Risposta sul mensile torinese Hakeillah alle critiche scatenate dal suo articolo: “DICO: quello strano silenzio dell’ebraismo italiano” del maggio 2007.
Il giorno in cui Pio IX fu beatificato, il TG1 delle 20 ne parlò come prima notizia, dando subito la parola ad Amos Luzzatto, allora presidente dell’UCEI, che esprimeva la sua protesta. Faceva benissimo Amos Luzzatto a protestare, ma in quella notizia e nell’atmosfera politica e mediatica che la circondava c’era qualcosa che non andava. Perché se la beatificazione di Pio IX feriva la memoria ebraica (caso Mortara ecc.) molto di più feriva lo Stato italiano, risultato della lotta risorgimentale. Davanti al colpo di spugna storico, nella quasi totale assenza dei laici italiani, a difendere memorie comuni e il principio di separazione tra Stato e Chiesa c’era rimasta solo l’UCEI. Non potevamo non farlo, ma non dovevamo essere lasciati soli.
Il caso è emblematico del meccanismo psicologico e politico che ha imposto all’ebraismo italiano il ruolo di custode della laicità, spesso sostenuto quasi in solitudine. Un ruolo che abbiamo dovuto ricoprire per un dovere di memoria storica e che per molti aspetti è congeniale alle nostre tradizioni: questo Stato ci dava dignità di cittadini liberi, la Chiesa ci sbatteva nei ghetti; lo Stato rispettava il nostro diritto ad essere ebrei, la Chiesa lo umiliava in continuazione cercando di imporci in tutti i modi il suo modello di verità. Opporsi a una Chiesa ostile è stato anche per l’ebreo più lontano un modo per rivendicare la sua diversità. Ecco quindi la legittima radice di questa forma di laicità sostenuta in campo ebraico e la giusta attenzione, anche ai nostri giorni, ai problemi della difesa dell’indipendenza dello Stato.
Non bisogna tuttavia fermarsi a contemplare questo dato significativo senza esercitare un po’ di spirito critico costruttivo. Non siamo abbastanza attenti a un rischio fondamentale: questi valori possono diventare per molti di noi l’ideologia primaria e persino sostitutiva dell’ebraismo, il criterio di riferimento dogmatico davanti al quale ogni altro valore dell’ebraismo deve cedere; il compagno di cammino, importante e degno del massimo rispetto, si è sostituito a noi. L’interesse, l’impegno, la forza che molti di noi dedicano alle battaglie laiche (in nome dell’ebraismo) sono assolutamente sproporzionati alle energie che dovrebbero essere parallelamente dedicate alla nostra crescita ebraica. Chi si infiamma e si mobilita (a ragione) per una circolare del Ministero della Pubblica Istruzione sull’ora di religione non so quanto dedichi del suo impegno civile all’istruzione ebraica (propria e altrui).
Ci sono delle idee che vengono date per scontate senza discussione. È stato detto e ripetuto, per esempio, che lo Stato laico è quello che garantisce di più gli ebrei. Non è così sempre. Può essere laica la peggiore dittatura che separa a tal punto la religione dallo Stato che elimina qualsiasi diritto religioso. Può essere laico il modello francese che proibisce i segni religiosi non solo dai locali pubblici, ma anche dal corpo delle persone che li frequentano, e non garantisce agli studenti delle scuole pubbliche l’osservanza dello Shabbat; senza parlare delle elezioni in giorni festivi. Sono laici gli Stati che proibiscono la macellazione rituale e tra poco, insieme all’infibulazione, proibiranno la circoncisione (che non sono ovviamente la stessa cosa). È laico – abbastanza – lo Stato italiano che costringe i negozianti a tenere aperti i loro esercizi di Shabbat. Certo, se ci sono ebrei a cui dello Shabbat e della Shechità importa poco, per loro lo Stato laico resta il migliore. Ma proviamo a ragionare sul fatto che se godiamo di specifici diritti a nostra tutela (macellazione, sepoltura perpetua, esami non di Shabbat ecc.) questo avviene in nome del diritto di minoranza, che è in un certo senso un compromesso, una sorta di “privilegio” in deroga e non in coerenza con l’assoluta laicità dello Stato. Non so se laicità e diritto delle minoranze siano concetti del tutto sovrapponibili.
