Paolo Luca Bernardini
Da sempre la città di Mantova esercita un fascino particolare tra gli storici. Forse, semplicemente, quasi banalmente, perché è la sua storia ad essere davvero peculiare, così come unica è la sua geografia, città d’acque nel mezzo della pianura, crocevia padano di territori diversi, cuspide etrusca nel Nord e culla del maggior poeta latino; una Venezia scivolata, spinta da un selvaggio grecale, nel mezzo della Padania, senza che poi Venezia – che l’aveva sempre desiderato – riuscisse mai a conquistarla, e avrebbe ben potuto farlo solo per via fluviale, facendo della città dei tre (o cinque?) laghi un avamposto occidentale per ben altre conquiste forse quell’unificazione italiana divinata già nel Quattrocento dal doge Francesco Foscari.
Una città che attrae gli storici per le vicende della sua meravigliosa dinastia, quei Gonzaga definitivamente estinti nel 1707—con la devoluzione di Mantova al Sacro Romano Impero mentre la guerra di successione spagnola giungeva al crepuscolo – e per il suo essere e non essere, al contempo, lombarda, e italiana dal 1866 – per via di plebiscito, discusso assai – così diversa poniamo da Varese o Sondrio, ma anche – paradossalmente – dalla Pavia non meno padana, ma storicamente legata a vicende diverse. Città tuttora enigmatica, fulcro di un incontro periglioso, ma anche, quasi, magico, tra Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto, città che per taluni aspetti mai si è davvero ripresa proprio da un’epidemia, quella manzoniana peste del 1630 che la devastò completamente, congiunta alla carestia, al freddo, ai lanzichenecchi che la saccheggiarono, nel bel mezzo della sua guerra di successione.
Ma se alle vicende dei Gonzaga gli storici hanno dedicato volumi e volumi – tra architettura e urbanistica, tra arte e musica, tra collezionismo ed esoterismo – non meno interessante la vicenda dell’eterno antagonista e per tanti aspetti sodale della Corte – il Ghetto. Eretto a Mantova nel 1612, poco meno di un secolo dopo rispetto al ghetto veneziano, il ghetto mantovano è solo una tappa di una vicenda dell’insediamento ebraico in città, di due se non tre secoli precedente. La recinzione segna forse l’inizio della decadenza degli ebrei mantovani, quasi tutti “italiani” giunti dal Sud, e qualche ashkenazim, “tedesco”, invece calato dal Nord – insieme i due gruppi si coalizzeranno per tener lontani i sefarditi, gli ispano-portoghesi in cerca di approdi dopo la cacciata del 1492 e 1497 – ma non sottrae agli ebrei quella prevalenza (condivisa con l’aristocrazia terriera) nel reggere le sorti finanziarie di una città in verticale declino, per ancora due secoli almeno: finché l’astro nascente di Milano, prima e soprattutto dopo il 1861, non porterà le migliori energie mantovane, e quasi tutti gli ebrei, all’ombra della Madonnina. Gli storici che si sono cimentati con la vicenda – mirabile – dell’ebraismo mantovano sono diversi, da un pioniere come Vittore Colorni (1912-2005), a Shlomo Simonsohn (1923-2019), per giungere ad ebraisti come Giulio Busi (solo per citarne alcuni). A Colorni, uomo di straordinaria cultura e umanità, si deve una ricerca che per tanti aspetti anticipa quella di cui parliamo qui, lo studio sulla genealogia della propria famiglia, a partire dal 1477, per giungere al 1977, cinquecento anni, in un legame quasi totalizzante con la nebbiosa Venezia sul Mincio che è anche patria, per un periodo quasi altrettanto lungo, della famiglia Castelletti. A cui Bruno Avataneo ha dedicato il volume Le ossa affaticate di Salomon Castelletti. Storia di una famiglia di ebrei mantovani (Zamorani editore, Torino). Avataneo ha ripercorso, di fatto, la storia sua familiare, da parte di madre. Con esiti singolari. Da un lato ha tracciato una genealogia centenaria della famiglia, con un ammiccamento interessante verso la genealogia biblica, che è genealogia di re e profeti, ancora ben presente nel Nuovo Testamento. La storia delle generazioni (toledot), ma anche quella del “lignaggio”, (yiḥus) che generalmente confermano una nobiltà o in ogni caso una discendenza significativa. La discendenza diretta da Adamo delle stirpi regali – per comprendere meglio il soggetto – è l’argomento del Patriarch di Filmer, del 1680, cui Locke oppose il suo (splendido, a torto studiato assai meno del secondo) primo trattato sul governo, negando il diritto divino dei re asserito appunto da Filmer. Avataneo narra la genealogia di una famiglia che presente forse già dal Quattrocento, non assurge a nessuna regalità, ma per lungo tempo neanche a nessuna prominenza all’interno della comunità ebraica mantovana. Piccoli commercianti, sarte, formaggiai, generalmente legati a mestieri umili, non hanno – se non solo a fine Ottocento, con Moisè Gustavo – prodotto figure notevoli, economicamente e socialmente, e mai hanno dato corruschi rabbini, intellettuali, o musicisti, in una comunità che nei secoli ne ha contati parecchi, alcuni figure davvero stellari, da Azariah de Rossi, medico e storico del Rinascimento, a Salamone Rossi, che nasce otto anni dopo la morte del primo, nel 1578, e che diverrà uno dei principali musicisti europei a cavaliere tra Cinque e Seicento.
