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Messilat Yesharim, Rabbi Moshe Chaim Luzzatto, traduz.e note di Ralph Anzarouth
Commento di Rav Somekh
Capitolo 2 – La Prudenza (Zehirut)
Il concetto di prudenza1 significa che l’uomo deve prestare attenzione ai propri atti e a tutto ciò che lo riguarda; cioè, deve osservare e verificare le proprie azioni e le proprie scelte: sono esse buone oppure no? Questo, per evitare di esporre la propria anima al pericolo di estinzione, che D-o ce ne guardi. E non bisogna agire sotto l’impulso delle abitudini, come un cieco nell’oscurità.
E la ragione certamente impone questa attitudine. Poiché, dato che l’uomo è in possesso di conoscenza e di capacità intellettuali tali da potersi salvare ed evitare la perdita della propria anima, come potrebbe scegliere di ignorare la propria salvezza? Non esiste di certo peggiore abiezione e follia! E colui che si comporta in questo modo vale meno delle bestie e degli animali, i quali per natura cercano la propria sopravvivenza, e perciò scappano per evitare tutto ciò che considerano una minaccia per la loro incolumità.
E colui che conduce la propria esistenza senza verificare se il proprio comportamento sia buono o cattivo è come un cieco che cammina sugli argini di un fiume: certamente si trova in grandissimo pericolo e ha più probabilità di soccombere che di salvarsi. Poiché infatti la mancanza di attenzione è la stessa, che sia dovuta a motivi naturali o a una cecità volontaria, cioè quando si chiudono gli occhi per scelta e per volontà.
E infatti [il profeta] Yirmiah (Geremia) si lamentava della malvagità dei suoi contemporanei, affetti da questo difetto, poiché distoglievano il loro sguardo dalle proprie azioni, senza analizzarle per decidere se queste meritassero di essere compiute o meno. E di loro disse (Geremia 8, 6): “Nessuno si rammarica per la propria malvagità, […] tutti continuano a correre come un cavallo che si lancia in battaglia”. Ciò significa che rincorrevano di continuo le proprie abitudini e le consuete usanze, senza dedicare tempo a valutare i propri atti e il proprio comportamento e incorrevano così nel male senza prevederlo.
E infatti questo è proprio uno dei trucchi e una delle astuzie dello “Yetzer Harà”, l’istinto malvagio: aggravare continuamente la pressione sullo spirito degli esseri umani finché non rimane loro nemmeno un attimo per riflettere e pensare alla strada che stanno percorrendo. Questo, perché [lo Yetzer] sa che se essi prestassero una pur minima attenzione al loro percorso, sicuramente comincerebbero subito a pentirsi dei loro atti, e il loro pentimento aumenterebbe progressivamente fino all’abbandono totale del peccato. E questo assomiglia al piano di Faraone il malvagio, che disse (Esodo 5,5): “Che il lavoro 2 degli uomini sia reso più difficile ecc.”, perché non intendeva lasciare loro nemmeno un istante per rendersi conto [della loro condizione] o per ordire un piano contro di lui. Invece, attraverso l’effetto del lavoro continuo e incessante, egli si sforzava di distogliere la loro attenzione da qualsiasi riflessione. Proprio in questo modo funziona la trama dello Yetzer Hara nei confronti dell’uomo. Perché è un combattente bellicoso e un esperto in stratagemmi: non gli si può sfuggire se non con grande ingegno e molta attenzione.
