, da difensore questo diventa un accusatore, allo stesso modo il tempo rubato per compiere una Mitzvà si trasforma da difensore in accusatore. E il Santo, benedetto Egli sia, non desidera che l’onestà. Infatti è detto (Salmi 31, 24): “D-o protegge i leali“; e anche (Isaia 26, 2): “Aprite le porte e entrerà il popolo onesto, che rimane fedele“; e anche (Salmi 101, 6): “I Miei occhi vegliano sui leali della terra, essi risiederanno con Me“; e anche (Geremia 5, 3): “Forse che i Tuoi occhi non vegliano su ciò che è vero?“.
E pure Giobbe disse di sé stesso (Giobbe 31, 7): “Se i miei passi hanno deviato dalla buona strada, se il mio cuore ha seguito i miei occhi, se qualcosa si è incollato alla mia mano“; e vedi quanto è bello questo esempio, perché ha comparato i beni sottratti accidentalmente a qualcosa che si incolla alla mano dell’uomo; infatti, malgrado l’uomo non abbia come prima intenzione quella di impossessarsene ed esso gli rimanga appiccicato, nonostante tutto alla fine dei conti gli rimane in mano. Così funziona questa cosa: benché l’uomo non vada proprio a rubare, ciononostante è difficile che le sue mani rimangano del tutto vuote.
Comunque tutto ciò è causato del fatto che anziché essere il cuore a dominare gli occhi, impedendo loro di apprezzare ciò che appartiene ad altri, sono gli occhi a incitare il cuore a cercare pretesti per rendere permesso ciò che a loro pare attraente e gradevole; per questo motivo Giobbe disse di non essersi comportato in questo modo, che il suo cuore non aveva seguito i suoi occhi e che di conseguenza nulla era rimasto attaccato alle sue mani.
Guarda le questioni che riguardano l’inganno: con che facilità l’uomo può lasciarsi tentare e soccombere, quando gli sembra legittimo conferire deliberatamente un migliore aspetto alla propria merce esposta al pubblico – e questo al fine di aumentare i propri guadagni e convincere il cliente, usando pretesti quali (Talmud Bavli, trattato Pesachim 50b) “C’è chi è scaltro e ci guadagna” e (Proverbi 10, 4) “La mano di chi è alacre arricchisce“. Ma se non presta attenzione e non riflette molto profondamente al proprio comportamento, raccoglie spine anziché grano, perché trasgredisce e soccombe al peccato dell’inganno, contro il quale siamo stati messi in guardia (Levitico 25, 17): “Non vi ingannerete l’un l’altro“; e i Maestri di benedetta memoria dissero che è vietato anche ingannare il non ebreo e il testo dice (Zefania 3, 13): “I superstiti del popolo ebraico non commetteranno iniquità, non diranno cose ingannevoli e non si troverà nessun imbroglio nelle loro bocche“. E dissero anche (Talmud Bavli, trattato Baba Metzia 60a): “È vietato ridipingere i vecchi arnesi per farli sembrare nuovi9.” (Sifri, Devarim 25, 16): “È vietato mischiare frutti con altri frutti, perfino frutti nuovi con altri frutti nuovi e perfino se valgono un po’ di più non li si mescoli per venderli al prezzo inferiore“. (Devarim 25, 16): “Perché Hashem disprezza tutti coloro che agiscono così, tutti coloro che agiscono in modo sleale” e [chi si comporta in questo modo] viene chiamato in cinque modi: iniquo, odioso, abominevole, anatema, abietto. E dissero anche (Talmud Bavli, trattato Baba Kama 119a): “Chi estorce al prossimo perfino un solo centesimo10 è come se gli carpisse l’anima“. Da qui si capisce la gravità di questo peccato, perfino per una piccola somma. E dissero anche (Talmud Bavli, trattato Taanit 7b): “Le piogge vengono interrotte solamente a causa della truffa11“. E dissero anche (Midrash Vaykra Raba 33): “In una scatola piena di peccati, qual è il principale accusatore? La truffa!“. E il decreto contro la generazione del diluvio12 fu deciso unicamente a causa della truffa”.
