Ilaria Ester Ramazzotti
Un cognome “pesante”, a tratti “ingombrante”, che notano tutti. Un cognome al contempo omesso o sostituito, per ragioni di sicurezza o di riservatezza, nelle stagioni diverse di una vita complicata. Ma sempre difficile da portare, se a farne le spese è la propria individualità, il proprio personale nome. Quel cognome è Togliatti, e quel nome è Aldo. Parliamo di Aldo Togliatti, il figlio ebreo del leader comunista Palmiro Togliatti. Ebreo, perché sua madre è Rita Montagnana, della famiglia ebraica Montagnana di Torino.
Nato nel 1925 e spentosi nel 2011, Aldo per tutta la vita resta “il figlio di Togliatti”, il dirigente dell’Internazionale Comunista, collaboratore di Stalin, segretario del Partito Comunista Italiano dal 1943 al 1964 e membro dell’Assemblea Costituente della Repubblica Italiana. Non molto si è scritto di Aldo, e ancora meno del fatto che fosse ebreo. Per un lungo periodo della sua esistenza, non si è addirittura saputo più nulla di lui. Noi vogliamo ricordarlo e proporre alcuni tratti della sua storia.
Due genitori e una famiglia ebraica protagonisti del Novecento
Della figura di Palmiro Togliatti riportiamo un breve ritratto disegnato da Giorgio Bocca nella sua opera biografica Togliatti, che ci aiuta a comprendere la difficoltà e la peculiarità dell’essere figlio, nel privato e nel pubblico, di una tale e complessa figura. «Palmiro Togliatti – scrive Bocca – è ricordato come uomo freddo, scostante, che portava occhiali da professore, parlava con voce nasale, un intellettuale arido nei sentimenti, un politico scaltro che conosceva la langue russe, cinico. Resta allora da spiegare perché l’Italia proletaria fu pronta all’insurrezione armata quando si attentò alla sua vita e perché milioni di italiani di ogni ceto ebbero il sentimento, nel giorno della sua morte, che con lui se ne andava uno dei padri della Repubblica e comunque uno a cui si era debitori di mutamenti importanti».
Aldo, che da bambino chiamano Aldino, qualche volta Aldolino, assomiglia moltissimo a suo padre. Nei lineamenti, negli occhi, persino in quel passare la mano fra i capelli, e porta un paio di occhiali spessi come i suoi. Anche sua madre Rita è una figura di spicco. Montagnana è un altro cognome “pesante”: otto fratelli, figli di Moise Montagnana di Fossano e di Consolina Segre di Saluzzo, tutti nati nel quartiere San Paolo di Torino e vissuti a cavallo fra ebraismo, socialismo e comunismo.
Gemma, Bianca (morta da bambina), Lidia, Clelia, Rita, Mario, Elena e Massimo, nati fra il 1887 e il 1903, sono ricordati nel libro I Montagnana. Una famiglia ebraica piemontese e il movimento operaio (1914-1948), edito da Giuntina. A scriverlo saranno Giorgina Arian Levi, figlia di Gemma Montagnana, e Manfredo Montagnana, figlio di Massimo. È una storia di tante diaspore, segnate dalle persecuzioni politiche e antisemite, che nel tempo vedrà vari protagonisti di questa numerosa famiglia spostarsi rispettivamente in Unione Sovietica e in Francia, in Messico e in America Latina, in Australia.
Il padre degli otto fratelli, Moise Montagnana, figlio di un macellatore rituale, è dipendente della sartoria ebraica Bellom, che rifornisce la famiglia reale. Anche Rita Montagnana è del settore: fa la sarta alla sartoria Sacerdote. Si occupa di politica e di lotte sindacali. Negli anni del fascismo entra in clandestinità e lavora per il Partito Comunista, che nel 1921 contribuisce a fondare.
Nel 1924 Rita sposa Palmiro Togliatti e si trasferisce a Roma, incaricata di organizzare per corrispondenza la scuola nazionale di partito diretta da Antonio Gramsci. Insieme al marito, a rischio di arresto nelle carceri fasciste, si sposterà tra Svizzera, Francia, Spagna e Unione Sovietica, dove è una delle poche donne a frequentare la Scuola leninista di formazione dei dirigenti comunisti. Palmiro Togliatti, a Mosca, in quegli anni è fra i dirigenti del Komintern.
