La verità sul caso di Robert e Gerard Finaly, i due fratellini ebrei contesi tra Vaticano e Israele negli anni ’50.
Questo racconto si basa su documenti custoditi in Vaticano a cui si è avuto accesso (da parte di studiosi selezionati) soltanto a partire dal marzo dello scorso anno. L’accesso riguarda il periodo del pontificato di Pio XII, dal 2 marzo 1939 fino alla sua morte il 9 ottobre 1958. Ogni anno vi possono accedere solo 1200 studiosi da 60 Paesi. Le informazioni sono state raccolte da David Kertzer, vincitore del Premio Pulitzer per le Biografie nel 2015, il quale le ha pubblicate a fine agosto in un articolo su The Atlantic.
Nel 1938, immediatamente dopo l’Anschluss, il dottor in medicina Fritz Finaly e la moglie Anna, entrambi ebrei, lui di 37 e lei di 28 anni, fuggirono dall’Austria cercando di andare in Sud America. Non ci riuscirono e trovarono allora rifugio in un paesino poco lontano da Grenoble, in Francia. Dopo la creazione dello Stato fantoccio di Vichy fu impossibile continuare ad esercitare ufficialmente come medico ma, se pur in modo fortunoso, la coppia riuscì a sopravvivere. Nel 1941 Anna partorì il figlio Robert e nel 1942 il secondogenito Gerald. Nonostante la campagna antisemita instaurata dal governo del maresciallo Pétain su pressione dei tedeschi, i genitori riuscirono a circoncidere entrambi i bambini secondo i dettami della loro religione.
Purtroppo, la pressione tedesca sul governo di Vichy contro gli ebrei andò aumentando e impauriti dall’intensificarsi delle ispezioni della Gestapo, i due decisero, nel febbraio 1944, di mettere al sicuro i due bambini affidandoli ad una loro amica, tale Marie Paupaert.
Temevano di essere arrestati e, infatti, quattro giorni dopo i tedeschi li catturarono e li deportarono ad Aushwitz dove morirono poche settimane più tardi. L’amica francese, visto ciò che era successo ai due amici, temette che i tedeschi potessero venire a cercare i bambini e li portò al convento di Notre Dame de Sion a Grenoble, sperando che fosse un luogo più sicuro.
Tuttavia, le suore, sentendosi incapaci di prendersi cura di due esseri così piccoli, li consegnarono a loro volta ad una locale scuola materna diretta dalla Signora Antoinette Brun, una donna di mezza età non sposata.
Quella appena descritta potrebbe essere una delle innumerevoli storie di famiglie di ebrei in fuga dai nazisti e ricorda anche quanto successe a quella eccezionale scrittrice ebrea che fu la russa (rifugiatasi in Francia dopo la rivoluzione) Irene Nemirovsky.
Si tratta, invece, di una storia speciale che suscitò scalpore nella Francia dei primi anni cinquanta e che ha acquistato una nuova luce dopo che il 24 marzo 2019 è stato dato libero accesso agli Archivi Segreti Vaticani (oggi denominati Archivio Apostolico Vaticano) per i documenti riguardanti il periodo del papato di Pio XII.
Tutto cominciò quando, nel Febbraio 1945 e con la Francia già occupata dagli alleati, una sorella di Fritz, Margherita Finaly (rifugiatasi in Nuova Zelanda durante gli anni terribili), cercò di ottenere che i due nipotini la potessero raggiungere nel suo nuovo Paese di residenza.
Margherita scrisse alla Brun ringraziandola e chiedendo il suo aiuto per organizzare il viaggio di Robert e di Gerald. La Brun rispose in maniera evasiva all’ipotesi di lasciar partire i due bambini (allora di quattro e tre anni) affermando anche di essere stata nominata loro tutrice da un giudice locale. Margherita non si dette per vinta e assieme alle altre due sorelle, una che viveva in Israele, l’altra anch’essa in Nuova Zelanda e con la cognata Auguste (moglie del fratello Richard catturato e ucciso dai nazisti a Vienna) scrisse al sindaco del paesino. In assenza di alcun riscontro positivo, Auguste che viveva in Gran Bretagna si recò a Grenoble per incontrare la Brun. Costei, anziché collaborare si dimostrò ostile ed affermò definitivamente che non avrebbe mai restituito i bambini.
A questo punto comincia il vero dramma, la cui storia diventa più completa grazie alla lettura dei documenti custoditi in Vaticano. Si scopre così che la Brun con l’accordo del vescovo locale aveva battezzato i due bambini nonostante ne conoscesse l’ascendenza ebraica e che, essendo essi diventati cattolici, erano “proprietà” della Chiesa di Roma e mai più sarebbero stati “sottomessi” ad una famiglia ebrea.
I Finaly si rivolsero allora ad un tribunale francese che nel Luglio 1952 ordinò alla Brun di consegnare i bambini ai parenti dei genitori. Come tutta risposta le locali le suore del convento di Notre Dame de Sion li nascosero, sembra su suggerimento dell’arcivescovo di Lione il Cardinale Gerlier. Nel Novembre 1952 il tribunale francese emise un ordine esecutivo ma le suore si rivolsero alla Corte d’Appello per chiedere una nuova sentenza.