E se pensi in cuor tuo: come è possibile nell’ambito delle nostre attività commerciali rinunciare a convincere il prossimo riguardo alla merce e al suo prezzo? [La risposta è che] si tratta di cose molto diverse, perché fare del proprio meglio per mostrare agli acquirenti le qualità e i vantaggi reali del prodotto è un comportamento corretto e legittimo. Ma quando si nascondono i difetti della propria merce non è che un inganno ed è vietato. E questa è una regola importante nella lealtà del commercio. E a maggior ragione questo è vero riguardo alla [correttezza delle] misure, riguardo alle quali la Torah ha scritto esplicitamente (Devarim 25, 16): “Chi commette questi [peccati] è abominevole per il Signore tuo D-o“. E i Maestri dissero (Talmud Bavli, trattato Baba Batra 88b): “Le punizioni per [chi trasgredisce il divieto di usare false] misure è più grave ancora delle punizioni per [chi commette il peccato delle] unioni proibite ecc.”; e dissero (ibid.): “Il commerciante deve ripulire le proprie misure ogni 30 giorni“, e per quale motivo deve farlo così di frequente? Affinché non si consumino senza che se ne accorga ed egli non venga punito [per questo motivo].
E a maggior ragione [ci si astenga] dal grave peccato dei [prestiti con] interessi, che implica che chi lo commette nega il Signore d’Israele, che D-o ce ne scampi; e i nostri Maestri di benedetta memoria, riguardo al versetto (Ezechiele 18, 13): “Ha prestato con usura e riscosso con gli interessi, egli non vivrà!” dissero (Shemot Raba 31, 6) che “costui non rivivrà quando avrà luogo la resurrezione dei morti, poiché sia lui che la sua polvere sono abominevoli e immondi davanti a Hashem“. E non penso che ci sia bisogno di dilungarsi su questo [peccato], poiché ogni ebreo già ne ha timore.
La regola generale dice infatti che, così come la brama del guadagno è tanta, altrettanto numerosi sono i pericoli; e l’uomo deve dedicare molta attenzione e grande impegno per esserne veramente al riparo. E se riesce a ripulirsene, saprà di essere arrivato a un livello importante, poiché molte persone, pur riuscendo ad acquisire molte delle virtù legate alla devozione, tuttavia non riescono a raggiungere il traguardo della perfezione in ciò che attiene al disprezzo del guadagno indebito. E questo è ciò che disse Tzofar il Neemita a Giobbe (Libro di Giobbe 11, 14): “Se c’è del male in mano tua, allontanalo, affinché l’ingiustizia non risieda nella tua dimora! Allora solleverai il tuo volto senza difetti, sarai saldo e non avrai paura“.
Ecco, ho descritto sinora alcuni dei dettagli di uno dei precetti e questa discussione è sicuramente pertinente anche per tutte le altre Mitzvot, ma [nell’ambito di questo testo] ci limitiamo a trattare unicamente di quei [peccati] che la maggior parte delle persone ha tendenza a commettere.
Note del traduttore:
[1] I Maestri usano due termini distinti a questo riguardo: il Gazlan (chi commette Ghezel) indica chi si appropria apertamente e a volto scoperto di ciò che appartiene ad altri; il Ganav invece è chi ruba di nascosto perché teme di essere scoperto. Il lettore sappia che il Talmud biasima il secondo ancora più del primo, perché nascondendosi dimostra di temere il giudizio degli uomini ma non il giudizio divino.
[2] Qui si parla del Ghezel, l’estorsione commessa alla luce del sole.
[3] Questo invece è il furto perpetrato di nascosto.
[4] Si tratta di Hamotzì e delle ultime due benedizioni della Birkhat Hamazon, si veda il Mishné Torá di Rambam, Hilkhot Berachot 2, 2.
[5] Saggio dell’epoca della Mishnà, citato come modello di onestà verso il suo datore di lavoro (Talmud Bavli, trattato Makkot 23).
[6] Talmìd Chakhàm (pl. Talmidé Chakhamìm): Letteralmente “allievo di un saggio”. Più precisamente, il termine indica un saggio che ha raggiunto un livello tale di erudizione e di conoscenza della Torà da rappresentare il modello della società ebraica tradizionale. È noto il passaggio del Talmud che attribuisce ai Talmidè Chakhamìm il merito di portare la pace nel mondo grazie alla loro opera di diffusione della Torà (voce tratta dal nostro Glossario pubblicato nelle Leggi della Maldicenza del Hafetz Haim, che abbiamo tradotto e pubblicato presso Morashà e sul sito dei Maestri della Torà).
[7] Si veda il Talmud Bavli, trattato Taanit 23b.
[8] Il Talmud afferma che affittare o noleggiare un bene a qualcuno è come vendere quel bene per un tempo prestabilito. Il Ramchal compara dunque il rapporto di un salariato con il suo datore di lavoro all’affitto di un bene materiale.
[9] In modo da ingannare gli eventuali acquirenti, convinti di acquistare merce nuova o quasi nuova.
[10] Il testo originale parla di una Prutà, la più piccola somma di denaro avente una rilevanza economica nella Halakhà. I saggi fissano il suo valore in un quarantesimo di grammo d’argento, che oggi equivarrebbe a poco più di un centesimo di euro.
