Il grande filosofo parla delle sue radici ebraiche, di televisione, di violenza, della società liberale.
DOMANDA N. 1 – Professor Lévinas, da giovane Lei ha trascorso un periodo in Germania durante il quale ha fatto incontri importanti. Vuole parlarcene?
Ero andato in Germania per seguire i corsi di Husserl a cui era dedicata la mia tesi di dottorato, ma il caso mi ha giocato una sorpresa: sono andato per Husserl e ho trovato Heidegger. Ho seguito le sue lezioni per due semestri; in quel periodo Heidegger era già molto celebre, non era difficile riconoscere in lui un maestro perché le sue lezioni erano stupefacenti e dalla sua figura promanava una grande autorità. Io non ero ancora al corrente dei rapporti tra Heidegger e Hitler, ma all’epoca questo non costituiva ancora un problema perché il carisma di Heidegger era indiscusso: la sua propensione per il nazionalsocialismo scompariva dinanzi all’abilità con la quale dominava i problemi filosofici. Era questo in lui che mi affascinava e, del resto, anche gli altri filosofi suoi colleghi subivano la sua influenza in modo molto forte. Si aveva l’impressione che se una cosa era stata detta da Heidegger, allora non valesse la pena discuterne. In quel periodo, Heidegger e Husserl dominavano completamente la scena filosofica, anche se Husserl non insegnava più e Heidegger era subentrato a lui nella stessa cattedra. Certo, Husserl era molto importante, ma Heidegger era straordinario per l’influenza e il fascino che esercitava sugli studenti; era veramente il grande maestro. A quell’epoca non c’erano ancora studenti francesi al seguito di Heidegger; io ero uno dei primi. E tuttavia i rapporti con la Francia non mancavano; a Friburgo, infatti, ho conosciuto Jean Beaufret che studiava filosofia della matematica, ma era allievo di Husserl. Soltanto in seguito si è “heideggerianizzato”. Come me, del resto.
DOMANDA N. 2 – Lei rientrò in Francia nel 1932, prima che Hitler salisse al potere. Quali filosofi ebbe modo di incontrare?
Sartre, naturalmente. Anche lui, più tardi, conobbe Husserl e Heidegger, ma di quest’ultimo non fu mai entusiasta. Sartre era un filosofo molto dotato, molto originale, ma non possedeva il vigore speculativo di Heidegger. Dunque, in un certo senso, era un filosofo audace, che usciva fuori dell’ordinario, ma il suo era comunque un pensiero molto regolare in cui era riconoscibile l’Ehrlichkeit, la virtù husserliana, una sorta di probità intellettuale; intendo dire che aveva un uso parsimonioso dei concetti a vantaggio della loro chiarezza. Mancava, però di quell’energia geniale tipica di Heidegger. In Francia, dopo la liberazione di Parigi, ho conosciuto anche Merleau-Ponty, sebbene superficialmente. Ma non ho ancora parlato del mio caro maestro, Charles Blondel; lui incarnava tutta la luminosità dello spirito francese, la clarté, l’ordine. Non era un rivoluzionario, piuttosto era un pensatore sistematico, rigoroso e molto esigente, ma non per questo noioso. La psicologia era uno dei suoi punti di riferimento e aveva molte conoscenze scientifiche. Questo era Charles Blondel. Comunque in Francia, a quell’epoca, i maestri non mancavano. C’era, tra gli altri, Léon Brunschvicg, il quale possedeva tutte le qualità di Charles Blondel; ma la sua era una filosofia dai riferimenti più ampi, che non si ispirava soltanto alla psicologia e faceva propria la lezione delle scienze, die Wissenschaftlichkeit, coniugandola con le virtù tradizionali del pensiero francese: chiarezza e ordine. Non c’è, in questo, alcun autocompiacimento nazionalistico, ma la consapevolezza di un ordine universale che ha valore di per sé. Anch’io ho compiuto degli sforzi in questa direzione, coltivando la chiarezza cartesiana come virtù essenziale della filosofia perché per un pensatore non si tratta certamente di un carattere naturale, ma di un risultato che è necessario acquisire.
DOMANDA N. 3 – Quando ha avuto luogo, nella sua vita, l’incontro con il pensiero ebraico?