Scrive Nunzia Manicardi nel suo libro I figli di Togliatti, che nel suo viaggiare Rita non dimenticherà mai né il dialetto piemontese, né la sua ebraicità. Ci terrà molto a essere ricordata come ebrea. All’Archivio di Stato di Roma, nella cartella a suo nome, compaiono le segnalazioni “sovversiva” e “di razza ebraica”.
Tra il 1936 e il 1938 è in Spagna con Togliatti, per la guerra civile spagnola. Poi di nuovo in URSS. Rientra in Italia solo nel 1944. Nel 1946 è una delle poche donne eletta alla Costituente e una delle fondatrici dell’Unione donne italiane. Insieme a Teresa Mattei e Teresa Noce, sceglie la mimosa quale simbolo dell’Otto marzo. Nel 1948 viene lasciata da Togliatti, che va a convivere con la giovane deputata e futura presidente della Camera Nilde Iotti. Rita rientra da Roma a Torino. Dal 1958 abbandona e viene progressivamente esclusa dall’attività politica nazionale. Sino alla sua morte, rimarrà abbonata a L’Unità e al giornale sovietico Pravda.
Fra i fratelli Montagnana, anche Mario Montagnana viene eletto alla Costituente e poi in parlamento. È giornalista, redattore di Ordine Nuovo, il giornale di Antonio Gramsci, e poi direttore de L’Unità. Anche lui ha una vita densa di incarichi nel Partito Comunista Italiano.
Come avrà vissuto Aldo il profilo dei suoi genitori, della sua famiglia? Prova a immaginarlo Massimo Cirri, autore della biografia di Aldo Togliatti Un’altra parte del mondo, edita da Feltrinelli: «Tuo padre è il Migliore, le masse lo adorano – oppure lo odiano, ma sempre molto -; tuo zio Mario sta alla Costituente, lo zio ha anche inventato l’Arci, quella delle Case del Popolo […]. La mamma uguale, scrive la Costituzione. La fidanzata del babbo idem. Mamma un giorno torna dall’ufficio un po’ più tardi […] e tu le chiedi come mai e lei ti dice cha ha dovuto inventare il fiore simbolo della Festa della donna. Ma che vita è? Se lo chiederà Aldo? ‘E io che farò?’».
Non è una vita facile, quella di Aldo Togliatti. Da ragazzo lo definiscono chiuso, molto timido, impacciato nelle cose della vita. Ma è molto gentile, educato, studioso e appassionato lettore. Gli capita di abitare in Francia, una delle destinazioni della clandestinità dei genitori, e impara il francese. Ma è in Unione Sovietica che trascorre lunghi anni della sua giovinezza. Non gli sarà facile, dopo la guerra, abituarsi all’Italia.
A Mosca e a Ivanovo, la scuola per i figli dei rivoluzionari nel mondo
Alternando periodi di permanenza a Parigi e in Svizzera, negli anni Venti la famiglia Togliatti va a Mosca, dove Palmiro Togliatti si trasferisce definitivamente nel 1934. Aldo abita con i genitori a Mosca, all’Hotel Lux, dove sono ospitati i leader comunisti stranieri. Aldo ricorderà per sempre che, da bambino, gli piaceva guardare il padre da lontano, nelle celebrazioni per il Primo Maggio. Autorevole, ma distante. Spesso assente, suo malgrado, per i suoi impegni politici e ideali.
Nel 1936 i Togliatti partono per la Spagna. Un momento cruciale, per Aldo, che viene mandato a Ivanovo, a trecento chilometri da Mosca. Lì c’è un convitto di Stato, una scuola internazionale per i figli dei leader comunisti. Aldo ha dodici anni. “Torneremo fra un paio di settimane”, sembra che gli abbiano detto i genitori. Ma in quella scuola resta solo. Certo, ci sono altre “grosse pigne”, che in gergo sono i figli dei capi del comunismo mondiale. A scuola la loro identità è segreta anche ai compagni di stanza. Fra questi, a Ivanovo ci sono i figli del cinese Mao Zedong, il figlio dello iugoslavo Tito, la figlia di Dolores Ibàrruri, la “pasionaria di Spagna”. Anche Aldo, certamente, è una “grossa pigna”: qui si chiama Aldo Ercoli, uno dei cognomi finti della clandestinità di suo padre. Ci sono altri italiani, per esempio i figli di Luigi Longo e Teresa Noce. Anche loro in incognito. Comunque adesso Aldo è solo, con o senza il suo cognome pesante. Rispetto ad altri, ancora più solo: è figlio unico.
