Un ampio e dettagliato dossier della rivista Jesus in edicola a gennaio 2009 inizia a costruire la tesi della “chiusura identitaria” per spiegare ai fedeli cattolici il “Dialogo Interruptus”
Vittoria Prisciandaro
Di fronte al calo degli iscritti alle comunità, gli ebrei italiani si dividono sul da farsi: puntare su una forte identità religiosa e sulla rigida osservanza dei precetti? Oppure scegliere la via dell’accoglienza e dell’apertura a una società ormai multireligiosa?
Il tempo delle grandi feste, per la signora Elisabetta, è momento di gioia e sconforto. La preparazione di Sukkoth o di Pesach è infatti preceduta dall’impresa di far “quadrare i conti”. «Un po’ perché siamo sparsi sul territorio, un po’ per motivi di lavoro, un po’ perché molti non sentono la necessità di celebrare le festività in sinagoga, quattro, cinque volte all’anno, per sicurezza, oltre al rabbino bisogna chiamare da fuori qualche uomo che ci aiuti a fare minian». Il numero indispensabile di uomini, almeno dieci (minian), per celebrare le preghiere pubbliche è uno dei problemi con cui fanno i conti le decine di piccole comunità di ebrei sparsi in Italia. Elisabetta Rossi Innerhofer, presidente e addetta al culto della storica comunità di Merano, “attinge” da Milano e Venezia, con «costi alti e dispendio di energia».
La sinagoga meranese, l’unica esistente in Trentino-Alto Adige, è stata costruita nel 1901 e ha ospitato personaggi illustri come Franz Kafka. Oggi, nonostante conti poche decine di iscritti, continua a essere il fulcro di un centro assai vivace culturalmente, che promuove iniziative per le scuole e momenti di incontro. «Attività importanti», dice la presidente, «ma che sono di contorno, rispetto a quelle che sarebbero fondamentali per una comunità ebraica».
All’estremo opposto della penisola, nel Meridione, i nuclei di ebrei presenti sono tanto rari da non riuscire a costituire comunità vere e proprie, a parte una piccola realtà a Trani. Tutto il Sud fa dunque riferimento alla sinagoga di Napoli. Alle spalle di piazza dei Martiri, uno dei salotti della città partenopea, nascosto al primo piano di un palazzo nobiliare, il tempio voluto dal barone de Rothschild oggi accoglie una comunità di circa 200 persone. Quando arrivano le festività e mancano quattro famiglie anche la preghiera del sabato è a rischio. Va però sgombrato il campo da un equivoco: «Le comunità sono enti amministrativi che forniscono dei servizi come la scuola, l’educazione informale, il sostegno agli indigenti e agli anziani… e anche il culto, per chi lo vuole. Non sono parrocchie. E il rabbino non è il vescovo, non rappresenta la gerarchia. Direi piuttosto che è un impiegato della comunità», spiega lo storico e saggista Bruno Segre, che è membro della comunità di Milano, la seconda per peso numerico in Italia.
Il capoluogo lombardo, infatti, con i suoi 6.700 iscritti, insieme con Roma (13.500), rappresenta il 70 per cento dei 26 mila ebrei registrati nelle 21 comunità ufficiali esistenti nel nostro Paese e federate nell’Ucei (Unione delle comunità ebraiche italiane): una piccola minoranza religiosa e culturale, in un panorama italiano largamente cattolico, almeno per tradizione. Una minoranza anche al tempo della Seconda guerra mondiale, che tra il 1943 e il 1945 vide deportati più di 8.500 dei suoi membri, dei quali solo poche centinaia tornarono a casa. Eppure, nonostante la Shoah, l’ebraismo italiano è oggi un microcosmo estremamente vivace, al cui interno convivono due tendenze: quella dei cosiddetti “religiosi”, più legati alla stretta osservanza dei precetti della Torah; e un’altra più secolarizzata, per la quale la religione è questione secondaria. «Quest’ultima credo sia la larghissima maggioranza», aggiunge Segre. «Ma entrambe le anime sono unite dallo stesso riferimento a una comune tradizione che ci fa ebrei, un certo tipo di compromesso tra l’accesso alla modernità e il conservare un pezzo, più o meno grande, della tradizione».
