La parashà che leggeremo questo shabbat, narra la vicenda dei “dodici esploratori”, assai nota, in cui viene raccontata la spedizione di dodici uomini, che si recano nella terra di Israele, dietro richiesta del popolo, ad esplorarla.
Il loro ritorno è assai drammatico, in quanto gli esploratori portano con se dei frutti che hanno raccolto, per mostrare al popolo la loro grandezza che testimonia che la terra è abitata da giganti.
Il popolo si spaventa e manifesta terrore, chiedendo di ritornare in Egitto, dove almeno lì avrebbero mangiato gratis e in abbondanza.
Il Signore li punisce e decreta che per quaranta anni – un anno per ogni giorno di permanenza nella terra – resteranno nel deserto e che la generazione uscita dall’Egitto non entrerà nella terra di Israele, all’infuori di Giosuè e Calev, che avevano si confermato le parole degli altri esploratori, ma avevano fatto notare che il Signore li aveva sempre sostenuti, e anche questa volta sarebbe stato così.
L’obiezione che i Rabbini fanno, è se non fosse lecito e umano manifestare sentimenti di paura; per quale motivo allora, il Signore li punisce in modo così duro.
In realtà, potremmo dividere e scollegare la domanda, perché è si lecito avere sentimenti di paura ma, se il Signore aveva promesso sin dai tempi di Abramo di dare al popolo ebraico la terra di Israele, avrebbe sicuramente facilitato a loro la conquista del Paese.
Un’altra cosa è la punizione; perché si può aver paura ma senza contagiarla ed il contagio di quel sentimento, provoca scoraggiamento in mezzo al popolo, in un momento in cui era invece fondamentale unione e determinazione forte. Questo rende molto evidente l’inadeguatezza di quella parte del popolo, che essendo molto debole, sarebbe sicuramente stato di grosso ingombro per le guerre di conquista.
L’altra cosa è la punizione reale, poiché il popolo si spaventa per un motivo banale, ma soprattutto perché parla male della terra stessa: “va jozzihu dibbat ha arez ra’aà – ed espressero maldicenza contro la terra”.
Torniamo sempre allo stesso eterno problema del nostro popolo che non perde mai l’occasione di fare questo “sport” e che continua a danneggiarci sempre in modo drammatico.
E’ chiamata la parashà della lashon ha ra’, che non va fatta nemmeno contro le cose – le nostre cose; che provoca disastri e spaccature, dove tutti rimettono gran parte della propria esistenza provocando danni inestimabili, contro noi stessi.
Quante volte potremmo pensare di star zitti, prima di commettere danni.
I maestri della mishnà sostengono che è meglio il silenzio più di ogni altra cosa, poiché la maldicenza ci si ritorce contro come un boomerang: “lo mazzati la guf tov mi sheticcà – niente ho trovato di meglio per il corpo che il silenzio”.
Shabbat shalom