Ed è per dire questo che tuonava il profeta (Chaggay 1,5 e 1,8): “Fate attenzione al vostro comportamento!” E il re Salomone disse con la sua saggezza (Proverbi 6, 4-5): “Non concedere il sonno ai tuoi occhi né il torpore alle tue palpebre: mettiti in salvo come il cervo ecc.”. E i nostri Maestri dissero (Talmud Bavli, Trattato di Moed Kattan, foglio 5a): “Chiunque si prenda cura della propria condotta in questo mondo meriterà di vedere la salvezza del Santo, benedetto Egli sia”.3
Ed è chiaro che perfino se si bada a sé stessi, non è possibile salvarsi senza l’aiuto del Santo, benedetto Egli sia, perchè l’istinto malvagio è violentissimo (si veda Talmud Bavli, Trattato di Kiddushin, foglio 30b). E come dicono i Testi (Salmi 37, 32-33): “Il malvagio osserva il giusto e cerca di ucciderlo: D-o non lo abbandonerà ecc.”. L’uomo si salva dall’istinto malvagio solo se prende cura di sé stesso, perché il Santo, benedetto Egli sia, lo aiuta. Ma se l’uomo non bada a sé stesso, certamente il Santo, benedetto Egli sia, non lo farà per lui; poiché se egli stesso non ha cura di sé, chi ne avrà per lui? Ciò è simile al concetto esposto dai Maestri di benedetta memoria (Talmud Bavli, Trattato di Berakhot, foglio 33a): “È vietato avere pietà di chi è privo di conoscenza”.4 Ed è ciò che dissero nelle Massime dei Padri (Avot 1, 12): “Se io non mi prendo cura di me, chi lo farà per me?”
Note del Traduttore:
[1] Si ricordi qui la Beraita di Rabbi Pinchas ben Yair esposta nell’introduzione: “La Torà conduce alla prudenza, la prudenza conduce allo zelo, lo zelo conduce all’integrità, ecc.”
[2] Ovviamente si tratta dei lavori della schiavitù degli Ebrei in Egitto.
[3] Abbiamo volutamente scelto la traduzione letterale perché il Ritva (Rabbi Yom Tov ibn Asevilli, capo della Yeshivà e rabbino di Siviglia due secoli prima della cacciata degli Ebrei dalla Spagna) propone due interpretazioni di questo passaggio. La prima è quella più evidente: la salvezza dell’uomo grazie all’intervento del Signore. La seconda, più ardita: la salvezza di D-o stesso, che “soffre” in esilio con il popolo d’Israele (come suggerito dal versetto dei Salmi 91, 15). Si ringrazia il Kollel Iyun Hadaf di Gerusalemme e il caro Rav Kornfeld per averci offerto questa precisazione.
[4] Non si tratta ovviamente di chi ha facoltà mentali limitate: si parla di una persona che ha ricevuto dal Creatore un intelletto abile ma che decide scientemente di sprecare questo dono.
Capitolo 2: Il concetto di prudenza
I successivi capitoli sono dedicati al tema della prudenza secondo un’architettura che si ripeterà per altre middòt: “Le componenti della prudenza”, “Come acquisire la prudenza”, “Gli ostacoli della prudenza e come evitarli”. Prudenza significa: pensare a ciò che si fa. Anche Maimonide negli Shemonah Peraqim, fine cap. 4, insisteva sul fatto che non è sufficiente la buona volontà per fare il bene. L’uomo deve continuamente soppesare le sue azioni ed evitare gli estremi. Essendo provvisto di intelletto, l’uomo non può affidarsi a spinte istintive o a semplici intuizioni passeggere per impostare il proprio comportamento. Se gli è stato dato l’intelletto, si presume che lo debba adoperare. Altrimenti è persino peggiore degli animali, che hanno per lo meno l’istinto di evitare il pericolo. Senza l’uso dell’intelletto l’uomo è perduto. Della differenza fra uomo e animale danno conto le rispettive parole in ebraico. אדם (“uomo”) ha lo stesso valore numerico di מה (“che cosa?”), nel senso che l’essere umano è portato a interrogarsi continuamente sulla propria essenza, mentre l’animale è privo di essenza: בה-מה (lett. “che cosa c’è in essa?”).
E colui che conduce la propria esistenza senza verificare… è come un cieco. “Il principio della filosofia è lo stupore”, affermava Platone. Lo stupore rappresenta la spinta più forte che abbiamo verso l’azione. Il fatto stesso di stupirci nell’osservare il mondo che ci circonda deve stimolarci a interrogarci sul senso e lo scopo della nostra vita.