Dell’Ucei non fanno parte le “ali estreme”: da una parte alcuni piccoli gruppi dell’ebraismo cosiddetto liberal o riformato, presenti soprattutto a Milano; e dall’altra i movimenti ultraortodossi, come i Chabad Lubavitch, di matrice chassidica e “importati” dagli Stati Uniti o da Israele. Una delle caratteristiche della realtà ebraica italiana, infatti, è «l’appartenenza collettiva della comunità». Il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, ci spiega: «Mentre in altri posti l’ebreo si iscrive al tipo di sinagoga che preferisce – dalla liberal alla superortodossa –, in Italia l’iscrizione a una comunità non dipende dal livello religioso: chiunque sia ebreo può iscriversi in una comunità, e come punto di riferimento resta il rabbinato, che deve essere ortodosso».
Lo statuto dell’Ucei varato nel 1987, dopo l’Intesa firmata con lo Stato in sostituzione della legge fascista del 1930, afferma che «le comunità ebraiche italiane sono organismi gestiti e diretti secondo la legge e la tradizione ebraica. A coloro che vengono eletti si chiede, nell’esercizio delle loro funzioni, di comportarsi in maniera che non contraddica questa essenza». Una definizione molto ponderata che alla fine è risultata «molto saggia, né ipocrita né inutile», dice Amos Luzzatto, presidente dell’Unione dal 1998 al 2006. «A molti rabbini giovani e intelligenti ho sentito dire: a casa liberi di fare come piace, per esempio nell’accensione della luce il sabato, ma non nelle funzioni comunitarie».
Una mediazione che, fosse avvenuta oggi, non è scontato avrebbe avuto lo stesso esito. Se infatti è vero che la maggioranza della comunità mantiene un’anima laica, è altrettanto vero che la nuova generazione di rabbini – quella successiva a Elio Toaff, partigiano e antifascista – sta proponendo la stretta osservanza dei precetti come componente fondamentale dell’identità ebraica, anche in Italia. Tale tendenza, da un lato, è frutto della ventata di chiusura identitaria che spira un po’ su tutte le comunità religiose; dall’altro lato, è stata supportata dal fenomeno migratorio che, in concomitanza con la Guerra dei Sei giorni, ha portato in Italia gli ebrei provenienti dai Paesi arabi, con il radicamento a Roma dei “tripolini”, e a Milano dei “persiani”: migliaia di immigrati più osservanti, che con le loro tradizioni e culture hanno dato nuovo linfa alla comunità italiana, ma hanno anche finito per condizionarne il vissuto. È successo così, per esempio, a Milano dove la scuola ebraica, in passato tradizionalmente aperta anche a ragazzi e docenti non ebrei, oggi è diventata molto rigorosa nel porre un freno all’ingresso di figli di matrimoni misti, in cui la mamma non sia ebrea. Insomma, il luogo comune che parla di un’ortodossia “all’italiana” – si va al tempio di sabato, ma in automobile – sembra ridimensionato. «In fondo non è mai stato vero, perché in tutto il mondo ebraico ci sono centomila livelli di osservanza», nota rav Di Segni, «e la battuta che il livello di osservanza di una persona è dato dalla distanza cui parcheggia la macchina dalla sinagoga non è italiana ma americana».
Il ritorno a una maggiore attenzione ai precetti ha trovato proprio in Di Segni uno dei maggiori sostenitori, sin dal discorso programmatico del suo insediamento: «È finita l’epoca», disse in quella occasione, «in cui la pratica dell’ebraismo sembrava un curioso residuo del passato». Una svolta che ha attratto alcuni e allontanato altri: «Stiamo assistendo a un ritorno all’ortoprassi», commenta Lia Tagliacozzo, giornalista e autrice del volume La melagrana. La nuova generazioni degli ebrei italiani. «E come in tutti i momenti di ritorno ci sono atteggiamenti diversi: dal bigotto a quello più motivato. Da ebrea “affezionata” ma non osservante, sono comunque affascinata da questo nuovo ebraismo ortodosso, perché lo ritengo capace di interpretare e interpellare un patrimonio di sapienza sterminata. L’identità ebraica non si risolve tutta nel tempio ma, anche da laici, è difficile svilupparla sfuggendo il confronto».