Studia in russo, la lingua in cui continuerà per anni a leggere libri e letteratura, come il francese e l’italiano. Prenderà poi a Mosca una laurea breve in ingegneria. In Russia impara l’arte degli scacchi, che non abbandonerà più, e l’abitudine di fare ginnastica la mattina, da buon ragazzo sovietico. Ma lui è italiano, è ebreo, ha abitato a Parigi e ai genitori scrive lettere in francese. Qual è la sua lingua? E la sua identità? Comunque sia, a Ivanovo conta di più essere rivoluzionari e internazionalisti. Troppe cose, per un ragazzo sballottato per il mondo. Quando i suoi non gli risponderanno, scriverà alla zia Elena Montagnana: «Perché la mamma non torna, dov’è papà?». Di certo è più fortunato di altri che hanno i genitori assassinati o in carcere. Eppure i suoi non tornano. Arriveranno solo due o tre anni più tardi, finita la guerra civile spagnola.
Aldo, nel frattempo, prosegue un suo intimo e personale “viaggio”. È in questo frangente che inizia a peggiorare, sempre più chiuso in sé stesso, dentro questo strano pseudo-abbandono, dentro questa sua identità così complessa. Massimo Caprara, segretario di Palmiro Togliatti dal 1944, dice a Nunzia Manicardi in un’intervista riportata sul suo libro: «Un giorno, mentre eravamo insieme a Praga, [Aldo] mi disse sconsolato: “Non sono mai stato bambino”».
In più, il suo rapporto col padre non sarà sereno. Giorgio Bocca riporta che Palmiro Togliatti abbia confidato alla sorella Cristina: «Aldo ha letto più libri di me. È bravo, ma non riesco a capirlo. Vorrei che prendesse la laurea, che si facesse una vita, ma ha terrore degli altri, rifiuta la comunicazione». «Ho l’impressione che non fosse comunista. Non ha mai mostrato di esserlo – dice ancora Massimo Caprara -. Non era nemmeno anticomunista. Semplicemente, non parlava mai di politica».
L’antisemitismo in Russia
Secondo Caprara, oltre al padre, ad Aldo manca la vicinanza della “madre ebrea”. È consapevole di essere ebreo. «Era stato allevato da Rita non secondo l’osservanza dei precetti, però sapeva tante cose. Sapeva, tanto per dire, che cosa fosse la cucina kasher. Ma, soprattutto, c’era questa specie di diritto di appartenenza ebraica che si esercitava su di lui, in modo evidente anche in tante piccole cose. Era ebreo nel sentimento. Nella solitudine, nell’eccezionalità, nella riservatezza, nel fatto di non potersi radicare da nessuna parte. Ma era ebreo come lo sono gli ebrei russi, che non sono uguali a quelli degli altri paesi perché hanno il senso della persecuzione profonda. Il pogrom è la stessa cosa che essere comunisti. Si è ammazzati sia perché ebrei, sia perché comunisti. Non dai russi, ma dai polacchi sicuramente. E quindi Aldo era consapevole di essere in qualche modo un perseguitato».
Essere ebreo nei decenni centrali del Novecento, soprattutto in Russia durante gli anni di guerra, è più che complicato anche per una “grossa pigna”. La Russia ha una lunga tradizione di antisemitismo popolare. I contadini erano impregnati dalla propaganda antisemita religiosa. Negli anni Trenta, è opinione comune ritenere che le principali vittime delle purghe staliniane siano gli ebrei. Aldo e i suoi compagni vedono andare via da Ivanovo gli studenti colpevoli di essere diventati figli di “nemici del popolo”, non più allineati con Stalin o presunti cospiratori.
Il crescente nazionalismo russo colpisce anche la cultura ebraica. Vengono chiuse scuole e centri culturali ebraici. Il patto Ribbentrop-Molotov del ’39 accelera le cose e gli ebrei vengono esclusi dall’esercito, dalla diplomazia e dal commercio con l’estero. Un pericolo maggiore arriva nel ’41 con l’avanzata della Germania nazista nei territori sovietici. Aldo Togliatti e sua madre, dal ’41, vengono evacuati nelle retrovie, a Kujbysev, la capitale provvisoria, dove Rita collabora con una radio antifascista in lingua italiana. Togliatti padre non c’è, è altrove.
