Immaginate una corsia d’ospedale dove i nuovi degenti vengono accolti per la prima volta dopo l’accettazione. Il primario li riceve e dopo aver assegnato a ciascuno il suo letto mostra loro i due armadi collocati a due angoli opposti della camerata. “Questo armadio – spiega il medico indicando il primo – è un deposito di strumenti che non adoperiamo e pertanto se anche li toccate non succede niente. Ma quest’altro, invece – aggrotta la voce, spostando l’attenzione sull’altro armadio all’angolo di fronte- contiene strumenti sterili.
Ciò significa che hanno subito un trattamento speciale volto a eliminare tutti i germi dalla loro superficie e se li toccate li contaminate. Se pertanto noi senza saperlo li adoperiamo su di voi dopo che li avete toccati correte un gran pericolo di vita. Dovete perciò stare bene attenti a non mettere le mani nel secondo armadio, mentre il primo non costituisce problema”. Il primario li saluta, augura pronta guarigione a tutti e dà loro appuntamento per l’indomani.
La mattina successiva il medico ritorna in corsia e si rende conto che qualcosa era successo. Gli oggetti contenuti nei due armadi erano palesemente stati scambiati. Interrogò gli ammalati, i quali risposero: “Dottore ci scusi. I due armadi sono simili e così pure gli strumenti sono simili. Semplicemente non ci siamo più ricordati che cosa avevamo il permesso di toccare e cosa no”. Il primario, palesemente irritato e preoccupato, non aveva alternative. Disse loro: “Signori miei, se volete uscire guariti da qui non mi resta che proibirvi di toccare entrambi gli armadi”. Egli era peraltro consapevole della differenza. Ma non potendo più contare sulla consapevolezza altrui dovette prendere il provvedimento salvavita e agire con rigore, nell’interesse dei degenti stessi. Perché in questo caso un’infrazione commessa non dico di proposito, ma anche dovuta a semplice errore, disattenzione o confusione, poteva costare loro la vita.
Questa metafora spiega per quale motivo i Chakhamim si siano sentiti autorizzati fin da antico, dall’epoca degli אנשי כנסת הגדולה Uomini della Grande Assemblea come dice il Pereq di oggi proprio all’inizio, לעשות סייג לתורה a “fare una siepe intorno alla Torah” (n. 1). La Torah è Torat Chayim, “legge di vita”: la medicina del nostro spirito, l’unica garanzia di sopravvivenza della nostra anima. Essa è il nostro marpè, la nostra cura spirituale imprescindibile. Ma affinché faccia effetto, ci prescrive una disciplina che siamo tenuti a seguire scrupolosamente. I medici della nostra anima, che vigilano sul progresso delle terapie e in definitiva sulla nostra salute, sono i Chakhamim. Vi sono situazioni in cui le regole possono essere facilmente confuse e pertanto disattese. Farò un esempio per tutti. La Torah proibisce di cucinare e mangiare il capretto nel latte di sua madre. A rigore di Torah è proibita dunque la mescolanza di carne e latte limitatamente ai mammiferi. Ma i Chakhamim sono consapevoli della somiglianza esistente fra una cotoletta di vitello e una di tacchino. Per evitare ogni confusione da parte nostra hanno esteso il divieto anche a quest’ultima, sebbene sia difficile immaginare che un pollo possa essere cotto nel latte di una gallina.
Chi ha conferito ai Maestri una simile autorità? La Torah stessa! Nell’ultimo versetto della Parashat Acharè Moth odierna è scritto:
ושמרתם את משמרתי “E custodirete la Mia custodia” (Wayqrà 18,30):
עשו משמרת למשמרתי “fate un argine di protezione a ciò che vi protegge” (Mo’ed Qatan 5a). Chiunque si trovasse in possesso di un tesoro o di un capitale prezioso prenderebbe qualsiasi provvedimento onde evitare che sia rubato o anche semplicemente manomesso. Tanto più se si tratta, come dicevamo, di un dispositivo salvavita, perché non c’è per noi bene più unico e irripetibile che la vita medesima. I Pirqè Avot insistono particolarmente sul fatto che il rigore non riguarda soltanto i meno esperti, ma anche i Maestri allo stesso modo. Nello stesso capitolo di oggi “Avtalyon soleva dire: חכמים היזהרו בדבריכם שמא תחובו חובת גלות Chakhamim, state bene attenti alle vostre parole, perché potreste meritare la pena dell’esilio e in finire in luogo delle acque cattive. Potrebbero berne i vostri discepoli e morirne e il Nome del Cielo ne risulterebbe profanato” (n. 11).
Molte interpretazioni sono state date di questo brano. Una di queste fa proprio riferimento alla necessità della “siepe”. “Chakhamim –ammonirebbe Avtalion- state attenti voi stessi per primi a mettere in pratica le vostre parole. Sebbene voi siate sapienti, non fidatevi troppo della vostra sapienza: potreste incorrere in errore a vostra volta e trasgredire a qualche divieto della Torah. In tal caso la responsabilità sarebbe amplificata dal fatto che, a differenza dei privati cittadini, voi avete chi vi guarda. I vostri discepoli potrebbero prendere esempio negativo da voi e tramandare come prassi i vostri errori. La conseguenza di ciò potrebbe essere devastante. Potreste meritare la pena dell’esilio e trascinare nell’asservimento agli altri i vostri figli e i vostri discepoli dopo di voi. A questo punto saranno i popoli a parlare e cosa diranno? איה נא אלקיהם “Dov’è finito il loro D.?” Ed ecco che il Suo Nome viene profanato.
La Galut, l’esilio, è la pena per tutto ciò. Impariamo anche questo dalla parte finale della Parashah di oggi.
ושמרתם אתם את חקתי ואת משפטי… ולא תקיא הארץ אתכם “Proteggerete voi dunque i Miei decreti e le Mie Leggi… affinché la Terra non vi rigetti” (Wayqrà 18, 26-28). La parola galut deriva dalla radice g.l.h. che nella sua forma più semplice significa appunto “andare in esilio”. Ma nella coniugazione rafforzata essa assume il senso di “scoprire, rivelare”. In un capitolo successivo dei Pirqè Avot è scritto a nome di R. El’azar ha-Moda’ì che המגלה פנים בתורה שלא כהלכה“colui che rivela nella Torah aspetti non conformi alla Halakhah”, cioè alla dottrina dei Maestri, “anche se ha a suo attivo studio di Torah e opere buone, non avrà parte nel Mondo a Venire” (3,15). Il contrappasso è chiaro: l’esilio fisico e geografico non è che una materializzazione dell’esilio spirituale, l’estraniazione di sé da parte di chi crede di potersi sostituire ai Maestri e alla Divinità stessa nell’interpretarne le parole.
Questa settimana ci apprestiamo a festeggiare il 68° anniversario della fondazione dello Stato d’Israel. Esso rappresenta per noi
ראשית צמיחת גאולתנו l’inizio della fioritura della nostra Redenzione dall’esilio. 68 è un numero chiave: è la ghematryà di Chayim, “vita”! Non mi resta che augurare a tutto il popolo ebraico: le-chayim, “per la vita”. ואתם הדבקים בה’ אלקיכם חיים כלכם היום“Voi, che siete rimasti fedeli a H. vostro D., oggi siete ancora tutti in vita!” (Devarim 4,4).