E ancora, sul concetto di laicità: nelle discussioni di questi ultimi mesi il concetto sembra quasi confondersi, in nome della tutela dei diritti dei diversi, con quello della massima liceità o permissività: ad esempio, se ci sono tante possibilità offerte dalle tecniche di fecondazione non vanno ascoltati i veti di alcuni, ma bisogna permettere il più possibile; se ci sono persone che soffrono per mali incurabili bisogna permettere l’eutanasia; se esistono necessità sociali ed affettive di riconoscimento di forme di convivenza diverse dal modello tradizionale di famiglia bisogna farlo comunque, a prescindere dal genere dei partners e dal numero delle persone coinvolte in queste unioni, ecc. Ma è ragionevole dubitare che laicità sia sinonimo di “tutto permesso”. Perché anche lo Stato laico da qualche parte deve stabilire con le sue leggi dei limiti. Ma chi decide questi limiti
Qui entra in gioco un altro principio fondamentale, quello dello democrazia, che non è affatto sinonimo di laicità. In democrazia la voce e il voto di ogni cittadino vale quanto quella di ogni altro cittadino. Ma in nome della laicità può scattare un meccanismo perverso: si toglie il diritto di espressione ad alcune categorie di cittadini, che sono quelli che esprimono le loro convinzioni in base a principi religiosi. Solo chi è laico può parlare; sarà molto laico, ma non è democratico. Attenzione: non si sta dicendo che siccome la religione la pensa in un certo modo, necessariamente lo Stato deve adeguarsi; si dice soltanto che se va decisa insieme una norma comune, ciascuno, con gli stessi diritti degli altri, ha diritto di esprimere democraticamente la propria opinione e può mettere in discussione ciò che per altri appare un diritto inalienabile.
Propongo un esempio che deriva da una recente esperienza personale. L’ordinamento italiano, come quello di molti altri Stati, prevede l’esistenza di un Comitato Nazionale di Bioetica, come organo di consulenza su questioni attualissime; i suoi pronunciamenti non sono legge ma guidano le posizioni del governo e dei processi legislativi. Di questo Comitato sono membri persone di varie estrazioni tecniche, politiche e religiose, e da poco ne sono diventato membro. Non c’è riunione nella quale non mi venga chiesto di esporre la posizione ebraica sui temi in discussione. Essendo stato accusato da molti di attentato alla laicità dello Stato, mi sono posto il problema se non fosse opportuno, in ossequio ai miei accusatori, di rimanere, nel Comitato e altrove, in “religioso silenzio”, lasciando la parola a tutti gli altri. Scherzi a parte, non intendo imporre le mie opinioni a nessuno ma non vedo perché debba essere imbavagliato perché dico cose talvolta scomode ai miei concittadini ebrei di fede laica.
In altre occasioni invece le cose che ho detto, su temi pubblici con implicazioni politiche, hanno fatto comodo e sono state lodate. Per esempio durante il referendum sulla procreazione assistita. L’apprezzamento c’è stato perché alcune delle cose che dicevo potevano sostenere le tesi dei permissivisti. In quest’ultima occasione invece no, e allora giù con fulmini, saette e accuse pesanti: da quella di essere passato al servizio del Vaticano, a quella di razzismo (come se affermare che un determinato comportamento è illecito per la Torà significhi automaticamente seminare odio nei confronti del trasgressore e non sia invece un invito alla teshuvà, per chi è in grado di farla). Questo meccanismo perverso si denuncia da solo per quello che è: le parole di un rabbino (dalle quali i laici per definizione dovrebbero prescindere) vengono lodate o criticate nella misura in cui sostengono o contraddicono delle tesi precostituite. Quanto è bello, comodo e chic avere un rabbino che ci sostiene nel nostro salotto, nelle nostre militanze politiche, nel nostro libero pensiero. Quanto è becero un rabbino che discute i compromessi della nostra identità, l’immagine radiosa e progressista che faticosamente cerchiamo di dare di noi stessi e dell’ebraismo, che ci rovina il nostro biglietto da visita; che imbarazzo, che vergogna. Ma essere laici o in favore di qualsiasi diritto non significa ancora essere ebrei (se no lo sarebbero tutti i laici, anzi i pochi laici in circolazione), e non si può accettare l’ebraismo solo nella misura della sua conformità a un processo ideologico prevalente in quel momento.
Parlando a nome dell’ebraismo bisogna seguire prima di tutto il criterio di coerenza con le fonti: se le fonti ci sono, se sono state capite bene, se non ce ne sono altre che dicono il contrario, se le modalità del ragionamento e le conclusioni sono corrette; e questo quale che sia il risultato del ragionamento, popolare o impopolare, a prescindere dalle alleanze – che non vanno cercate – e delle somiglianze con altri sistemi e pensieri che di volta in volta possano configurarsi.