Che (la cecità) sia dovuta a motivi naturali o a una cecità volontaria. Nel primo caso l’uomo manca di attenzione, nel secondo si astiene per scelta, cioè perché non vuole pensare. Il risultato è lo stesso.
Senza dedicare tempo a valutare i propri atti. Yirmeyahu non rimprovera i suoi contemporanei perché vogliono comportarsi male, bensì perché non fanno attenzione a come si comportano. L’uomo è desideroso di fare il bene, ma non si dà il tempo di ponderare le proprie scelte. Il principale impedimento a questa riflessione, per cui ci consegniamo a un attivismo sfrenato “come un cavallo che si lancia in battaglia”, è proprio la mancanza di tempo. E l’attivismo è una delle “tattiche” suggerite dall’Istinto del Male. Era precisamente il proposito del Faraone in Egitto nel momento in cui ci ha resi schiavi, ed anche l’idea dei costruttori della Torre di Babele. Essi avevano riscontrato che il diluvio era intervenuto per via della divisione che si era prodotta nell’umanità e pretesero di correre ai ripari. La costruzione della Torre avrebbe impegnato alcune generazioni e il progetto comune le avrebbe distolte da liti e contrasti. Il mondo moderno ha creato la “cultura del tempo libero” per riempire il vuoto lasciato dallo sviluppo tecnologico che consente di delegare alle macchine molte attività produttive essenziali cui un tempo l’uomo doveva dedicarsi in prima persona. Questa “cultura” si fonda sull’esigenza di evitare all’uomo la depressione conseguente al fatto di aver troppo tempo libero per riflettere su se stesso…
Che il lavoro degli uomini sia reso più difficile… A seguito delle pressioni da parte di Moshe e Aharon sul Faraone affinché alleggerisse il lavoro degli Ebrei schiavi, il re d’Egitto reagì aumentando l’impegno: d’ora in avanti gli Ebrei avrebbero dovuto procurarsi la paglia, che prima era loro fornita, per produrre lo stesso numero giornaliero di mattoni. Il Midrash (Shemot Rabbà 5,18) interpreta l’episodio in modo diverso: Moshe e Aharon avrebbero richiesto al Faraone il riposo sabbatico. Il re d’Egitto, sapendo che gli Ebrei avrebbero adoperato il loro tempo libero per farsi una coscienza e aspirare alla libertà, lo negò. L’Istinto del Male si comporta verso ciascuno di noi come il Faraone. Il seguito del versetto contiene un gioco di parole: יעשו-ישעו …e lo facciano, invece di volgersi a cose false”. Le “cose false” agli occhi del Faraone non sono altro che le “cose vere”, cui non si deve concedere tempo agli Ebrei schiavi di pensare.
Chiunque si prenda cura della propria condotta. Lett. כל השם אורחותיו ha-sham. Cfr. Shemonah Peraqim, cap. 4: “E i Maestri hanno accennato a questo argomento, dicendo: Chiunque ponderi le proprie azioni avrà il merito di vedere la salvezza di D., come dice il verso:
ושם דרך אראנו בישע אלקים “A chi si mette (sam) nella via diritta farò brillare la salvezza di D.” (Tehillim 50,23). Non leggere “chi si mette”, ma “chi pondera” e “ponderazione” significa misura e senso critico”. Anche qui vi è un gioco di parole basato sul puntino della shin: se posto a sinistra, il verbo (sam) avrà il senso di “mettersi” e questo è il senso letterale del versetto. Ma i Maestri, utilizzando la regola midrashica al tiqrey, che consente una leggera modifica alla lettura della parola, lo leggono come se fosse a destra (sham) e il verbo prende il senso assai più profondo di “valutare, stimare, ponderare”. Ramchal ripropone il medesimo gioco di parole citando il versetto di Chaggay: שימו לבבכם על דרככם“ Fate attenzione (lett. mettete attenzione) al vostro comportamento”.