Una diversa lettura della situazione dà Pupa Garriba, anche lei saggista e scrittrice, ebrea romana molto critica nei confronti dei vertici del rabbinato: «Stanno compiendo un arretramento precipitoso, perdono terreno e hanno paura. Tornando al passato credono di recuperare adesioni alla comunità, ma non si rendono conto che così allontanano anche quelle persone che avevano resistito finora». Consigliera dell’Associazione nazionale ex deportati, impegnata in attività culturali con la Casa della memoria, frequentatrice assidua del Centro Pitigliani, Garriba rivolge le sue osservazioni su vari fronti: «Mi sembra che si torni a un esercizio tecnico dei precetti – molta più gente per esempio mangia kosher –, ma si perda il vero spirito ebraico, quei valori come l’accoglienza dello straniero che ci vengono dalla lettura della Torah». Inoltre, da qualche anno a questa parte, secondo la scrittrice, si registra un esilio delle donne: «La tradizione ci vuole nei matronei durante la preghiera. E va bene. Ma ora capita che, anche durante le funzioni civili, veniamo relegate in spazi sordi, ciechi e muti, dove è difficile ascoltare e capire cosa succede. E questo perché la nostra presenza ferisce la sensibilità dei supereligiosi!».
Garriba ha deciso di non frequentare più il tempio: «Ho due figlie e un bel po’ di nipoti femmine. Non voglio portarle in luoghi dove si sentono emarginate». Ma questo non significa rinunciare alla pratica religiosa: «Sono un’ebrea tradizionalista. Ed è sempre più consistente il numero di ebrei come me che tagliano i rapporti con le comunità ufficiali». Nel soggiorno della casa di Pupa sono evidenti i simboli della sua appartenenza. In occasione del Capodanno ebraico, i divani vengono traslocati in giardino e si apparecchia per ospitare gli ebrei “marginali”: «Sposi e figli di matrimoni misti, stranieri, irregolari sanno che qui c’è un posto. Per me è diventata una questione di grande valore etico. Forse un ultraortodosso la considererebbe un’eresia. Ma qui la gente si sente accolta, cosa che io non riesco più a trovare in comunità».
Dal Piemonte, regione che ha la maggiore densità di piccole sinagoghe sparse sul territorio, arriva un altro commento sull’attuale situazione: «È vero, nell’ultimo decennio il rabbinato è tornato a chiedere un’osservanza più stretta. Ma il discorso resta aperto e dialettico con la parte più laica», sostiene Claudia Abbina Levi, consigliera di Torino, una comunità di media dimensione (circa 900 persone). Nel capoluogo piemontese, l’interazione della comunità ebraica – legata a nomi famosi come quelli di Primo Levi e di Rita Levi Montalcini – con la città è sempre stata vivace e fruttuosa: «Basti pensare che la Mole antonelliana nasce in origine come progetto di sinagoga», ricorda Claudia. Oggi la scuola ebraica nel quartiere di San Salvario è un luogo dove ancora si impara a rispettare la diversità sin da piccoli: su 170 iscritti, i due terzi non sono ebrei, ma valdesi, cristiani e, negli anni scorsi, anche qualche musulmano.
Nella dialettica che attraversa le comunità ebraiche, vari argomenti hanno infiammato il dibattito. L’ultimo, in ordine di tempo, è la sospensione della partecipazione alla Giornata del dialogo con i cattolici, il prossimo 17 gennaio. Ma le questioni che bruciano di più, negli ultimi tempi, sono le conversioni e i matrimoni “misti”, in cui uno dei due coniugi non è ebreo (più grave nel caso della donna, visto che l’ebraismo è fondato sulla regola della matrilinearità). Il problema è particolarmente sentito, anche perché gli iscritti calano, l’età media si innalza e le piccole comunità fanno fatica a celebrare matrimoni ebraici al cento per cento. «In una società multiculturale è normale che ci sia un aumento dei matrimoni misti e l’allontanamento da una tradizione intesa come rispetto assoluto delle norme. Ma l’ebraismo è anche cultura e modo di vivere», dice Claudia Abbina. D’accordo con la maggiore severità del rabbinato è invece Elisabetta Rossi Innerhofer: «Sarei più attenta a convertire persone che vogliono semplicemente mettere a posto una situazione matrimoniale», dice. «Qui a Merano abbiamo un paio di ragazzi nati da matrimoni misti, ma le famiglie, anche se al momento del matrimonio avevano garantito un’educazione ebraica, adesso dicono che non si ritengono in obbligo, adducendo la scusa che quando saranno maggiorenni decideranno loro».
