Livorno, 29.5.2022
La guerra, a differenza di quanto è avvenuto nel mondo occidentale e arabo, non ha rivestito un ruolo particolare nella formazione della coscienza del popolo ebraico (vedi Sharir 2010, 198-213). L’evento formativo della coscienza nazionale ebraica è l’uscita degli ebrei dall’Egitto. Gli ebrei non hanno parte attiva nelle dieci piaghe e nell’annegamento degli egiziani nel Mar Rosso. Per lungo tempo, in diaspora, le espressioni bibliche che lodavano l’eroismo militare venivano interpretate allegoricamente e riferite allo studio della Toràh (Di Porto 2016).
Unadelle principali sfide che la generazione del ritorno alla vita nazionale in Israele, era la necessità di formare un esercito capace di confrontarsi autonomamente con i pericoli esterni. Le questioni sollevate non erano solo di natura pratica, ma anche teoretiche ed etiche. Anche il mondo rabbinico si è naturalmente confrontato con la questione, dando l’impressione di sentire di muoversi in un settore halakhico totalmente nuovo (Rones 2010, 175-176). Ad esempio Rav Shelomò Goren (1917-1994), autore dei responsa Meshiv milchamah, che si interessano di questioni militari, scrive (vol. 1, p. 10, cit. in Rones 2010, 176, n. 3):
Questa linea decisionale è differente dalla normale linea decisionale halakhica civile, e in ciò questo libro differisce da tutti gli altri libri di responsa. Circa gli argomenti affrontati in questo libro, non c’è una tradizione decisionale continua di generazione in generazione. Non c’è una sezione corrispondente nello Shulchan ‘Arukh, né nei libri dei decisori. Dalla guerra di Bar Kokhbà, circa 68 anni dopo la distruzione del Secondo Tempio, le norme relative alla guerra, all’esercito e alla sicurezza nazionale non erano attuali nella vita del popolo. Quasi per duemila anni questi problemi sono apparsi come delle norme riguardanti l’era messianica.
Mentre Rav Goren e Yeshaiahu Leibowitz hanno sostenuto l’idea che fosse necessario elaborare nuove categorie halakhiche per rispondere alle domande derivanti dall’esistenza di uno stato ebraico sovrano, Rav Israeli riteneva che lo stato di Israele dovesse rispondere al diritto internazionale, in base al principio Dinà demalkhutà (Afterman e Afterman 2012, 1195, e più diffusamente 1197-1199).
Spesso le risposte alle domande relative alla guerra non seguono la logica degli altri ambiti della halakhah. Rav Waldenberg (cit. in Broyde 2007, 1-2), autore dei responsa Tzitz Eli’ezer riporta un esempio in merito riguardo il riscatto dei prigionieri. In base al principio talmudico non bisogna riscattare i prigionieri versando una somma superiore al loro valore. Rav Waldenberg è stato interrogato circa la decisione di un governo di inviare delle truppe per salvare dei soldati catturati, mettendo in pericolo un numero maggiore di soldati rispetto a quanti se ne potrebbero salvare in caso di successo della missione. Rav Waldenberg premette che le regole della guerra sono differenti da quelle dell’etica individuale, e parimenti le decisioni governative seguono delle logiche differenti. Quella della guerra è una situazione particolare in cui l’uccisione di esseri umani diviene consentita, con modalità che altrimenti sarebbero proibite.
La tradizione ebraica prevede principalmente due categorie di guerra, la guerra di mitzwàh (contro i sette popoli che abitavano Israele, contro ‘Amaleq, e la guerra difensiva) e la guerra di reshut, che veniva promossa dal re e approvata dal Sanhedrin. Come è noto, il grande pensatore ebreo statunitense Michael Walzer (1996) ha espresso l’idea secondo la quale dalle fonti ebraiche emergono delle indicazioni circa la condotta morale della guerra (jus in bello), mentre il tema della giustizia dell’ingaggio della guerra (jus ad bellum) non viene affrontato. Secondo Walzer, che rimane scettico, la grande sfida per i pensatori è quella di creare la categoria della guerra proibita. Avi’ezer Ravitzky (cit. in Rones 2010, 177) non solo crede che ciò sia possibile, ma ritiene che nella pratica sia stato già fatto. Le posizioni espresse dagli studiosi contemporanei rispetto alla classificazione delle guerre sono comunque molto variegate, tanto che alcuni ritengono che al giorno d’oggi le uniche guerre obbligatorie siano quelle difensive, anche se non c’è accordo sulla definizione di guerra difensiva, mentre altri ammettono anche guerre offensive; altri ancora non considerano attuale la categoria della guerra di reshut, mentre alcuni ammettono che possano esservi ancora delle guerre di espansione (Di Porto 2016).