L’ultimo viaggio ufficiale di Rita Montagnana in URSS sarà come delegata italiana al XX congresso del PCUS nel 1956. Vi parteciperà anche Palmiro Togliatti, ma separatamente dalla (ex) moglie, che non incontrerà. Saranno gli anni della guerra fredda, quando non è semplice viaggiare. Saranno anche gli anni dell’antisemitismo comunista nei paesi dell’Est. Rita avrà un passaporto fornito da un dirigente del partito.
Il rientro in Italia
Rita Montagnana rientra in Italia dal suo risiedere in Unione Sovietica nel maggio del 1944, ancora in piena guerra, in piena Shoah. Aldo la seguirà nel luglio del ’45, su un aereo che riporta in patria padri e figli comunisti. Anche stavolta, è solo. Palmiro Togliatti era rientrato in Italia nel 1943. Aldo non avrebbe voluto tornare in Italia, un paese che conosce poco. Va ad abitare a Roma con i genitori, ma la sua vita sembra non funzionare. E gli manca la Russia. Forse non l’URSS, ma la Russia sì.
Un giorno, sale su un treno e arriva al porto di Civitavecchia. Confuso, vorrebbe imbarcarsi clandestinamente su una nave sovietica, partire per il paese della sua infanzia. Lo fermano, dice di chiamarsi Togliatti. Lo riconoscono e da un ospedale viene riportato a Roma. Ma nella capitale italiana “non si trova”. Si trasferisce allora a Torino, dove ritrova la grande famiglia ebraica che non ha mai potuto frequentare davvero. Tenta di studiare ingegneria al Politecnico e persino di lavorare in un’azienda. Ma nemmeno questo funziona.
Nel frattempo, anche Rita Montagnana è tornata a Torino, lontana da Roma e dai dirigenti del suo partito. Anche suo marito è lontano: abita nella capitale con Nilde Iotti, con cui adotterà una bambina, Marisa Malagoli. Fatti insoliti, per quei tempi. In divorzio non esiste, di famiglia allargata non se ne parla, non si sa nemmeno che cosa sia negli anni ’50. E Aldo? Adesso è adulto, ma come vive questi eventi? Un tradimento? Un altro pseudo-abbandono? Non lo sappiamo, ma non è il primo. Fatto sta che in quegli anni Aldo peggiora ancora.
La prima visita psichiatrica gliela fa Enzo Arian, il marito di Giorgina Levi, la figlia di sua zia Gemma Montagnana. Enzo Arian è ebreo, marxista e tedesco di padre polacco. Ha studiato medicina e psicologia a Berlino, fino a quando ha potuto. Poi è venuto in Italia per studiare psichiatria, ma per le leggi razziali è dovuto andare via anche da qui. In Bolivia, fino al 1946
Fra il 1952 e il 1957 Aldo andrà più volte con la madre in URSS, i Bulgaria e in Ungheria per fare visite e cure specialistiche: “Schizofrenia con spunti autistici” è la sua diagnosi. I giornali stranieri riferiscono che in questo periodo si voglia convertire al cattolicesimo e fare convertire anche Rita.
Vivrà per molti anni con la madre a Torino, in un appartamento lontano dal centro, dove alla morte di Rita Montagnana nel 1979 si ritroverà di nuovo solo. Palmiro Togliatti muore prima, nel 1964. Gli imponenti funerali sono per Aldo la sua ultima apparizione pubblica.
Poi, un giorno del 1979, quando la madre è già morta, Aldo decide di prendere di nuovo un treno. Arriva fino al porto di Le Havre, nel nord della Francia, dove non è mai stato. Questa volta, sembra che voglia andare in America. Verrà ritrovato anche qui, dopo giorni di vagabondaggio, ma ai poliziotti spiegherà di non essere “il figlio di Togliatti, che è solo una omonimia”.
Sua zia Nuccia Montagnana dirà che in alcuni momenti era filo-americano e che il suo voler andare a volte in Russia, a volte in America, era un segno chiaro del suo “sbalestramento”. «Anche lei, la follia, di qualunque cosa si tratti, ha le sue ragioni – scrive Massimo Cirri -. Quindi c’è qualcosa che porta Aldo Togliatti a Le Havre […]. È un sentiero di famiglia, una rotta. Da Le Havre sono partiti suo padre e sua madre, tante volte. È stato uno snodo delle loro vite». Anche per lui questo porto rappresenta una svolta: la sua famiglia si convince che non potrà più abitare da solo.