Su questi due temi ci sono le maggiori divisioni tra l’ebraismo ortodosso e quello riformato. «Bisogna capire la sofferenza di chi per una ragione del tutto casuale, quale è la nascita, si veda escluso da una comunità alla quale senta spiritualmente di appartenere», dice per esempio l’avvocato milanese Ugo Pacifici Noja. «L’ebraismo italiano del mio “lessico familiare” è un “ebraismo liberale”, che io intendo come “accogliente”. Laddove si innalzano le soglie di accettazione, là credo ci sia bisogno di un nuovo slancio, che deve essere graduale e di tipo riformista. Credo che il mondo ebraico sia perennemente in itinere, in cammino. E che non si possa non prendere atto delle mutate condizioni di fatto e di diritto».
Il professore Bruno Di Porto, docente di Storia a Pisa, spiega che «l’ebraismo riformato cerca di contenere il calo numerico delle comunità, è aperto al ritrovamento di ebrei che si siano per varie ragioni allontanati, favorevole ad accogliere proseliti attraverso il serio vaglio delle richieste, un’adeguata preparazione e il loro inserimento nella vita ebraica». Sui matrimoni, aggiunge Di Porto, «preferiamo, per una armonica omogeneità ideale delle famiglie, che gli ebrei contraggano matrimoni ebraici, ma nel contempo, prendendo atto della frequenza di matrimoni misti ed essendo rispettosi delle scelte personali, accogliamo le coppie miste, offrendo loro una cordiale sponda ebraica e un’istruzione ebraica dei figli. Non celebriamo matrimoni interreligiosi, ma diamo volentieri una benedizione alle famiglie che educhino i figli nell’ebraismo». Anche il ruolo della donna è motivo di dissenso con l’ortodossia: «I tempi sono ormai maturi perché si possa aprire un dibattito in proposito», dice Pacifi Noja. «L’ebraismo liberal, molto rappresentato numericamente ma anche intellettualmente negli Stati Uniti, da lungo tempo ha dato libero accesso alle donne, con pari dignità rispetto agli uomini».
Resta infine, sullo sfondo, il complesso rapporto con Israele: gli ebrei italiani sono uniti nella difesa dello Stato ebraico e divisi in tutti gli schieramenti possibili per ciò che riguarda il tipo di governo desiderato e le politiche di convivenza con i palestinesi. «C’è un solo tipo di rapporto con Israele su cui possono essere d’accordo tutti, modernisti, tradizionalisti, liberal, teisti, ortodossi: la lingua, che è lo strumento attraverso il quale si è costruita la cultura ebraica nel tempo», dice David Bidussa, intellettuale laico. «Il fatto di aver coniato e rivitalizzato una lingua che può esprimere teologia, ma anche teatro, filosofia, cinema, persino bestemmia è il paradigma che consente oggi di stare dentro la tradizione ebraica». Secondo Bidussa, quindi, ridurre l’ebraismo alla mera osservanza letterale di precetti immutabili significa tradire l’identità ebraica, che vive nella storia, non fuori da essa: «Un gruppo sopravvive se si mescola, mentre se coltiva la propria identità allo stato puro è destinato a scomparire».
Sull’importanza della lingua ritorna anche Amos Luzzatto: «La lingua è sempre stato un forte collante tra gli ebrei, ci si capiva tutti anche se la pronuncia era diversa. È il legame culturale più importante e andrebbe coltivato maggiormente. Ho visto con orrore giovani ebrei italiani andare in Israele e parlare in inglese». Lui, invece, non appena la scaletta dell’aereo tocca terra in Israele, avverte il legame viscerale con la Terra della Promessa. E già la sera del primo giorno, dice, «comincio a sognare in ebraico».
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http://www.stpauls.it/jesus/0901je/0901je48.htm