Tardi, in età adulta, attraverso la scoperta dei testi talmudici. Nella mia infanzia la Scrittura era sempre stata presente, ma il Talmud era qualcosa di immensamente più potente: rappresentava la leggenda, il commentario leggendario del testo, ciò che si trova sulla tavola del commentatore. Dunque, questa scoperta non ha avuto luogo in famiglia, ma attraverso un incontro fuori dell’ordinario quando, cioè, ho conosciuto molto da vicino un vero genio talmudico, di cui ero il discepolo: Chouchani. Incontrare lui era come entrare in contatto con un genio nel senso assoluto della parola; era un uomo che poteva tenere insieme un numero molto vasto di idee senza essere soggetto alla costrizione di condurle a un esito conclusivo. Era come se il Talmud fosse presente dentro di lui, incorporato, vivente. Chouchani, accanto a Husserl e a Heidegger è il solo nome che ritengo di dover ricordare, il nome di un genio che riassumeva in sé tutta una direzione di pensiero che è viva ancora oggi e che cerca dei continuatori. L’incontro con lui, dopo quello con Heidegger e con Husserl, ha rappresentato il grande avvenimento della mia vita. Di lui mi colpiva la potenza intellettuale che si manifestava in una sorte di crudezza, nell’audacia e nella purezza, e non intendo qui purezza in senso morale, ma nel senso di un vigore costruttivo. Chouchani era di origini miste, come il vero sapiente ebreo che nel suo errare accoglie molte tradizioni comuni, quotidiane. Era l’incarnazione del giudaismo vivente. Questa è tutta la mia vita, di questo devo testimoniare e voglio rendere omaggio a Chouchani, perché Heidegger ha molti allievi, ma Chouchani molto pochi! Anche un pensatore come Derrida, spirito eccellente e molto vivace che ho conosciuto in Germania, ha incontrato tutti i grandi nomi che ho evocato, ma non ha conosciuto il Talmud, perché per leggere il Talmud bisogna trovare un vero maestro. Il vero maestro è colui che è davvero capace di entrare in contatto, di manifestare in modo esplosivo, di sbalordire, scuotere. Se si legge il Talmud da soli, con gli strumenti ordinari, si rimane atterriti e scoraggiati dinanzi alla sua difficoltà. Il Talmud esige la guida di un genio.
DOMANDA N. 4 – Uno dei concetti più suggestivi del suo pensiero è quello del “volto” come espressione di un’alterità assoluta e inviolabile…
Su questo tema è avvenuta la mia rottura con Heidegger. Era hitleriano e non ha colto il valore della dignità dell’uomo e dell'”altro”. Ma io sono ebreo ed essere ebrei non significa soltanto conoscere il Talmud, significa aver sofferto come un ebreo. È a questo che bisogna arrivare. Aver sofferto come un ebreo. E di questa sofferenza una piccola responsabilità è da attribuire a un certo Hitler…
DOMANDA N. 5 – Professor Lévinas, secondo una efficace espressione di Gadamer, che parla del “pathos del disincanto”, c’è una specie di cinismo, di scetticismo, diffuso soprattutto tra i giovani dell’Occidente. Chi guarda la televisione si aspetta da un filosofo una parola rassicurante o almeno qualche spiegazione. Cosa può dire ai giovani contro il “pathos del disincanto”?