Come cambia la guerra
Negli ultimi decenni la natura della guerra si è modificata in modo sensibile, tanto che le guerre convenzionali sono sempre più rare. La riflessione sull’etica militare in occidente non si è dedicata in modo soddisfacente al terrorismo e alla guerra nucleare (Sharir 2010, 196). Il coinvolgimento esclusivo degli eserciti in carne e ossa nei conflitti è sempre più raro, mentre le questioni etiche legate alla guerra si moltiplicano e divengono via via più sottili. Il testo biblico e i testi tradizionali stentano a fornire delle risposte puntuali alle singole questioni, ma possono invece senz’altro fornire dei principi etici fondamentali, che vane la pena ribadire: la creazione dell’uomo a immagine divina, l’equiparazione fra l’uccisione di un essere umano e la distruzione di un mondo intero, oltre all’insistenza generalizzata sul tema della responsabilità (vedi Berman 202, 96). Rav Goren (cit. in Afterman e Afterman 2012, 1199-1200) in Meshiv Milchamah sottolinea come la salvaguardia della vita umana sia il principio più alto nella Torah, nella halakhah e nell’etica dei profeti, e non sia limitato solo alla salvaguardia delle vite ebraiche, ma di tutti gli esseri umani, creati a immagine divina. Non dovremmo poi imparare dalle guerre bibliche e adottare quei comportamenti. Nelle guerre di conquista di Israele troviamo un regime eccezionale, che non dovrebbe ispirare il nostro comportamento al giorno d’oggi.
I civili in guerra
La discussione fra Walzer e Ravitzky si estende a vari ambiti relativi alla guerra. Ad esempio Walzer ritiene che in esilio gli ebrei siano le vittime, non gli agenti della guerra. Non avendo uno stato e un esercito, il popolo ebraico non ha neppure dei teorici della guerra. Ravitzky è convinto che dalle fonti tradizionali, per quanto esse possano apparire frammentarie, è possibile elaborare un’etica contemporanea della guerra. Walzer porta come esempio quello del trattamento dei civili nemici, tema altamente politicizzato. In un articolo Rav Yitzchak Blau (2006) cerca di sviluppare la linea di pensiero di Ravitzky su questo tema. Per esempio si può sopperire alla mancanza di fonti halakhiche, con l’eccezione del Mishneh Torah di Maimonide, avvalendosi dei commentari agli episodi del libro di Bereshit che vedono i patriarchi coinvolti in dei conflitti (Blau 2006, 8). Negli ultimi decenni ci sono stati vari tentativi sistematici, più o meno condivisibili nelle conclusioni, per affrontare la questione. Ad esempio Rav Shaul Israeli ha mostrato una posizione indulgente. Rav Israeli scrisse infatti un lungo saggio dopo gli eventi di Kibiyeh: dei terroristi palestinesi avevano ucciso una donna e i suoi due bambini e l’esercito israeliano il 10 ottobre 1953 aveva attaccato il villaggio di Kibiyeh, da cui i terroristi provenivano, uccidendo sessanta persone, comprese donne e bambini. Rav David Bleich, Rav Neriah Gutel e Rav Yacov Blidstein hanno scritto dei lavori sul medesimo argomento analizzando le fonti rabbiniche sul tema. Non ci si dovrebbe ingannare e pensare che si tratti di un’intrusione della morale occidentale nel pensiero ebraico; d’altra parte sarebbe molto ingenuo pensare a una guerra in cui i civili non siano coinvolti in nessun modo, particolarmente nelle guerre moderne nelle quali i terroristi e i guerriglieri si trovano sovente in prossimità dei civili (Blau 2006, 9). Walzer ha teorizzato questo punto individuando i casi in cui il danneggiamento dei civili è moralmente accettabile. In alcune circostanze dei gruppi compositi devono essere considerati come se fossero un unico organismo, altrimenti non sarebbe ad esempio imporre delle sanzioni economiche contro un determinato paese, perché in questo modo danneggerei alcuni individui rispettabili che vivono in quel paese. All’opposto far saltare in aria un edificio scolastico con duemila bambini al proprio interno per via della presenza al suo interno di un soldato nemico non sembrerebbe una posizione accettabile. Rav Lichtenstein ritiene che in guerra si debba tener conto di vari fattori: delle nostre perdite umane, di quelle del nemico, e della corruzione morale che la guerra comporta per i nostri soldati. È quindi fondamentale mantenere la bussola morale, evitando alcune azioni militari per via dell’eccessivo coinvolgimento di innocenti, e intraprenderne delle altre, superando le preoccupazioni per i civili nemici (Blau 2006, 9-11).