Nel frattempo, la stampa francese aveva cominciato ad occuparsi del caso e il Cardinale Gerlier chiese istruzioni al Vaticano. Il Sacro Uffizio (oggi conosciuto come Congregazione per la Dottrina della Fede) suggerì, come risposta, di attendere la sentenza della Corte d’Appello e comunque, in caso di decisione sfavorevole, di “suggerire alla signora Brun di resistere, magari appellandosi alla Corte di Cassazione, e di usare tutti i mezzi legali per ritardare il più a lungo possibile l’esecuzione di una eventuale nuova sentenza sfavorevole.
Nell’attesa del nuovo giudizio, le suore decisero di spostare i bambini in una scuola cattolica vicino al confine spagnolo e di registrarli colà sotto falso nome. Prima di farlo, chiesero e ottennero l’approvazione del vescovo locale. La giustizia francese non fu inerte e il 29 gennaio 1953 la madre superiora del convento fu arrestata. Con lei finirono in prigione alcuni monaci e suore considerati complici. Il Sacro Uffizio informò per iscritto Papa Pio XII di quanto stava accadendo, specificando che “gli ebrei, in combutta con i massoni e i socialisti hanno organizzato una campagna di stampa internazionale” su questo caso.
La cosa, oramai di dominio pubblico, stava diventando imbarazzante per le gerarchie cattoliche e il Vaticano, con la mediazione dell’ambasciata francese a Roma e il Nunzio a Parigi cercò quindi un accordo che prevedeva la consegna dei ragazzi ai parenti purché ci fosse la garanzia che “si prendano le opportune precauzioni per assicurare che loro (i ragazzi) non siano soggetti a diventare ancora ebrei”. L’allora Cardinal Montini (poi Papa Paolo VI), incaricato dal Papa di seguire l’affaire, scrisse al Nunzio a Parigi un telegramma in codice:
“E’ bene che il Sacro Uffizio non appaia (come ispiratore dell’accordo – n.d.r.)”. In altre parole, il Vaticano appoggiò dapprima la sparizione dei ragazzi ma, in un secondo momento, volle che tutta la questione apparisse soltanto come dovuta a responsabilità locali.
Nonostante l’intesa apparentemente raggiunta e gli arresti e le sentenze dei tribunali francesi, i due ragazzi furono inviati in un convento di monaci in Spagna con l’ordine di essere tenuti nascosti. Nel frattempo, col tentativo di recuperare il favore dell’opinione pubblica, il Cardinale Montini mandò al Nunzio Vaticano in Svizzera la bozza di un articolo che avrebbe dovuti apparire su un giornale locale come firmato da un qualunque redattore. Nel pezzo, ritrovato tra i documenti vaticani, si sosteneva che i due ragazzi si autoconsideravano dei “rifugiati” e invocavano il diritto d’asilo in Spagna. Era l’aprile del 1953 e i ragazzi avevano oramai dodici e undici anni.
Passarono altri tre mesi senza nuove notizie. Si sapeva che stavano in Spagna ma non esattamente dove. Si mossero allora la diplomazia francese, quella spagnola e quella israeliana. Alla fine, il clero spagnolo affermò ufficialmente che “senza un ordine formale che arrivi da Roma, i ragazzi rimarranno nella clandestinità”.
La pressione mediatica mondiale comunque stava montando e, ad un certo punto, in Vaticano si cominciò a temere per la ripercussione negativa sull’immagine del papato stesso. L’Osservatore Romano pubblicò allora un articolo in cui si sosteneva che l’accordo raggiunto dall’episcopato francese non avrebbe permesso alla famiglia Finaly di portare i ragazzi in Israele per farli diventare ancora ebrei.
“I due ragazzi … hanno dichiarato il loro desiderio di rimanere cattolici … di professare e praticare il cattolicesimo “.
Le pressioni dell’opinione pubblica, tuttavia, erano così così forti in Francia da obbligare il Vaticano a dare via libera alla restituzione dei due ragazzi. Il 25 di Luglio i due atterravano finalmente a Tel Aviv.
Ciononostante, il cardinale Montini scrisse alla fine di settembre una lettera di protesta al governo francese attraverso l’ambasciatore presso il Vaticano sottolineando che i due ragazzi erano stati battezzati e che con il loro viaggio in Israele “la loro educazione cattolica sarebbe stata compromessa”.
Gerard dopo essere diventato ufficiale dell’esercito israeliano ha lavorato come ingegnere. Robert ha esercitato da medico, esattamente come suo padre.
A difesa di Montini occorre ricordare che, da Papa, portò a termine il Concilio Ecumenico Vaticano II e nel 1965 fece pubblicare un testo (Nostra Aetate-già preparato in bozza da Giovanni XXIII col titolo Decreto sugli Ebrei) in cui si sosteneva che la religione giudaica e gli ebrei, così come gli islamici, dovevano essere considerate con totale rispetto.
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