[11] Come è noto, la pioggia è una delle benedizioni la cui chiave Hashem ha tenuto per Sé. E questa benedizione può essere accordata o meno in funzione del nostro comportamento.
[12] Come testimoniato da Bereshit 6, 11-13. Si veda anche il Talmud Bavli (trattato Sanhedrin 108a).
Commento al capitolo 11 (prima parte)
Le componenti dell’integrità…: Comincia il capitolo più lungo di tutto il libro, dedicato alle componenti della neqiyut. Mentre la zehirut si riferiva a comportamenti che tutti riconoscono come sbagliati, si intende per integrità (neqiyut) l’attenzione scrupolosa ai dettagli di ogni Mitzwah, compresi quelli meno noti e quelli che si prestano a scusanti per giustificare la propria inadempienza. Essi richiedono dunque un esame di coscienza particolare, perché si tratta di comportamenti nei quali l’uomo indulge in quanto li ritiene permessi. In alcuni casi si tratta addirittura di comportamenti non proibiti che però rivelano il gusto di chi li segue per il proibito. La differenza fra vigilanza (zehirut) e integrità (neqiyut) non riguarda dunque tanto il comportamento pratico della persona quanto la sua coscienza, non tanto le azioni quanto le middot: non è più semplicemente controllo dell’istinto, ma piuttosto educazione dell’istinto. Cfr. Maimonide, Shemonah Peraqim, 6: “I filosofi affermarono che colui che sa dominarsi, nonostante compia azioni buone e degne, in realtà compie queste ultime aspirando alle azioni malvagie, dalle quali è attirato, ma riesce a prevalere sul proprio istinto, opponendosi con le sue azioni contro ciò verso cui lo spingono le sue forze, la sua passione e la disposizione della sua anima e che, facendo il bene, ne ricava sofferenza e danno. L’uomo virtuoso, invece, si uniforma nella sua azione a ciò verso cui lo spingono il suo desiderio e la sua disposizione naturale e compie il bene verso cui aspira”. Si veda anche quanto scrive R. Chayim Palagi citando il commento di R. Shimshon Nachmani (Pisa, sec. XVIII) ai Pirqè Avot Toledot Shimshon, cap. 3, secondo cui le posizioni facilitanti nell’applicazione della Halakhah sono a loro volta un frutto dell’istinto cattivo (Bet Mo’ed le-khol Chay, 15,4).
Quando si tratta di fare quattrini, le regole non sono più le stesse. Esistono diversi modi per rubare, alcuni dei quali non conclamati, ma non per questo meno gravi. Per esempio, la circonvenzione (ghenevat da’at) o il sottrarre tempo al prossimo (ghenevat zeman) sono forme di furto, ancorché meno convenzionali e perciò più frequentemente ignorate in quanto tali. Perché di fronte all’opportunità di guadagnare l’uomo si inventa concessioni e facilitazioni come se non si trattasse di un furto, ma di un guadagno permesso. Non ci è invece lecito guadagnare dalle perdite del prossimo. In questo capitolo si leggeranno riferimenti ai tre grandi istinti dell’uomo: il desiderio di proprietà, il desiderio sessuale e l’uso della parola. Già Maimonide metteva per primo il desiderio di proprietà. Il Midrash, commentando l’episodio del diluvio, afferma che pur avendo quella generazione compiuto trasgressioni anche di ordine sessuale “la sentenza di condanna nei loro confronti è stata siglata solo sulla base del furto” (Rashì a Bereshit 6,11).
Il versetto: ‘Colui che non insozza la moglie del prossimo’ proibisce di insidiare l’attività commerciale esercitata dal prossimo: L’attività lavorativa di un uomo è come sua moglie. Egli investe la maggior parte del suo tempo e delle sue energie nella professione al punto che questa diviene parte di lui stesso. Perciò colui che se ne impossessa è come se gli avesse portato via la consorte.
Anche i suoi concorrenti avevano la possibilità di farlo: E quindi non c’è più trattamento dispari fra i negozianti. Al contrario, parallelamente al detto: “la gelosia fra gli autori di libri aumenta la sapienza”, anche qui la concorrenza leale è anima del commercio e può risultare utile ai clienti.
Rubare a una persona è più grave che rubare all’Altissimo: Allude a chi commette sacrilegio (me’ilah), traendo vantaggio personale dalle offerte sacre (qodashim) appartenenti al Bet ha-Miqdash (Wayqrà 5,15). La stessa terminologia è ripetuta al v. 21, dove si parla invece del furto ai danni di un privato per insegnarci che in quest’ultimo caso la trasgressione è duplice: c’è infatti il trasferimento dell’oggetto da una proprietà all’altra (cosa impensabile nei confronti del S.B.) e c’è l’utilizzo dell’oggetto medesimo.
