Intervista al semiologo Ugo Volli. “Attenzione, il woke americano sta arrivando. Sorgono studi sul colonialismo e il gender e in molte facoltà italiane ora usiamo chiamarci collegh*”
Giulio Meotti
L’Università di Glasgow ha cancellato su pressione dei militanti woke una conferenza del celebre economista della London School of Economics Gregory Clark. La scorsa settimana Clark non ha potuto spiegare “Per chi suona la curva della campana” (questo il titolo del suo intervento) . Il riferimento alla poesia di John Donne non era il problema. L’allusione al lavoro di Charles Murraye Richard Hernstein, sì. “The Bell Curve”, il loro libro del 1994, rimane uno dei saggi più controversi mai pubblicati. I suoi critici, sebbene tendano a non averlo letto, insistono che non solo sostiene, ma addirittura si rallegra dell’idea che l’intelligenza sia determinata dalle origini etniche di una persona. E’ un malinteso che continua da oltre un quarto di secolo, e ogni discussione sul libro di solito finisce male. Così, quando il professor Clark ha accennato al lavoro nel titolo della conferenza, l’università gli ha chiesto di cambiarlo. “Ho avuto una riunione su Zoom di mezz’ora con il preside”, ha raccontato Clark. “Avrebbe riprogrammato la conferenza se avessi accettato di cambiare il titolo. Ho rifiutato”. E la conferenza è stata annullata.
Ieri il ministro inglese per le Università, Michelle Donelan, ha detto che nell’accademia britannica è in corso “una censura in stile sovietico”. In Francia è polemica dopo che il ministro dell’Università, Frédérique Vidal, ha detto che l’islamogoscismo domina gli atenei francesi. In Germania il celebre politologo Jürgen Falter, in una intervista a Focus, ha detto che la cultura universitaria è minacciata dalla censura. Così, assieme ad altri 450 accademici tedeschi, Falter ha lanciato la “Rete per la libertà scientifica”. Il politologo di Magonza ha parlato del rischio di “schiavitù interiore. Questa volta la pressione non viene dallo stato, come era sotto il nazionalsocialismo, ma dai gruppi sociali”. E in Italia?
Ne parliamo con Ugo Volli, uno dei maggiori semiologi italiani, a lungo ordinario di Semiotica del Testo e Filosofia della Comunicazione all’Università di Torino, dove oggi è professore emerito.“Naturalmente, l’università italiana non è un monolite, ma un insieme di centri largamente autonomi” dice Volli al Foglio. “Il soggetto delle scelte di contenuto non sono neppure i singoli atenei, ma da un lato i dipartimenti e dall’altro le comunità scientifiche, che corrispondono grosso modo a quelli che nel gergo disciplinare si chiamano ‘settori disciplinari’, un centinaio di etichette in cui è diviso tutto lo scibile, che poi concretamente sono ciascuno composti di qualche decina o centinaia di docenti, con gerarchie interne molto nette. Alcuni di questi settori, per esempio quelli delle scienze biologiche e naturali, dell’economia, della storia dell’arte ecc. in Italia sono rimasti per lo più estranei all’onda del politically correct e della cancel theory. Altri, come filosofia e psicologia, anche diritto, sono toccati in maniera significativa, ma ancora parziale.
Vi sono poi degli ambiti in cui questi discorsi hanno preso pienamente piede e non è quasi più possibile non aderirvi, anche tacitamente: antropologia, sociologia, storia contemporanea, anglistica, sono gli esempi più evidenti. In molti dipartimenti umanistici sono stati istituiti insegnamenti di ‘post-colonial studies’ o ‘gender studies’. L’università di Torino ha aperto di recente un master in diritto Lbgtq. Bisogna poi distinguere le sedi: vi sono università tradizionalmente molto militanti, come Siena e Bologna, altre meno politicizzate. Bisogna aggiungere che la ‘correttezza politica’ si è instaurata anche a livello burocratico. Per esempio, in molte università sono stati adottati dei regolamenti di ‘linguaggio inclusivo’ che condizionano il modo di scrivere i documenti ufficiali dell’università, spesso con risultati piuttosto comici, come l’asterisco impronunciabile che viene usato per neutralizzare il genere grammaticale: non ci si rivolge più ai ‘colleghi’, maschi o femmine che siano, e neppure a ‘colleghe e colleghi’, ma a ‘collegh*’. Sono rituali di gruppo imposti a tutti, anche a chi non è d’accordo”.
Abbiamo gli anticorpi per resistervi o siamo un ventre molle in attesa che la marea arrivi anche qui? “Gli accademici italiani in genere sono molto sensibili alle tendenze politico-culturali dominanti. Durante il ventennio furono fascisti. Su 1.225 professori di ruolo, nel 1931 solo dodici rifiutarono di prestare giuramento di fedeltà al regime. Nessuno di loro insegnava letteratura, lingue o storia contemporanea. Cinque erano di origine ebraica e probabilmente intuivano dove sarebbe andata a finire quella storia. Nel dopoguerra per diversi decenni l’accademia si è divisa quasi a metà fra ‘cattolici’ e ‘comunisti’; poi questa divisione ha progressivamente perso rilievo, ma l’orientamento generale della docenza universitaria è stato massicciamente di sinistra, dal ‘progressismo’ generico all’estremismo fino alla complicità attiva con i tentativi ‘rivoluzionari’. L’esperienza delle agitazioni e delle occupazioni, a partire dal Sessantotto, è diventata una tappa quasi necessaria nella formazione dei docenti universitari. Del resto la docenza universitaria, insieme alla magistratura, fornisce il serbatoio principale per il personale politico della sinistra. Rispetto al panorama americano, vi sono se non degli anticorpi almeno dei freni, dovuti a un certo scetticismo basilare che è caratteristico del nostro modo di pensare collettivo, che rende superficiali e approssimative tutte le partecipazioni ideologiche
Talvolta, questo cinismo ha effetti positivi, nel senso che rende difficile abbattere le statue e censurare i classici: il senso del ridicolo prevale sull’ideologia. Anche quelli che la praticano hanno un qualche ritegno, che sparisce solo nell’assalto personale ai nemici, come mostra il recente caso degli insulti alla Meloni da parte dei uno ‘stimato’ docente ordinario di storia contemporanea a Siena”.