Sarei felice di poter consolare, ma non è questo il compito della filosofia. Io penso che il “disincanto”, come lo chiama Gadamer, o la “cattiva coscienza”, come la chiamo io, sia caratteristica della gioventù, che non si sente troppo impegnata, mentre è la vecchia generazione a sentire, ad essersi assunta l’antica fierezza dell’Europa. Io direi questo ai giovani: bisogna pensare a una riconsiderazione dell’antropologia stessa, cioè della struttura, dell’essenza dell’umano. Non so se l’educazione ci arriverà, ma forse, dopo certe esperienze, la gioventù ritroverà la giusta misura. Mi domando se si possa ancora definire l’uomo mediante la potenza del sapere. Questo non comporta che si debba raccomandare la stupidità o che l’intelligenza non sia più un valore, ma che bisogna definire l’uomo altrimenti che in questi due modi: come l’essere infinitamente intelligente, che può dominare il mondo e come quello che deve essere a qualsiasi costo libero, libero nel senso di un puro libero arbitrio, libero di fare quello che vuole, di non essere limitato da nulla…Libertà per la libertà, libertà come l’elemento che definisce l’uomo. Non condanno né la libertà né l’intelligenza, ma mi domando se la definizione stessa dell’uomo non debba essere attinta ad un altro ordine. Mi sembra, in particolare, che la relazione di un essere umano all’altro essere umano, la relazione da uomo a uomo, invece di essere presentata come una conseguenza dell’intelligenza, come una conseguenza della libertà, dovrebbe essere posta nella definizione stessa dell’uomo, sentita come la vocazione stessa dell’uomo. La vocazione dell’uomo è di riconoscere la sua dignità umana e il suo posto nell’essere, il suo posto nella realtà, e non di considerare l’intelligenza e la libertà semplicemente come le forme nelle quali può affermarsi. Su questo bisogna richiamare l’attenzione della gioventù, insistendo sul fatto che un essere può uscire dalla sua autoaffermazione per occuparsi, prima di tutto, dell’altro essere umano e che questo è l’avvento stesso dell’umanità, è l’essenza, è la forma stessa dell’umanità. Bisogna insegnare tutto ciò, richiamando l’attenzione sui dati immediati del comportamento umano, insistendo sul fatto che da principio l’uomo prende coscienza di se stesso in una bontà elementare riguardo all’altro essere, in una bontà costante, che trionfa di molte cadute, che sussiste nelle condizioni più atroci. Questo, che è un paradosso in rapporto all’antropologia corrente, deve essere pensato come la struttura originaria dell’umanità.
DOMANDA N. 6 – Lei parla di bontà, di amore per l’altro, ma si sa che in nome della bontà sono stati commessi atroci delitti, che i buoni sentimenti hanno provocato spesso dei disastri.
Bisogna vedere come la si intende…Io faccio una differenza tra bene e bontà, tra un ideale di bene che può essere prescritto, che diventa ideologia, che diventa movimento politico e poi istituzione e questa bontà iniziale, debole, senza difesa, senza pensiero, in cui non c’è ancora una ideologia della bontà L’altro uomo non mi è indifferente, l’altro uomo mi concerne, mi riguarda nei due sensi della parola “riguardare”. In francese si dice che “mi riguarda” qualcosa di cui mi occupo, ma “regarder” significa anche “guardare in faccia” qualcosa, per prenderla in considerazione. Io chiamo appunto questa “apparizione” dell’altro, il volto umano. Il volto umano è la testimonianza non del trionfo istituzionale del bene, ma della possibilità del bene, della possibilità per l’uomo di essere buono verso l’altro uomo o piuttosto della possibilità di leggere sul volto dell’altro uomo la vocazione, il richiamo alla bontà. Per me questa è la parola di Dio. Io trovo Dio nell’etica, non ho alcuna altra idea di Dio valida. È qui che trovo il senso di qualcosa che interrompe bruscamente il corso delle cose: il fatto che l’uno si occupa dell’altro è il solo momento in cui c’è un’alterità totale, un’alterità che non rientra nell’ordine che io controllo, che non diventa mia. Anche il mio schiavo, in quanto uomo, mi sfugge e perciò è assolutamente altro. Trovo che nel momento in cui sento questa alterità come ordine muto, come comandamento, non dico che sia di Dio, ma certo non c’è parola più forte.
DOMANDA N. 7 – Se c’è una morale conforme alla religione, che può esistere senza il Dio delle religioni istituite, senza il Dio delle Chiese, può esistere anche una morale senza trascendenza?