I Castelletti vivono, in genere, molto poveramente, o semplicemente con assoluta dignità, occasionalmente inoltrano suppliche ai maggiorenti della Comunità per ottenere sussidi, non si segnalano in alcun modo. Eppure la loro storia è mirabile, nella misura in cui testimoniano dell’evoluzione del rapporto tra ebrei e cristiani, ebrei e autorità, nel contesto di una città fondamentale per le sorti italiane, nella misura in cui mostrano resistenza e resilienza, nelle numerose prove che insieme a loro tutta la comunità ebraica mantovana deve subire. Assistono al rogo di Giuditta Franchetti, in quel 1600 che vide la medesima morte – infinitamente più nota, non meno scandalosa – di Giordano Bruno a Campo de’ Fiori; due anni dopo osservano atterriti il supplizio di altri sette correligionari, rei di aver deriso un frate francescano che aveva tenuto in Mantova prediche giudeofobe. Il secolo passa ma la giudeofobia non muta, anche se a lungo è tenuta a bada dalle autorità. Nel 1792, al crepuscolo di una dominazione austriaca segnata dalla politica altalenante di Maria Teresa, poi Giuseppe II e infine Leopoldo allora imperatore, in un momento di notevole crisi economica, dovuta anche alle scelte del novello imperatore, ha luogo un pogrom vero e proprio, e viene condannato alla frusta un Castelletti, Beniamino Guglielmo, figlio del formaggiaio Vita. Vita Iseppe, nato nel 1717, morto nel 1809, dopo una vita lunghissima e tormentata, tre matrimoni, otto figli, una vita sotto gli Absburgo che si conclude con la parentesi napoleonica, il grande sovvertimento, quella “sfida dell’uguaglianza”, l’abbattimento delle mura del ghetto, il lento cammino dell’emancipazione, che non si ancora bene se fu una iattura (sul breve termine) o una benedizione (sul lungo, però). La storia dei Castelletti sembra un prisma in cui si riflettono le vicende degli ebrei mantovani, con esperimenti di salute pubblica (i cimiteri fuori porta, già voluti da Giuseppe II, poi imposti da Napoleone) nel contesto del Risorgimento e dell’unificazione: la (tardiva, sofferta), uscita dal ghetto, l’ascesa sociale, altrettanto lenta, che si conclude con importanti alleanze e matrimoni con famiglie già da tempo notabili, come i Colorni, e i Cases.
Nell’Italia del tardo Ottocento i Castelletti acquistano fuori dal ghetto palazzi e ville di campagna, seguono le sorti progressive di un ebraismo nazionalistico – la partecipazione entusiastica alla Prima Guerra Mondiale, il sentirsi “in tutto e per tutto” italiani (l’ebreo livornese e senatore della destra Leopoldo Franchetti suicida dopo Caporetto) – e poi filofascista. Salvo accorgersi – e il modello di questa terribile, violenta agnizione lo offre ancora una volta il Bassani dei Finzi-Contini – che Mussolini stava progressivamente, dal 1933 almeno, abbracciando politiche antisemite: e poi la duplice tragedia, prima le leggi razziali del 1938, quindi la deportazione nel 1943-44. Diversi Castelletti aderiscono al fascismo. Aldo Castelletti, nato nel 1891, figura centrale nella scalata economica della famiglia, termina la propria vita in un luogo imprecisato, e in data non certa, dopo esser stato deportato. Ad Auschwitz. Il nonno dell’autore. Poi i Castelletti passano in Piemonte, nessuno della famiglia vive più a Mantova, la comunità ebraica locale, già così gloriosa, è ridotta a ben poche famiglie. Tra il Sette e l’Ottocento erano duemila gli ebrei mantovani, il 10% della popolazione, e in quei decenni i Castelletti erano ancora poveri. Poveri ma industriosi, attenti ai rapporti con la comunità, incerti tra l’aderenza al nuovo verbo francese, da una parte, e le politiche di cauto riformismo absburgiche, che torneranno a presentarsi con la Restaurazione, che segna anche l’inizio della migrazione mantovana, e non solo ebraico-mantovana, verso Milano, nuovo centro dell’ebraismo lombardo. La vicenda dei Castelletti si sposta anche nel Mantovano, in campagna, ove fiorirono tante piccole comunità, legate non solo alla città, ma anche al contado, a Verona, a Ferrara, come ci ha raccontato in diverse opere Ermanno Finzi, parlandoci della propria famiglia, e di Sabbioneta, “città ideale”, Viadana, Marcaria, San Martino dell’Adige, Gazzuolo e Bozzolo. Luoghi ove gli ebrei sono scomparsi.