Un interessante caso (citato in Broyde 2007, 2) che vede coinvolti dei civili, questa volta amici, è quello del rapimento dei soldati da parte dei terroristi. Il governo ha la priorità assoluta di eliminare i terroristi, e in questo tentativo l’uccisione di civili innocenti, come conseguenza collaterale, è considerata ammissibile. L’uccisione dei soldati per mano del fuoco amico non sarebbe quindi considerato un omicidio.
Rav Blau (2006) ritiene che sia ‘ possibile ricavare indicazioni sul comportamento da assumere nei confronti dei civili anche da alcune delle halakhot relative alla guerra. Ad esempio il Ramban nelle sue glosse al Sefer ha-mitzwot di Rambam cita il Sifri come una fonte per l’obbligo di lasciare durante l’assedio della città un lato libero per consentire la fuga a chi non vuole prendere parte ai combattimenti. Secondo il Ramban “in questo modo impariamo a comportarci compassionevolmente, persino verso i nostri nemici, in tempo di guerra”. Rambam riporta questa regola nel Mishnèh Toràh, ma non nel Sefer ha-mitzwoth. R. Meir Simchàh ha-Kohen di Dwinsk, l’autore del Meshekh Chokhmàh alla Toràh, ritiene che questa regola abbia per Rambam unicamente una spiegazione di carattere strategico: in assenza di una via di fuga difatti i combattenti aumenteranno i loro sforzi per avere la meglio. Non vi sarebbe pertanto una spiegazione di tipo religioso, ma unicamente di carattere strategico.
Guerra Nucleare
Gli ebrei hanno avuto un rapporto ambiguo con il nucleare, per via di quanto patito durante la seconda guerra mondiale e nella Shoà. Diversi scienziati ebrei rifugiati dall’Europa hanno avuto un ruolo significativo nell’avanzamento del progetto Manhattan. Consideravano difatti nelle armi nucleari lo strumento per fermare le forze dell’Asse e ritenevano che fosse fondamentale sviluppare questa tecnologia prima dei nazisti. Alcuni, come Einstein ed Oppenheimer, tuttavia dopo la guerra rimpiansero il proprio ruolo e mostrarono delle posizioni critiche sugli armamenti nucleari. L’ambivalenza è comprensibile. Gli ebrei avevano compreso la necessità di scoraggiare i futuri nemici, ma sapevano che questa tecnologia sarebbe potuta finire nelle mani sbagliate, conducendo il mondo in un olocausto nucleare (vedi Brody 2015).
L’uso delle armi nucleari secondo la legge ebraica è estremamente problematico. Se la conseguenza dell’uso degli ordigni nucleari fosse la distruzione della vita umana su larga scala, sarebbe chiaro che la legge ebraica le proibirebbe. Il Talmud difatti condanna una guerra nella quale il numero delle vittime rappresentasse un sesto della popolazione. Nel 1962 Lord Jacobovits (1962, 202, cit. in Broyde 1996, 12) fu molto eloquente, rispondendo a Rav Maurice Lamm, che sosteneva l’idea “meglio morti che rossi”, incitando quindi il martirio, nel presentare la posizione ebraica sull’argomento:
Alla luce di questa vitale limitazione della legge dell’autodifesa, sembrerebbe che una guerra difensiva che possa mettere in pericolo la sopravvivenza delle nazioni che attaccano e di quelle che difendono, se non addirittura dell’intera razza umana, non può mai essere giustificata. Nell’eventualità, quindi, che la scelta posta dalla minaccia di un attacco nucleare sia o la completa distruzione o la resa, solo la seconda può essere moralmente giustificata.