L’evento stesso della bontà è la trascendenza. Ma malgrado questo momento sublime, ci sono delle cadute verso cui non siamo premuniti. La Rivoluzione francese – come la Rivoluzione russa del 1917 – è un evento di speranza, di abnegazione. Ma dal momento che si organizza senza riguardo per l’individuo, e che lo Stato si pone come fonte delle istituzioni, in cui solo ci può essere giustizia, l’individuo deve eclissarsi in modo totale, eclissarsi o perire. Lo Stato che è l’organizzazione di questo momento eccezionale, trascendente, diventa poi causa di gregarietà e finisce con i campi di sterminio. Ma i lager non possono mai arrivare alle estreme conseguenze, non possono distruggere l'”unicità dell’altro uomo”. Il rispetto nell’altro uomo della sua unicità, cioè la considerazione dell’altro come fondamentalmente insostituibile, è sempre l’effetto dell’amore. Amare è appunto considerare l’altro come insostituibile, come unico. Forse una maggiore attenzione a questo fatto ci permetterebbe di apportare una riforma alla struttura degli Stati, che sono razionali o che pretendono di esserlo. Per fare un esempio concreto, occorre assolutamente negli Stati moderni conservare delle associazioni che si occupino in particolare dei diritti dell’Uomo, associazioni che io considero extra-politiche. Bisogna che queste istituzioni sussistano nella società in modo del tutto indipendente dallo Stato e dalle sue necessità. Questa era in altri tempi la funzione del profeta, che veniva a proclamare al re il suo torto. Non a lavorare clandestinamente contro il re, ma a dichiarargli ufficialmente il suo torto. Oggi non ci sono profeti. Forse la profezia può essere sostituita da una più grande libertà lasciata agli scrittori. Penso che la più grande virtù della nostra società liberale, che è ancora la migliore, sia la libertà di opinione, di parola, di espressione, come garanzia per la possibilità del cambiamento. E’ una modesta proposta. E come ultima cosa raccomando l’attenzione di ciascuno verso tutti, indipendentemente dalla organizzazione, dalla amministrazione.
DOMANDA N. 8 – Lei ha parlato della grandezza della società liberale, la cui caratteristica, peraltro, è l’individualismo esasperato e il relativismo assoluto dei valori. Qual’è la Sua opinione a questo proposito?
Penso che, malgrado tutto, una pluralità di opinioni vale più di una sola e che ci sono delle verità, degli atti di benevolenza, che trovano subito degli imitatori, della gente che li condivide. Non so se si può distruggere il disincanto, ma vorrei, innanzi tutto, impedire che esso venga costituito a ontologia ultima o, meglio ancora, a metafisica ultima, che diventi proprio questa la “verità delle verità”. La “piccola bontà”, di cui parlo nei miei scritti, comporta molto più di quello che si dice ai bambini quando li si educa, quando gli si raccomanda di essere buoni. Ci sono nei testi religiosi, nel contenuto etico dei testi religiosi, dei prolungamenti, delle prospettive, che innalzano il profilo di questa bontà. Non è una cosa da poco questa “piccola bontà”. Lei mi chiede se è possibile vivere senza trascendenza. Io dico di no. Lei mi chiede anche se è possibile vivere senza dogma. Rispondo: probabilmente. Ma la grande esperienza etica, depositata nella letteratura religiosa, non è ancora arrivata ad avere, nella formazione letteraria della nostra gioventù, l’importanza che le spetta. I testi religiosi non devono essere letti alzando le spalle, come dei testi ingenui, che sono stati veri un tempo, nell’ambito del folklore universale. Non sono folklore.
DOMANDA N. 9 – Le vorrei porre un’ultima domanda sulla responsabilità. Secondo lei, gli uomini che hanno una responsabilità pubblica, che hanno il potere di decidere anche per gli altri uomini, hanno la stessa responsabilità di quelli che possono decidere solo per se stessi?
E’ risaputo che talvolta la responsabilità pubblica è schiacciante, e precisamente quando la politica, anche nel senso buono del termine, forza la responsabilità, perché costringe a prendere decisioni, che forse sono giuste, ma in cui l’unicità di colui di cui si è responsabili non è rispettata. La responsabilità di cui parlo è assai più paradossale. Il punto su cui insisto è che quando si è responsabili, si risponde sempre di un altro uomo. Noi, certo, possiamo ignorarlo, ma in realtà siamo responsabili anche di ciò che è successo poco fa a colui che è passato vicino a noi. Questa è la responsabilità. Noi siamo responsabili, come se fossimo colpevoli di fronte a tutti gli altri. Cito, a questo proposito, ancora una volta, il “versetto” – perché nei grandi scrittori le proposizioni sono dei versetti e di conseguenza i versetti sono assai spesso le proposizioni dei grandi autori – la frase di Dostojevskij: “Siamo tutti colpevoli – non responsabili, colpevoli – di tutto verso tutti ed io più di tutti gli altri”. Questo “io più che tutti gli altri” è la famosa non reciprocità delle coscienze. Non arrivo mai a sottrarmi a questa posizione di “io più responsabile di tutti”.