Ed è chiaro che perfino se si bada a se stessi, non è possibile salvarsi senza l’aiuto del Santo, benedetto Egli sia. La volontà dell’uomo non è sufficiente, ma comunque necessaria. L’Istinto del Male è collocato nella natura, il S.B. al di sopra di essa: tutto ciò che sta sopra la natura domina la natura. Per forza di cose l’uomo che aderisce al S.B. si innalza al di sopra della natura e quanto più aderisce all’Eterno tanto più riesce a tenere a freno il proprio istinto, a governarlo e a indirizzarlo al bene. Si può paragonare l’uomo a un cocchiere. Se questi non riesce a dominare i cavalli mediante le redini, i cavalli lo trascinano dove vogliono. Se invece ci riesce, può approfittarsi della loro potenza per raggiungere mete anche molto distanti. Il Midrash dice: “I malvagi sono dati in possesso dei loro cuori (istinti), mentre i giusti hanno il possesso dei loro cuori e assomigliano al loro Creatore” (Bereshit Rabbà 34,10): ovviamente non si tratta di una predestinazione, ma di una scelta individuale. Il cristianesimo predica il distacco dagli istinti perché sono male per definizione. Noi ebrei crediamo invece che l’Istinto, una volta che si riesca a servirsene per il bene, può ampliare le nostre potenzialità positive a dismisura.
Chi lo farà per me? La tradizione chassidica intende אני come uno dei Nomi di D. e lo considera come un appellativo della Shekhinah. “Quando l’uomo attira su di sé la Qedushah del Creatore e fa posare su di sé la Shekhinah, allora la persona è chiamata “io” per via della Shekhinah posatasi su di lui. Ma fintanto che la persona non ha raggiunto questo livello, deve essere umile ai propri occhi come se non esistesse” (No’am Elimelekh a Wayqrà 19,2, che interpreta a questa stregua Sukkah 53a: “Hillel diceva: se Io sono qui, tutto è qui; ma se Io non sono qui, chi è qui?).
Capitolo 3 – Le componenti della Prudenza
Chi vuole avere cura di sé deve tenere in conto due considerazioni:
- Quale sia il vero bene che l’uomo deve scegliere; e quale sia il vero male dal quale deve invece fuggire.
- [La qualità delle] proprie azioni, per vedere se esse appartengano alla categoria del bene oppure a quella del male.
E questo è [necessario] sia quando si tratta di agire, sia quando non è il momento dell’azione:
– Quando si agisce, si osservi di non compiere alcun atto senza dapprima considerarlo secondo i criteri esposti qui sopra.
– E fuori d’azione, si rimemorino tutti i propri atti e li si valutino seguendo le stesse considerazioni, per vedere quanto di quel male essi contengano per poterlo eliminare; e quanto di quel bene, per poterlo conservare e rafforzare. E se si rileva un elemento negativo nel proprio comportamento, bisogna riflettere e valutare mentalmente quale rimedio adottare per allontanarsi da quel problema e diventarne immune.
Questo concetto ci fu comunicato dai Maestri di benedetta memoria, che dissero (Talmud Bavli, trattato di Eruvin, foglio 13b): “Sarebbe stato meglio per l’uomo non essere mai stato creato, piuttosto che esserlo; ma poiché ormai è stato creato, egli deve “setacciare” le proprie azioni, e c’è chi dice che deve “sondare” le proprie azioni”.