Trent’anni in clinica
Più che la famiglia, se ne occuperà il Partito Comunista, per inciso nella sua sezione modenese. Comunque lo stesso partito che nel 1978 sostiene la Legge Basaglia numero 180 sulla chiusura dei manicomi. Nel 1980 Aldo viene portato a Villa Igea, una clinica privata di Modena. Ha solo 55 anni, ma ci resterà fino alla sua morte, per oltre trent’anni. Un periodo lunghissimo, una pena enorme. Sembra un’altra vita dentro la vita.
A Villa Igea Aldo non avrà più un cognome, nemmeno uno finto. Su alcune sue cose c’è scritto solo “Aldo”, oppure “Aldo 227”, il numero della sua camera. Di lui si occupa un incaricato del partito, Onelio Pini, che per anni andrà a trovarlo ogni settimana. Gli porta le sigarette e la settimana enigmistica. Qualche volta vanno fuori a bere il caffè, ma non è facile, non sempre Aldo esce volentieri. Il partito gli ha fissato la residenza in casa di un altro militante di Modena, ma lui non ci va mai.
Aldo resta un appassionato lettore nelle “sue tre lingue”. In clinica è sempre educato, gentile, persino elegante. Lo mettono in camera coi pazienti più gravi, ma non se ne lamenta mai. È sempre solo. Anche a scacchi gioca in solitaria. Onelio Pini riferirà che non parla mai di suo padre, tranne poche volte in cui lo chiama “il Vegliardo”. Di Aldo non si parlerà più fino al 1993, quando la Gazzetta di Modenapubblica uno scoop sul ritrovamento del “figlio di Togliatti” a Villa Igea. Alcuni titoli di giornale spazieranno dall’”ingresso volontario” al “ricovero forzato del figlio di Togliatti”.
Nel 1995 Aldo viene interdetto. Il curatore legale è Rini Bastia Montagnana, che tutti chiamano Nuccia, il suo nome di battaglia quando era una staffetta partigiana. È la moglie di Franco Montagnana, figlio di Mario Montagnana. Sarà Nuccia ad andarlo a trovare dopo Onelio Pini, fino a quando potrà. Poi ci penserà un’infermiera volontaria. Ormai i tempi sono cambiati, il partito non decide più.
Della morte di Aldo nel 2011 viene data notizia solo a funerali avvenuti. Di lui restano poche fotografie, “rubate” da qualche cronista. Sulla copertina del libro di Cirri è ritratto in un dipinto, in un porto di mare. In fondo ci piace pensarlo così, Aldo Togliatti. Solo, ma libero. Perso, ma con un orizzonte di fronte. Come quella volta a Civitavecchia, con la speranza di arrivare altrove, che poi è la speranza di stare meglio. Forse da un’altra parte del mondo, forse in luogo più vicino al vero centro di sé stesso.
Consolina Segre, la nonna materna di Aldo Togliatti
Consolina Segre Montagnana, la nonna materna di Aldo Togliatti, era figlia di un orefice e aveva ricevuto un’educazione ebraica. Iscritta alla Comunità Ebraica di Torino, leggeva regolarmente il giornale Israel. Rispettava le festività, i digiuni e i precetti, facendo studiare l’ebraico ai figli, che portava con lei in sinagoga, ma lascia liberi di scegliere. Tutti erano molto legati alla loro identità ebraica. Gemma, Lidia e Massimo, in particolare, sono stati iscritti alla Comunità Israelitica per tutta la vita.
Consolina Segre amava incredibilmente i figli, i nipoti, la famiglia. Quando erano lontani, esiliati o sparsi per il mondo dalla politica, scriveva loro continue lettere, usando soprannomi per proteggerli dalla censura. Doveva aver amato molto anche Aldo Togliatti, ma non aveva avuto la possibilità di vederlo spesso. Un altro dramma della solitudine di Aldo.
La casa dei Montagnana in via Monginevro 68 a Torino, che aveva acquisito nel 1911, sarebbe diventata nel tempo un “ritrovo” politico per i figli e per i loro amici e compagni, alcuni dei quali sono poi diventati importanti dirigenti della Sinistra italiana. Consolina non ha mai avanzato obiezioni, nascondendovi persone ricercate e materiali politici. Durante una perquisizione, un questurino trovo un giornale scritto in ebraico: proveniva dalla regione sovietica ebraica del Birobidjan. Glielo avevano portato i figli Mario e Rita, di ritorno da un viaggio del 1921 a Mosca. Negli anni delle leggi razziali, Consolina Segre sfolla in un paese della Val di Susa. La sua casa torinese viene sigillata con la scritta “casa di ebrei”.