L’ebraismo mantovano ci ha dato anche di recente figure straordinarie, oltre a al Colorni citato all’inizio: storici come Corrado Vivanti (1928-2012); il musicologo e direttore d’orchestra Claudio Gallico (1929-2006), e numerose altre. Dagli ebrei di Mantova è nata la fiorente comunità milanese. Per comprenderne l’importanza, giova usare la categoria creata da Alberto Castaldini, nel libro del 1998 Padania judaica. Non solo il quadrilatero eccellente di Cremona, Mantova, Ferrara, e Venezia, ma una serie di altre comunità che includono Verona, Padova, numerosi centri minori. Centri tipografici e culturali, ove le mura del ghetto delimitano spesso – per usare una locuzione utilizzata dallo stesso Castaldini – una “segregazione apparente” (la locuzione viene utilizzata per Verona) – mentre in realtà lo scambio col mondo esterno è presente eccome, filtrato in qualche modo, ma non precluso dalle mura dei ghetti. Ove si assiste alla nascita di gerghi particolari, come il giudeo-veneziano (ormai forse del tutto scomparso) e il giudeo-mantovano, lingua in cui Annibale Gallico a metà Ottocento presenta proprio un Castelletti, Luciano, in una mirabile poesia che fa parte delle Storie vecie, ripubblicate in ottima edizione a cura di Sara Natali, con una prefazione di Cesare Segre, dall’Accademia dei Lincei nel 2014.
Ma l’ebraismo padano non è solo legato all’alta produzione intellettuale, o alla poesia “maccheronica”, o alla tipografia o al mondo rabbinico. Esistono reti commerciali profondamente radicate, réseaux veri e propri, che non solo congiungono il mondo padano in tutti i suoi centri, da Torino a Trieste, ma proiettano le reti commerciali fino a Livorno – la Livorno dei commercianti ebrei magistralmente studiata tra gli altri da Francesca Trivellato – e Ancona, per poi spingersi nel Mediterraneo, e magari anche verso l’Inghilterra, l’Africa, l’Atlantico. L’ebraismo padano, apparentemente un mondo chiuso, in realtà si proietta in un universo europeo, se non globale, e ha un significato che è straordinario per la storia italiana.
La centralità economica del mondo padano infatti – tuttora tale – ha (anche) lontane origini ebraiche. Indubitabilmente, nel passaggio delicato dal monopolio della ricchezza divisa tra nobiltà ed ebrei, e la transizione di questi ultimi – e ovviamente in misure e in modi diversi anche dei primi, i nobili – allo stato borghese, che avviene nell’Ottocento nazionalistico e risorgimentale, si compiono i destini economici italiani; e in qualche si accentua un divario economico ora lacerante tra il Nord con presenza ebraica forte, e un Sud senza ebrei dall’epoca spagnola. Ove la nobiltà è mercantile, come a Venezia, gli ebrei giuocano un ruolo finanziario particolare, ma ove la nobiltà è agraria, come a Mantova e Ferrara, la loro centralità nella vita cittadina è indiscussa. Per questo anche i Castelletti entrano in un sistema di produzione vario, articolato, in quell’attivissimo nucleo produttivo, “multitasking”, che è il ghetto. Alla fine – dopo secoli di oblio – riescono anch’essi ad emergere, per incontrare poi l’inatteso, ingiusto destino delle leggi razziali e della deportazione. Per poi incontrare un ebraismo italiano smarrito, profondamente, dopo la ferita della persecuzione, in una ricerca di identità, anche politica, prima che religiosa, che non pare approdata, ad oggi, a punti fermi.
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