Intervista di Renato Parascandolo, Sergio Benvenut
VITA. Emmanuel Lévinas è nato a Kaunas nel dicembre 1905 in Lituania, e ha vissuto la rivoluzione russa in Ucraina. Nel 1923 insieme alla sua famiglia si trasferisce in Francia a Strasburgo, dove inizia gli studi univeristari. È di questi anni la sua amicizia con Maurice Blanchot. Nel 1928-1929 va a Friburgo, dove assiste alle ultime lezioni di Husserl e conosce Heidegger. L’apprendistato della fenomenologia, come egli lo ha definito, proseguirà poi con un forte impulso personale di ricerca; partecipa nell’immediato dopoguerra all’avanguardia filosofica francese con G. Marcel e J.Wahl. In questi anni inizia anche la direzione della Scuola Normale Israelita Orientale, l’amicizia con Henri Nerson a cui dedicherà il suo primo libro di scritti giudaici Difficile Liberté. Nel 1957 inizia anche l’attività di lettura e commento del Talmud ai Colloqui degli intellettuali ebrei francesi. Nel 1961, dopo la pubblicazione di Totalità e Infinito, inizia l’insegnamento all’Università di Poitiers, nel 1967 passa all’Università di Paris-Nanterre e dal 1973 alla Sorbonne. E’ ora professore emerito, ma prosegue l’attività in seminari e congressi.
OPERE. Le sue opere sono ormai quasi tutte tradotte in italiano: La traccia dell’altro, Napoli 1979, (traduce l’ultima parte di En décrouvant l’existence avec Husserl et Heidegger); Totalità e Infinito, Milano, 1980; Quattro letture talmudiche, Genova 1982; Dell’evasione, Reggio Emilia 1984; Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, Milano 1984; Etica e Infinito, Roma 1984; Nomi Propri, Casale Monferrato 1984; Umanesimo dell’altro uomo, Genova 1985; Dal sacro al santo, Roma 1985; Di Dio che viene all’idea, Milano 1986; L’al di là del versetto, Napoli 1986; Difficile libertà, Brescia 1986 (Traduzione parziale); Il tempo e l’altro, Genova 1987; Dall’esistenza all’esistente, Genova 1987.
PENSIERO. Come introduzione al pensiero levinasiano si possono vedere: S. Petrosino, La verità nomade, Milano, 1980; G. Mura, Emmanuel Lévinas. Ermeneutica e “separazione”, Roma, 1982; E. Baccarini, Lévinas: Soggettività e Infinito, Roma, 1985.
Lévinas parla del suo periodo di studi in Germania, dove si era recato per seguire Husserl e dove invece incontrò Heidegger, di cui subì potentemente il fascino. Lévinas ricorda gli incontri con pensatori francesi come Sartre, Merleau-Ponty, Brunschvicg, e in particolare con il suo maestro Blonde. La scoperta dei testi talmudici avvenne invece in tarda età, grazie all’incontro con Chouchani, definito un vero genio. La rottura con Heidegger si consuma sul tema dell’altro: il volto come espressione di un’alterità assoluta e inviolabile. Heidegger, che aderì al nazionalsocialismo, non ha saputo cogliere il valore della dignità dell’uomo. La cattiva coscienza è oggi caratteristica della gioventù, che dovrebbe ritrovare la giusta misura ripensando l’essenza dell’umano in base alla sua vocazione di riconoscere la propria dignità umana in quella bontà che è apertura all’altro essere umano. Il volto dell’altro è la testimonianza della possibilità del bene, che coincide con la parola di Dio. L’evento stesso della bontà è la trascendenza. Lo Stato è la fonte delle istituzioni in cui solo può esservi giustizia, ma esso può divenire causa di gregarietà e finire nei campi di sterminio, che tuttavia non possono mai distruggere l’unicità dell’altro uomo, riconosciuta nell’amore. La grande esperienza etica depositata nella letteratura religiosa non è ancora arrivata ad avere l’importanza che le spetta nella formazione letteraria della nostra gioventù. Essere responsabili significa rispondere dell’altro uomo.
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