Il pensiero di gruppo, il conformismo e il linciaggio ideologico dovrebbero essere motivo di allarme. “Secondo me non in Italia ci dovremmo preoccupare tanto degli atti clamorosi come quelli che abbiamo visto nei paesi anglosassoni. C’è chi ormai da anni ha proposto di abolire la lettura di Dante perché mette all’inferno Maometto, ma nessuno ha preso sul serio la proposta. Il rispetto per il canone è assi più forte di ogni provocazione, anche perché i nostri ‘progressisti’ si sentono in realtà tutori della tradizione e dell’alta cultura. Il meccanismo da noi è un altro: il consolidarsi di gruppi di potere, l’esclusione di chi non vi appartiene e non si adegua al linguaggio del gruppo. L’egemonia del ‘progressismo’, che non esiste più sul piano elettorale o politico, è totale nell’ambito della cultura e della comunicazione.
Dai tempi della vecchia Rusconi non esiste più una casa editrice di destra che abbia un peso di mercato in Italia, anche se Mondadori e Rizzoli appartengono a Berlusconi. Lo stesso va detto per le televisioni: basta guardare ai talk-show per vedere che il ‘progressismo’ prevale per dieci a uno. Lo stesso vale per riviste e altri luoghi del pensiero. Bisogna aggiungere che la guardia a questi mezzi di comunicazione è strettissima e che la preclusione per coloro che non si adeguano è molto stretta, secondo una logica di controllo del territorio che somiglia per certi versi a quello della criminalità organizzata: se non sei dei nostri, gira al largo. E’ dunque molto difficile svolgere un lavoro intellettuale senza adeguarsi al conformismo. Il che autorizza fra l’altro i portatori dell’ideologia progressista nel loro pregiudizio per cui tutti i loro oppositori sarebbero rozzi e ignoranti. Più che di ‘cancel culture’ da noi si tratta della vecchia politica gramsciana e togliattiana dell’‘egemonia’ definitivamente consolidata dopo l’ondata sessantottina”.
C’è il rischio di una immensa omologazione. “L’omologazione c’è nella cultura, nella comunicazione e nella scuola” conclude Volli. “E’ un vero e proprio blocco egemonico, che negli ultimi anni è stato capace di assorbire avversari tradizionali come la chiesa e la grande imprenditoria. Il punto debole è la sua capacità di creare consenso di massa, come mostrano i risultati elettorali in mezzo mondo, ma anche la crisi di diffusione di giornali, televisioni, in genere i media tradizionali. Le ricette, i gusti, le grammatiche di questo blocco egemonico non convincono fasce consistenti della popolazione, che dipende ormai largamente dalla comunicazione ‘virale’ della rete per formarsi la propria immagine del mondo. E’ una situazione instabile: l’egemonia culturale religiosa e anche economica non riesce a ottenere un consenso diffuso. E’ probabile che questo squilibrio sarà in definitiva deciso a livello politico. Ma vi è un altro fattore in gioco: il controllo della rete. Il blocco sociale che resiste all’egemonia progressista non è stato organizzato da partiti, giornali, chiese, bensì si è coagulato molecolarmente per effetto della rete e soprattutto dei social. Bisogna fare molta attenzione ai fenomeni di censura che si stanno producendo in questi media, anche se finora sono stati in grado di bloccare soprattutto leader come Trump (il quale è un effetto e non una causa della resistenza collettiva all’egemonia) e prodotti culturali comunque minoritari, come certi libri che sostengono tesi sgradite. Andando ancora un po’ più in là, si prospetta un tentativo di controllo da parte loro. Non è detto che accettino a lungo di essere strumenti della vecchia egemonia, possono cercare di diventarne i sovrani”.
Il richiamo del politicamente corretto rischia di essere irresistibile, conclude Volli. “Ci sono diverse ragioni. La prima è che gli universitari sono di sinistra ormai per tradizione. Ma che cosa sia questa appartenenza è sempre meno chiaro. Il linguaggio del politically correct, insieme al disprezzo per la destra, sono segni di riconoscimento forti. Di qui una seconda ragione, il conformismo: se non usi gli asterischi e non disprezzi Trump e Salvini, se non sei con i palestinesi e contro Israele, sei strano. Di conseguenza, terza ragione, non fai carriera, non pubblichi presso gli editori migliori, non sei eletto nei ruoli che contano. Ma attenzione: non è che sei ‘corretto’ perché così fai carriera, dato che lo sono tutti; ma perché, se non lo sei, non vai avanti. Infine, quarta ragione, ma forse è la prima: ci credono. E’ l’eredità del Sessantotto. Pensano davvero di costruire una società migliore in questo modo, di dover dare il buon esempio ed educare i giovani al sol dell’avvenire. Di tutte le ragioni, questa è la più pericolosa, perché è la più ottusa”.
Il Foglio 2.3.2021