Skip to content Skip to footer

Pirkè Avòt – Lezioni dei padri

19,00

Un capolavoro della letteratura sapienziale
2011 – Pagine 132

Informazioni aggiuntive

Autore

Alberto M. Somekh

Copertina

Brossura morbida plastificata

Formato

150×240 mm

Testo

Testo ebraico e traduzione italiana a fronte

COD: 005 Categorie: , Product ID: 231

Descrizione

I Pirkè Avot (in italiano anche Capitoli dei padri o Massime dei padri), è un testo fondamentale della religione ebraica, ed è composto da insegnamenti etico-religiosi e di massime elaborate dai Maestri della Mishnà, il corpus legislativo ebraico che darà origine successivamente al Talmud. Il testo spesso sottolinea l’importanza dello studio, che è alla base della buona condotta dell’uomo verso il prossimo. Si dice, infatti, che chi è ignorante non potrà mai essere un uomo pio. In questa edizione rav Alberto M. Somekh si cimenta con un commento al commento ai “Pirkè Avot – Capitoli dei padri” del rabbino piemontese vissuto nel ‘700, David Zekharyà Shabbetai Segre. Il volume è corredato da una serie di articoli introduttivi di rav Somekh sia sul testo, sia sull’autore dei commenti e il suo ambiente culturale.

Introduzione

Pirkè Avòt, Massèkhet Avòt, o più semplicemente Avòt è denominato un trattato della Mishnà, inserito nel quarto ordine Nezikìn – danni, relativo al diritto civile e penale rabbinico. Esso tuttavia si distingue fra i 63 trattati della Mishnà in quanto, mentre quest’opera si presenta di fatto come un corpus giuridico contenente una normativa da codificare e da seguire – Halakhà, il trattato Avòt ha un carattere quasi esclusivamente etico filosofico – aggadà. Redatto, al pari del resto dell’opera, da Rabbì Yehudà Hanassì (il Principe, capo del Sinedrio a Tzippori in Èretz Israèl) a cavallo fra il II e il III secolo E. V. al culmine di una fase di trasmissione orale difficilmente misurabile. Il trattato consta di una serie di massime morali, alcune delle quali sembrano rivolte in particolar modo ai giudici nella conduzione dei processi e ciò spiegherebbe la sua collocazione nell’ordine Nezikìn. 

In ogni caso le massime, veri e propri epigrammi che si imprimono nella mente per la loro sinteticità, si ispirano a motivi di etica pratica, che inseriscono il trattato a pieno titolo nell’antica letteratura sapienziale ebraica, che ha i suoi capisaldi nei libri biblici dei Proverbi – Mishlè, di Giobbe – Iyòv, del Kohèlet e in alcuni Salmi – Tehillìm, di cui di fatto Avòt si presenta come una continuazione, ispirandosi ad essi. Contrariamente allo stile della Mishnà, che per lo più evita il ricorso a citazioni, il trattato Avòt fa frequenti rimandi ai testi biblici, e anche in questo senso è più prossimo allo schema del Midràsh.

I temi trattati toccano gli aspetti fondamentali del pensiero rabbinico classico: il compito principale del Maestro è procurarsi molti discepoli, i pilastri della società sono il servizio di Dio e lo studio della Torà. Si sottolinea l’importanza della giustizia, che va amministrata secondo criteri etici da parte dei preposti, e delle doti morali in genere. Il duro lavoro deve essere preferito alla ricerca degli onori e alla consuetudine con le cariche pubbliche. I Pirkè Avòt costituiscono di fatto un vero e proprio compendio di disciplina etico-religiosa, tanto che nel Talmùd si afferma, a nome di Ravà, «Chi vuol essere pio metta in pratica gli insegnamenti di Avòt» (B. K. 30a). 

Almeno nei primi quattro capitoli dei sei che formano l’attuale raccolta, le massime sono per lo più attribuite a Maestri il cui nome viene riportato in capo a ciascuna.

Nei primi due capitoli le massime sono addirittura ordinate cronologicamente nel rispetto di una catena della tradizione orale che, dopo aver affermato la derivazione di quest’ultima dalla rivelazione sul Monte Sinài al pari della Torà scritta, elenca le varie generazioni di Maestri a partire dagli Uomini della Grande Assemblea (V sec. a. E. V; il primo nome menzionato è quello di Rabbì Shim’òn il Giusto, III sec. a. E. V.) fino allo stesso Rabbì Yehudà Hanassì. Nel terzo capitolo si riportano invece massime attribuite alla scuola di Rabbàn Yochannàn ben Zakkài (fine I sec. E. V.). 

Se Rabbì Yehudà Hanassì – è stato acutamente osservato – simboleggia in un certo modo l’autorità costituita, Rabbì Yochannàn sembra rappresentare invece la Scuola, che avrebbe garantito la continuità dell’Ebraismo nella seconda Diaspora: si pensi alla sua rocambolesca fuga da Yerushalàim assediata dai Romani, dentro una cassa da morto, che lo portò a ottenere da Vespasiano in persona il permesso di aprire una yeshivà a Yavne. 