E vedrai che ambedue queste espressioni sono utili e appropriate, perché “setacciare” le [proprie] azioni significa esaminare l’insieme dei [propri] atti e soppesarli: forse tra di loro ce ne sono alcuni che non devono essere messi in atto e che non sono conformi alle Mitzvot di D-o e ai suoi decreti; quelli che fanno parte di questa categoria dovranno essere eliminati del tutto. Mentre “sondare” implica passare in esame perfino le [proprie] azioni positive: valutare e controllare se esse comportino una tendenza che non sia positiva o una qualunque componente negativa che si dovrà togliere ed eradicare, un po’ come quando si scuote un indumento per verificare se sia solido e robusto oppure logoro e consumato. Così sonderà il proprio comportamento per esaminarne la qualità nei minimi particolari per ritrovarsi puro e limpido. La regola generale: che l’uomo osservi tutti i propri atti, sorvegli tutte le proprie pratiche, per non concedersi alcuna cattiva abitudine o difetto e a maggior ragione nessun peccato o crimine. Infatti io penso che l’uomo debba vagliare e soppesare quotidianamente la propria condotta, come i grandi commercianti che sottopongono le proprie attività a calcoli incessanti per evitare che esse vadano in rovina. E che fissi date e ore regolari per farlo, affinché l’esame avvenga con grande puntualità e non sia effettuato in modo saltuario, perché le sue conseguenze sono capitali.
E i nostri Maestri di benedetta memoria ci hanno insegnato esplicitamente che questa valutazione è necessaria, come dissero nel Talmud Bavli (Trattato di Baba Batra, foglio 78b) riguardo al versetto (Numeri 21, 27): “Perciò i dominatori diranno ‘facciamo i conti’.1 Cioè, quelli che dominano il loro istinto diranno ‘facciamo i conti al mondo’: il costo di una Mitzvà rispetto alla sua ricompensa ed i benefici di un peccato rispetto ai danni che esso procura ecc.’.” E [furono loro a dare] questo consiglio di verità perché esso non può provenire e non può essere percepito correttamente se non da coloro che sono già sfuggiti al potere del loro istinto e anzi lo dominano. Perché gli occhi di chi è ancora prigioniero del suo istinto non vedono questa verità ed egli non può venirne a conoscenza, perché l’istinto lo acceca letteralmente, ed è come se camminasse nel buio davanti a ostacoli che i suoi occhi non possono scorgere.
E questo è ciò che dissero i nostri Maestri di benedetta memoria (Talmud Bavli, Trattato di Baba Metzia 83b), riguardo al versetto (Salmi 104, 20): “‘Hai calato l’oscurità ed è scesa la notte’: si tratta di questo mondo che assomiglia alla notte”. E renditi conto di quanto sia meraviglioso questo vero insegnamento per chi lo esamina attentamente per capirlo! Difatti, l’oscurità della notte può indurre l’occhio umano in due tipi di errore: può coprire l’occhio al punto che non vedrà niente di ciò che ha davanti; oppure può ingannarlo al punto da fargli scambiare una figura umana con un palo o viceversa.
Allo stesso modo, la materialità e la fisicità di questo mondo sono come il buio della notte per l’occhio della ragione, ciò che lo induce in due errori:
- Non gli consente di vedere gli ostacoli presenti nelle strade del mondo, sicché gli stolti procedono baldanzosi e poi cadono e si perdono, senza nemmeno avere il tempo di spaventarsi. Ed è questo il senso del testo (Proverbi 4, 19): “Il cammino dei malvagi è buio, non sanno cosa li fa inciampare”; ed è detto (Proverbi 22, 3): “Il furbo vede il male2 e si nasconde, mentre i dissennati continuano e vengono puniti”; e dice (Proverbi 14, 16): “Lo stolto avanza con furore e si crede al sicuro”.3 Perché il loro cuore è pienamente sicuro e cadono prima ancora di scorgere l’ostacolo.
- Il secondo errore è peggiore del primo: la loro visione li inganna al punto che vedono il male come se fosse proprio un bene, e inversamente [scambiano] il bene per il male. E in questo modo si intestardiscono e conservano la loro pessima condotta. Poiché non soltanto manca loro la visione autentica per distinguere il male che si trova davanti ai loro occhi, ma addirittura credono di vedere prove definitive e dimostrazioni convincenti per le loro pessime convinzioni e le loro ingannevoli opinioni. E questo è il grave malanno che li avvolge e li conduce alla scomparsa definitiva. E questo è ciò che disse il versetto (Isaia 6,10): “Il cuore di questo popolo sia rivestito di grasso, le sue orecchie assordate e i suoi occhi ricoperti, affinché ecc.”, e tutto ciò perché erano avvolti dall’oscurità e sottomessi al dominio del loro Yetzer, l’istinto malvagio.