La posizione di Rav Lamm venne contestata anche dal filosofo Michael Wyschogrod, che notava come il martirio riguardasse solo una parte della popolazione, risparmiandone il resto (Brody 2015). A differenza di altri, come Bertrand Russell, Rav Jacobovits e successivamente Rav David Bleich si opposero al disarmo unilaterale.
Secondo Rav Broyde, che riprende le loro posizioni, è necessario operare un distinguo: sebbene sia vietato utilizzare gli ordigni nucleari, non lo è adottare una strategia militare vietata per evitare una guerra. Se è vero che non è giusto rispondere a un’ingiustizia con un’altra ingiustizia, a volte minacciare un torto può evitare che l’altra parte faccia un torto a propria volta. Viene portato l’esempio dell’ammissibilità della menzogna per scongiurare un assassinio. Potrei mentire dicendo a un potenziale assassino che ucciderò i suoi figli se lui ucciderà una certa persona.
L’uso di armi nucleari tattiche, progettate per essere usate solo sul campo di battaglia, in determinate circostanze, quando l’annientamento delle forze nemiche è consentito, ad esempio dopo un giusto avvertimento e la ricerca della pace, sarebbe accettabile (Broyde 1996, 13).
Una argomentazione contro l’uso delle armi nucleari è legata ai danni ambientali che provocherebbero (Brody 2015).
Armi autonome
Lo sviluppo tecnologico ci ha posto di fronte a nuovi dilemmi etici, oggetto della tecno-etica, che si distingue dalla bioetica. Le armi hanno avuto negli ultimi decenni uno sviluppo significativo, limitando l’intervento umano nelle azioni militari. Queste armi prendono il nome di AWS (Autonomous Weapon System). Si tratta di robot che hanno la capacità tecnica, per mezzo di tecnologie avanzate, come l’intelligenza artificiale, il GPS o l’intelligenza facciale, di avvicinarsi agli obiettivi, identificarli e distruggerli senza l’intervento umano. Ci sono degli AWS difensivi, come missili difensivi terra-aria, che sono moralmente ammissibili e persino obbligatori, mentre gli AWS offensivi hanno un profilo legale più problematico (vedi Berman 2020, 93), oltre a presentare delle difficoltà tali da farli considerare una sorta di “linea rossa morale”: difatti questi sistemi potrebbero essere hackerati o potrebbero attraverso la loro stessa autonomia rivoltarsi contro la nazione che avrebbero dovuto difendere (vedi Berman 2020, 94).
Oltre vent’anni fa Rav Lichtenstein notava che la capacità dell’uomo di sviluppare delle tecnologie in grado di infliggere dei danni, fisici e virtuali, senza essere considerati dei criminali secondo la definizione di Nachmanide circa il dinà degarmè (un particolare tipo di danno indiretto), andava crescendo. Per questo Rav Lichtenstein richiamava le autorità halakhiche ad esprimersi su queste nuove realtà, con risultati abbastanza limitati. Il motivo di ciò è attribuibile al fatto che l’attenzione halakhica, in campo militare, tranne rare eccezioni quale il tentativo di Rav Goren di produrre delle norme della tzavà orientate verso il pubblico, riguarda in buona sostanza il singolo soldato religioso (vedi Berman 2020, 101).
Berman (2020, 103), sebbene la discussione halakhica su questi temi non sia ancora sufficientemente sviluppata, conclude che le macchine non dovrebbero avere l’autonomia di uccidere in assenza della supervisione umana.
Riferimenti bibliografici
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Berman, Nadav S. 2020. Jewish Law, Techno-Ethics, and Autonomous Weapon Systems: Ethical-Halakhic Perspectives, in The Impact of Technology, Science, and Knowledge, a cura di E. S. Ancselovits, E. N. Dorff, A. Israel-Vleeschhouwer. Jewish Law Association Studies XXIX. 91-124.
Blau, Yitzchak, 2006. «Biblical Narratives and the Status of Enemy Civilians in Wartime», Tradition, 39:4. 8-28.
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