Alla lettura del primo brano: Cfr. Berakhot 16a. Chi esegue una Mitzwah la fa “dal proprio conto” e non a spese altrui. Se l’esecuzione di una Mitzwah comporta una trasgressione (cfr. Sukkah 35, dove si discute di chi agita di Sukkot un Lulav rubato), come sottrarre il tempo che appartiene ad altri (il datore di lavoro), è meglio non eseguirla del tutto. Nel seguito Ramchal dirà che invece di fungere da difensore della persona che la compie (Avot 4,11) essa si trasforma infatti in accusatrice.
Abba Chilqiyah non rispondeva nemmeno al saluto dei Talmidè Chakhamim: Si tratta del nipote di Chonì, “il tracciatore di cerchi”: ovvero di colui che quando c’era bisogno di pioggia tracciava un cerchio nel terreno e diceva a D.: “di qui non esco finché non mi avrai dato ascolto”. Visse nel 1° secolo, quando ancora esisteva il Tempio di Yerushalaim. Era noto per le sue straordinarie virtù, al punto che tutte le preghiere da lui pronunciate erano esaudite. Il suo comportamento era talmente elevato da risultare talvolta incomprensibile. Una volta, allorché giunsero due Rabbini a chiedergli che pregasse per la pioggia, era impegnato a zappare il terreno: essi lo salutarono, ma egli non rispose al saluto. Molti sono i richiami dei nostri Maestri sull’importanza del saluto. “Saluta per primo ogni persona”, ammoniscono i nostri Maestri (Avot 4,14). Tanto più sarà obbligatorio rispondere al saluto che ci viene rivolto: di chi non risponde al saluto il versetto (Yesha’yahu 3,14: “furto del povero in casa vostra”, leggendo ‘aniyah =”risposta” al posto di he-‘anì =”povero”) dice che commette furto (Berakhot 6b). Se il saluto è una Mitzwah è tanto più degno di nota il comportamento di Abba Chilqiyah, il quale manca a un dovere verso il prossimo e verso H.
E il S.B. non desidera che l’onestà. La parola ebraica è emunah. Essa compare solo due volte nella Torah: all’inizio della cantica di Haazinu (Devarim 32,4) e nella guerra di ‘Amaleq, dove assume il senso di “saldezza”. Anche qui è adoperata non nel senso più tardo di “fede”, bensì di “verità” (dalla stessa radice di emet), affidabilità (2Melakhim 12,16). Cfr. Shabbat 31b, dove si riferisce che una delle interrogazioni che vengono poste dal Tribunale Celeste alle anime nel giudizio dell’aldilà è: nassata we-natatta be-emunah? (“Hai trattato gli affari con onestà?”).
Anziché essere il cuore a dominare gli occhi… sono gli occhi a incitare il cuore: Nella letteratura medioevale il cuore era ritenuto sede dell’intelletto. A proposito del Faraone si parla di indurimento del cuore (Shemot 8,28) e di Haman è detto: “E disse Haman in cuor suo: A chi mai il re vorrà fare onore più di me?”(Est. 6,6)? Quanto dice qui Ramchal riecheggia il detto dei Maestri: “I malvagi sono in potere dei loro cuori, mentre i giusti hanno il cuore in loro potere”.
E’ vietato anche ingannare il non ebreo: Cfr. R. Bachyè a Wayqrà 25, 50 (in base a Bavà Qammà 113a): “E farà il calcolo con il suo padrone”. Il versetto ci avverte che si vuole riscattare un servo occorre essere precisi con il padrone non ebreo nel calcolo in funzione degli anni mancanti al giubileo tanto da evitare sotterfugi, perché il furto ai danni di un non-ebreo è proibito in quanto suscita profanazione del Nome. Anzi, il versetto si riferisce ad un non-ebreo soggetto alla ns. giurisdizione, eppure la Torah ci avverte di stare attenti a non derubarlo, come hanno insegnato i Maestri”. E se dopo averlo ingannato restituisce è una Santificazione del Nome di H. Per questa ragione Ya’aqov ha prescritto ai suoi figli di restituire l’errore di calcolo benché fosse stato compiuto dal non Ebreo stesso, come è scritto: “…e il denaro che vi era stato rimesso nelle vostre sacche riportatelo con le vostre mani, forse si è trattato di un errore” (Bereshit 43,13). E sebbene gli Egiziani fossero idolatri, Ya’aqov ha dato ai figli l’ordine di restituzione per santificare il Nome di H. Se questo è avvenuto prima del Dono della Torah, tanto più ora che siamo obbligati in tal senso (fino a p. 73 a metà).