Ma coloro che sono già usciti da questa prigione vedono la pura verità, riguardo alla quale sono in grado di prodigare consigli alle altre persone. Questa situazione può essere descritta con un esempio: essa è simile a un labirinto che ha la forma di un giardino, utilizzato per questo gioco ben noto alla classe dirigente e nel quale le siepi sono disposte come dei muri, tra i quali si confondono infiniti meandri intricati e tutti simili tra di loro; e il fine del gioco è riuscire ad arrivare a un portico collocato in mezzo [al giardino]. E infatti alcuni di quei passaggi sono autentici e arrivano veramente al portico, altri invece ingannano l’uomo e lo allontanano da esso.
E infatti colui che percorre quei sentieri non può vedere né discernere se sta seguendo un percorso valido oppure uno fittizio, poiché essi appaiono identici e non presentano alcuna differenza a chi li osservi, a meno che questi non sia un esperto in grado di riconoscere la strada da un suo determinato aspetto che gli è familiare, avendo già effettuato il percorso arrivando [con successo] alla meta, che è il portico. E chi già si trova nel portico vede tutti gli itinerari davanti sé e distingue [chiaramente] tra quelli veri e quelli falsi, e può perciò suggerire a chi li percorre: “Scegliete questa direzione!” E chi vorrà credergli raggiungerà la destinazione desiderata; e chi non vorrà credergli e deciderà di seguire la propria visione, si perderà di certo e non ci arriverà.
Anche questo sistema funziona così: chi non ha ancora dominato il proprio Yetzer si trova in mezzo ai meandri e non può distinguere tra di loro4; ma coloro che dominano il proprio istinto e sono già arrivati al portico, dopo essere usciti dal tracciato e averne ottenuto una visione precisa con i propri occhi, questi sono in grado di fornire consigli a chi è disposto ad ascoltare, ed è loro che bisogna credere.
E qual è il consiglio che ci danno? “‘Fate i calcoli!’ Cioè ‘fate i calcoli del mondo’!”5 Infatti essi hanno già provato, visto e imparato che questa è per l’uomo l’unica autentica via per giungere a quel bene che sta cercando e che non ce n’è nessun’altra.
La regola è che l’uomo deve tenere costantemente la propria mente sotto osservazione: qual è secondo la legge della Torà la vera strada che egli deve percorrere? In seguito passerà in esame le proprie azioni, per vedere se esse seguano questa strada o meno. Perché in questo modo gli sarà certamente facile affinare la propria persona e correggere tutti gli aspetti del proprio comportamento, come è detto (Proverbi 4, 26): “Considera attentamente le tue abitudini e potrai avanzare con sicurezza6.” Ed è detto (Lamentazioni 3, 40): “Osserviamo le nostre vie, esaminiamole e facciamo ritorno all’Eterno”.
Note del Traduttore:
[1] In realtà la traduzione letterale del versetto è molto diversa: “Perciò i falsari diranno ‘venite alla [città di] Cheshbon’.” I saggi della Ghemarà hanno utilizzato questo versetto per dare un insegnamento morale del tutto estraneo allo Pshat, il significato semplice del testo della Torà. Commentatori come Rashi e Rashbam hanno infatti notato che questo Pshat non offre nuove informazioni al lettore e perciò gli si deve attribuire una chiave di lettura alternativa, come perciò hanno fatto i Maestri (secondo il principio per cui niente è superfluo nella Torà). Altri commentatori, come il Maharal e il Maharsha, hanno invece proposto un nesso logico tra lo Pshat del versetto e l’interpretazione morale suggerita dai Maestri.
