Il 20 febbraio del 1939 i nazisti americani fanno la loro festa più bella, un grande raduno al Madison Square Garden di New York. Ce lo ricorda un breve documentario di Marshall Curry, sette minuti in presa diretta piuttosto impressionanti (da vedere assolutamente qui, mi raccomando). I nazisti, vestiti da nazisti, con insegne e coreografie naziste, si riuniscono in 20.000 per celebrare con il saluto nazista la loro fedeltà all’America, l’America come la intendono loro. C’è il giuramento alla bandiera, c’è l’inno nazionale, c’è la gigantografia di un George Washington ducesco. L’intervento principale è del loro führer, il carismatico Fritz Julius Kuhn che, come è d’uso per tutti quelli che non sono al governo, chiede che il governo del paese sia restituito al popolo che quel governo ha fondato. In più aggiunge che il paese dovrebbe essere bianco e controllato dai “gentili” e che i sindacati dovrebbero essere liberati dai leader ebrei controllati da Mosca. Nei suoi discorsi è solito attaccare il presidente e il suo programma chiamandoli Frank D. “Rosenfeld” e “Jew Deal”.
Ci sono proteste riprese nel filmato, si intuiscono all’inizio di fronte al Garden, tenute a bada dalla polizia a cavallo (sono militanti trotskisti); ce n’è una evidente all’interno da parte di un singolo coraggioso, a cui forse è la polizia a salvare il collo (è un giovane operaio ebreo, Isadore Greenbaum). Le proteste ci sono tutte le volte che i nazisti si presentano in pubblico, con contro-manifestazioni, picchetti, attacchi violenti. La loro parata newyorkese dell’ottobre 1938 (vedi la foto qui sopra), è protetta da un migliaio di poliziottti; il sindaco Fiorello La Guardia, la cui madre è ebrea, la disapprova e tuttavia la consente, fa solo in modo che i poliziotti siano principalmente ebrei e neri. A organizzare i nazisti americani è il German American Bund, una associazione di cittadini di discendenza germanica (“per razza e sangue”) e di ovvie simpatie politiche. Nata nel 1936, per ovvii motivi si dissolve quando scoppia la guerra. Fritz Kuhn, un nazista tedesco da poco naturalizzato americano, finisce in carcere prima per evasione fiscale (che dio benedica le evasioni fiscali negli Stati Uniti) e poi come enemy alien, essendogli stata revocata la cittadinanza.
Ma prima della guerra e accanto alle proteste in strada, c’è qualcosa d’altro che ostacola la crescita dei nazisti americani e li costringe a vivere pericolosamente. Magari c’è una componente di leggenda metropolitana in questa storia, tuttavia la storia è questa. A spezzare le ossa ai membri del German American Bund ci pensa la mafia ebraica newyorkese, la gang di Meyer Lansky e del suo sidekick Bugsy Siegel (quello che poi fonda la moderna Las Vegas del gioco d’azzardo e che, interpretato da Warren Beatty, si innamora di Annette Bening nel film Bugsy). Spezzare le ossa non è un modo di dire: i Jewish mobsters non vogliono uccidere, e quindi non resta loro che picchiare su braccia e gambe di chi frequenti sedi, riunioni o cortei di nazisti – con bastoni da baseball e tubi di ferro. Sembra che la mafia italiana si offra di dare una mano e che Lansky rifiuti dicendo, questa è una battaglia nostra, di noi ebrei. E’ talmente una battaglia loro che, si dice, abbia l’avallo del rabbino Stephen Wise e dell’ex deputato e ora giudice Nathan D. Perlman. Da qui, fra l’altro, l’impegno a non uccidere.
Secondo alcune versioni della storia, il rabbino Wise e il giudice Perlman sarebbero in effetti gli iniziatori della faccenda, sarebbero loro a prendere contatto con Lansky per mettergli in testa delle idee, a offrirgli del denaro per organizzare delle squadre d’intervento, ma Lansky rifiuta i soldi, il lavoro lo fa gratis. In una sua tarda confessione, spesso citata ma di fonte per me ancora incerta, racconta il perché raccontando una spedizione contro un’adunata nazista a Yorkville, il quartiere di Manhattan che allora è il cuore della comunità tedesca.
“Arrivammo quella sera e trovammo parecchie centinaia di persone in camicia bruna. Il palco era decorato con una svastica e ritratti di Hitler. L’oratore cominciò il suo sproloquio. Noi eravamo solo una quindicina, ma entrammo in azione.
Li attaccammo nella hall e ne gettammo alcuni fuori dalla finestra. C’erano scazzottate dappertutto. La maggior parte dei nazisti andò nel panico e se la diede a gambe. Li inseguimmo e li picchiammo, alcuni finirono fuori combattimento per mesi. Sì, era violenza. Volevamo insegnare loro una lezione. Volevamo mostrare loro che gli ebrei non erano sempre disposti a starsene buoni buoni ad accettare gli insulti”.