Ben venga chi è in grado di dimostrare seriamente che ho sbagliato nell’uso delle fonti. Ma dubito che quelli che mi hanno criticato possano dire la stessa cosa delle loro posizioni in nome dell’ebraismo, senza fare, in rapporto alle fonti, tonfi clamorosi, goffi equilibrismi e, quando i conti chiaramente non tornano, evocare disinvoltamente l’elasticità dell’ebraismo che solo dei rabbini ottusi e impauriti non riuscirebbero a incarnare.
Per questo, anche se qualche volta capita di dire delle cose che anche altri mondi religiosi o politici sostengono, non bisogna sentirlo come un limite, anche perché su certe idee il “copyright” l’abbiamo noi e non gli altri; si può chiaramente discutere sull’opportunità di prendere posizioni che possono essere deformate, incomprese o destinate in partenza ad essere respinte, ma trovo insostenibile la posizione di chi dice che quando rischiamo di dire le stesse cose della Chiesa Cattolica bisogna tacere per principio.
Perché c’è un tema fondamentale da dibattere, come già si fa in altre parti del mondo diasporico (con ben altri argomenti e maturità): cosa facciamo noi per gli altri; quale ruolo debba avere l’ebraismo nella costruzione della società comune: se questo ruolo non ci debba essere affatto, se debba essere esercitato solo sotto forma di antirazzismo, se debba essere quello della laicità o debba essere invece testimonianza dei suoi valori – quelli originari -. Sono numerosi i temi in cui la tradizione può dire la sua nella società, e la differenze politiche e sociali locali possono suggerire varie soluzioni su come intervenire nel dibattito; in proposito il pragmatismo dell’ebraismo ortodosso americano è un riferimento importante. Ma liquidare tutto, come si è fatto qua, nel semplicismo anticlericale cattolico e in nome della laicità fondante l’ebraismo è una distorsione.
Una distorsione che ci danneggia, come quando davanti all’allarme lanciato sulla famiglia si è spostato il dibattito in politica, su laicità e Vaticano. Il fatto che in 30 anni la Comunità ebraica di Torino si sia ridotta del 44% è diventato solo un problema anagrafico; “non sono più iscritti”, è stato detto: ma perché non si vogliono iscrivere o perché non ci sono più? Qualcuno ha controllato?
Ci sarebbe molto ancora da dire sulle contraddizioni di chi tra di noi critica l’ingerenza della Chiesa nella vita pubblica, da una parte, e dall’altra tollera senza alcun freno la corsa delle famiglie (di coloro che sono stati definiti “innocenti”) verso modelli non ebraici, prima di tutto verso le pratiche del cattolicesimo. Purtroppo ho un’abbondante casistica in merito.
Ci sarebbe anche molto da dire sul lamento contro un presunto atteggiamento di esclusione che oggi le Comunità eserciterebbero; sullo spettro, agitato demagogicamente, dello slogan “pochi ma buoni”, nel quale non si riconosce, per quanto ne so, la stragrande maggioranza dei rabbini italiani. Certo che la Comunità deve essere il più accogliente possibile. Ma bisogna vedere se la realtà non sia molto diversa e complessa dal ritratto repulsivo che ne è stato fatto; è possibile che molti di coloro che sentono poca o nessuna attrazione per la Comunità usino l’argomento dell’emarginazione come scusa per il loro disinteresse, o per la loro non accettazione di un pensiero diverso dal loro; perché il mondo ebraico italiano, e parte la sua dirigenza (eletta democraticamente), è un po’ cambiato, riavvicinandosi alla conoscenza e alla pratica, e il modello trionfante nella precedente generazione è entrato in crisi. Non è un caso che la stragrande maggioranza dei firmatari dell’appello “Nessun silenzio” sia oltre i 40 anni di età. Capisco il disagio di chi si rende conto che non è più portatore del modello ideologico protagonista, ma senza dare la colpa agli altri dovrebbe prima comprendere che anche lui è Comunità, e interrogarsi su quello che fa lui per la Comunità, soprattutto per il suo futuro.
Nel momento in cui queste note vengono scritte (vigilia di Rosh haShanà) tornano le parole di una preghiera di questo periodo in cui si invoca la protezione su Israele, definito goi qadosh, “popolo santo”. Se si toglie la qualifica di qadòsh a Israele, resta solo il goi. E la qualifica di qadosh non è automatica, bisogna guadagnarsela. Perché non riflettere prima di tutto su questa nostra identità e su questa nostra vocazione?
Riccardo Di Segni
(Rabbino Capo di Roma)
Ringraziamo Hakeillah per la disponibilità