[2] La punizione del peccato, che la persona assennata evita di commettere (commento di Rashi al versetto).
[3] Seconda spiegazione di Rashi, che abbiamo scelto perché adottata anche dal Malbim e dal Metzudat David. Secondo la prima spiegazione avremmo invece tradotto “Lo stolto avanza con furore e cade”.
[4] Distinguere il percorso valido da quello sbagliato.
[5] Ripresa del versetto già citato all’inizio del capitolo e nella nostra nota 1.
[6] Una traduzione più letterale direbbe: ”Aggiusta il percorso dei tuoi piedi e tutte le tue vie saranno pronte”. Trattandosi del libro dei Proverbi di re Salomone, è ovvio che l’insegnamento principale del versetto è quello che si legge fuor di metafora.
Commento al Capitolo 3
…due considerazioni…sia quando non è il momento dell’azione. Ramchal ritiene che prima occorra investigare quale sia il bene e il male in sé e per sé sul piano teorico e poi osservare le sue azioni se si attengono al bene piuttosto che al male sul piano pratico. Per esempio: non basta all’uomo sapere che l’umiltà è una virtù; occorre anche sapere che l’umiltà ha dei limiti superati i quali non è più considerata una virtù. Questa seconda analisi si divide a sua volta in due momenti: non solo va attuata quando si è in procinto di agire, ma anche dopo aver intrapreso l’azione “a bocce ferme” si deve verificare se l’azione nel frattempo compiuta quanto contenga di male da tralasciare per l’avvenire e di bene nel quale perseverare.
Quale sia il vero bene… e quale sia il vero male. Dall’esperienza quotidiana sappiamo che non sempre ciò che appare bene a prima vista si rivela poi esserlo veramente. Altrettanto dicasi per il male.
Sarebbe stato meglio… L’argomento è già affrontato in Qohelet 4,2 ed è discusso dai Maestri (cfr. Avot 4,28: “tuo malgrado fosti concepito”). E’ peraltro documentata anche la visione ottimistica. Commentando Bereshit 1,31 “E D. vide tutto ciò che aveva fatto ed ecco era molto buono”, Nachmanide scrive: “si riferisce all’esistenza”. Alcuni fanno notare che qui il Talmud non riporta טוב bensì נוח che significa propriamente: “sarebbe stato più comodo”, piuttosto che “sarebbe stato meglio”. Occorre anche distinguere fra la creazione della specie, che fu interrogata prima di essere creata (Rosh ha-Shanah 11a) e quella del singolo individuo.
Sondare le proprie azioni. Ramchal rivela qui un acume psicologico notevole. Egli interpreta la distinzione talmudica fra “setacciare” e “sondare” le proprie azioni nel senso che non è sufficiente distinguere fra ciò che è bene e ciò che è male. Occorre anche distinguere all’interno delle azioni positive fra ciò che è fatto fine a se stesso e ciò che è compiuto per secondi fini. Nella confessione dei peccati dello Yom Kippur secondo il rito sefardita è incluso anche: “Abbiamo compiuto Mitzwòt non in nome del Cielo”.
Vagliare e soppesare quotidianamente la propria condotta come i grandi commercianti. Nel Settecento era comune nella vita ebraica l’istituzione delle chevrot (“confraternite”) i cui membri si obbligavano a discipline particolari. Conosciamo fra le altre quella di Ramchal a Padova e quella di R. Yossef David Azulay (Chidà) a Livorno. Fra le prassi attuate vi era quella di tenere un diario etico in cui erano annotati quotidianamente i buoni propositi e le azioni compiute, nonché le trasgressioni da cui si volevano prendere le distanze. Sappiamo così che nell’anno 5536 (1776) Chidà si risolse ad evitare ogni forma di collera, a non fare maldicenza, a non mentire, lusingare, mangiare in eccesso, a concentrarsi meglio nella Tefillah, ad incrementare la Tzedaqah. Ogni settimana gli appunti dovevano passare verifica e possibilmente essere discussi con un compagno. Più frequente è la verifica, meno gravosa essa è. Peraltro, onde evitare che diventi fonte di ossessione, è uso consolidato dedicare a essa i fine-periodo: la fine del giorno, il fine settimana, il fine mese (la vigilia di Rosh Chodesh è Yom Kippur Qatan), la fine dell’anno (Elul): gli inizi rispettivi richiedono infatti all’uomo un’energia senza troppe limitazioni.
Facciamo i conti. La fonte è Bemidbar 21,27: Per questo dicevano i moshelim (poeti): Venite a Cheshbon! Sia riedificata e ristabilita la città di Sichòn. Il versetto si riferisce alla guerra contro Sichon, ma si presta ad alcuni giochi di parole: moshelim = “poeti”, ma anche = “dominatori”; Cheshbon = nome di città, ma anche = “calcolo”. Cfr. Bavà Batrà 78b: Diceva R. Shemuel bar Nachman a nome di R. Yochanan: I moshelim sono coloro che dominano il proprio istinto. “Venite a Cheshbon” significa: Venite ad eseguire il calcolo del mondo, cioè quanto vale lo svantaggio momentaneo nell’eseguire una Mitzwah rispetto alla ricompensa che se ne ha a lungo termine e il vantaggio momentaneo di una trasgressione rispetto alla perdita a lungo termine che ne deriva. Se farai così “sarai riedificato” in questo mondo e “sarai ristabilito” nel Mondo a Venire. Va peraltro osservato che i grandi Giusti che sono giunti a dominare il proprio istinto possono a posteriori solo insegnarci il metodo per correggerci a nostra volta. Ma la correzione in sé è un fatto individuale.
Hai calato l’oscurità ed è scesa la notte. Il verso è tratto da Tehillim 104, che contiene una splendida descrizione della natura. Fra le altre creature, vi si parla delle bestie feroci che escono dalle loro tane proprio di notte alla ricerca della preda. Esse simboleggiano i pericoli che l’uomo corre nell’oscurità. Nel buio l’uomo o non vede del tutto, o scambia ciò che è bene per ciò che male e viceversa. Talvolta con le migliori intenzioni si commettono i mali peggiori.
Ma coloro che sono già usciti da questa prigione vedono la pura verità. Ricorda il “mito della caverna” nella Repubblica di Platone. Si immagina una caverna sotterranea dove stiano incatenati fin dall’infanzia uomini legati in modo da poter guardare soltanto verso la parete di fondo. Essi non vedranno altro che le ombre di ciò che passa all’esterno della caverna alle loro spalle e che la luce di fuori riflette sulla parete davanti a loro. Non possono certo immaginare che quelle ombre non siano vere realtà e che derivino da oggetti solidi di cui per il momento non hanno conoscenza. Se uno di loro riuscisse a liberarsi e potesse finalmente volgere il capo stenterebbe a riconoscere di avere sempre creduto reali solo delle ombre. E se dopo essere uscito dalla caverna vi ritornasse non riuscirebbe a persuadere i prigionieri che l’intera loro conoscenza ha per oggetto solo ombre evanescenti e probabilmente finirebbero per ucciderlo.
Essa è simile a un labirinto. Secondo la testimonianza del Chidà, che ha visitato il luogo, Ramchal pensava al Giardino di Villa Giusti a Verona. Un altro labirinto si trova nel giardino di Villa Pisani a Stra, presso Padova.
L’uomo deve tenere costantemente la propria mente sotto osservazione. Ramchal segue qui Maimonide. Non è la spontaneità, l’immaginazione o l’intuizione passeggera su cui si basa l’azione dell’uomo che aspira alla perfezione. L’esame intellettuale deve essere compiuto dall’individuo “nel suo isolamento” e nessuna “terapia di gruppo” lo può efficacemente sostituire.