Abbiamo in tutto una sessantina di nomi, introdotti per lo più a coppie (il Presidente, Nassì e il Vicepresidente, Av Bet Din del Sinedrio; Chag. 15b), a ciascuno dei quali viene attribuita un’affermazione, o una serie di affermazioni, in genere tripartite: si tende a vedere in questi insegnamenti una sorta di epitome del pensiero di ogni Maestro. In taluni casi è da sottolineare, data la posizione di chi li ha pronunciati, l’importanza che i detti dovevano rivestire originariamente sul piano politico. È all’interno degli stessi Pirkè Avòt che troviamo enunciato, con tanto di base biblica, il principio della fedele denominazione «Donde s’impara che chi riferisce un insegnamento con il nome di chi per primo l’ha detto, porta la redenzione nel mondo? Dal verso che dice: “E disse Estèr al re a nome di Mordekhài”» (6, 6; cfr. Est. 2). Non c’è dubbio che esso vuol sottolineare come nell’Ebraismo rabbinico il concetto di aristocrazia basato sull’eredità del sangue abbia lasciato il posto a un altro, ben più elevato concetto di famiglia spirituale, impostata sul rapporto maestro-discepolo.

Al puntiglio nel riportare i nomi, fa infatti riscontro la completa assenza di riferimenti biografici: le personalità indicate non assumono importanza di per sé in quanto singoli, ma in quanto condividono lo sforzo comune di farsi interpreti della Tradizione, sia pur esprimendo talvolta punti di vista differenti. 

Se il sistema dell’attribuzione prosegue nel quarto capitolo, nel quinto si manifesta un genere diverso di ordine: le massime sono per lo più anonime, ma accomunate da un riferimento numerico (10, 7, 4) che non fa che ampliare la tripartizione già notata nei capitoli precedenti. È difficile dire che cosa abbia spinto il redattore a inserire tali massime. Aldilà del loro carattere mnemonico, non è escluso che in esse si voglia affermare il concetto generale della presenza di un preciso ordine cosmico nelle cose, a riprova dell’esistenza di un Creatore divino e di una provvidenza nel mondo. 

Il sesto capitolo, detto anche Mishnàt Rabbì Meìr o Pèrek Kiniyàn Torà, – capitolo sull’acquisizione della Torà, contenente affermazioni di lode allo studio della Torà, si trova anche nel trattato post-talmudico Kallà Rabbatì (8) e nel Sèder Eliàhu Zutà (17) ed è una barayità – insegnamento rabbinico originariamente non accolto nella Mishnà, entrata nella raccolta posteriormente, per completare le sei porzioni da leggersi nei sei sabati fra Pèsach e Shavu’òt, allorché si affermò tale uso, pare già intorno all’VIII sec. d.E.V. in Babilonia. Diverse sono le giustificazioni date per tale usanza tuttora largamente seguita (alcuni usano estendere la lettura fino a Rosh Hashanà): è stato osservato che «Nessuna altra opera completa di alcun genere, neppure il libro dei Tehillìm, ha avuto il merito di entrare nel Siddùr Tefillà».

La più comune spiegazione è che i Pirkè Avòt offrono un efficace strumento di preparazione etico-spirituale nel periodo dell’’òmer in vista di Shavu’òt, la festa della promulgazione della Torà. Se la Torà è tutta chèsed – misericordia (Prov. 31, 26), quale migliore guida al chèsed del trattato Avòt? Ma si danno anche altre interpretazioni. Il Talmùd racconta che nel periodo dell’’òmer una pestilenza colpì a morte 24.000 discepoli di Rabbì ’Akivà per non essersi comportati correttamente gli uni con gli altri (Yev. 62a): ed è appunto ciò che i Pirkè Avòt si propongono di insegnare.

Infine, già il commento Me’àm Lo’èz affermava che la lettura dei Pirkè Avòt durante i lunghi shabbatòt estivi ha la forza di contrastare la tendenza alla pigrizia e al divertimento frivolo che caratterizza particolarmente la stagione calda. L’uso è di far precedere la lettura di ogni capitolo da Sanh. 1,10 e seguire dall’ultimo paragrafo del trattato Makkòt. Tali appendici sono state spiegate in vari modi. Non è escluso che si sia voluto ribadire in sede di studio dei Pirkè Avòt i principi fondamentali dell’elezione di Israèl e del dono della Torà come fonte di meriti in opposizione alla dottrina cristiana del Verus Israèl e dell’abolizione della Legge in quanto presunta causa di peccati.

Perché si chiamano Pirkè Avòt? Se la parola massèkhet, comune a tutti i trattati della Mishnà (lett. “telaio per tessuti”; cfr. Giud. 16. 13-14) allude all’ordito di tradizioni orali che sottendono la versione posta per iscritto e se il termine pèrek sembra riferirsi piuttosto alla seduta accademica e quindi alla lezione che non al capitolo come comunemente lo si traduce, sul termine avòt – lett. padri, vi sono due gruppi di interpretazioni differenti.

Il primo gruppo lo considera epiteto di persona, nella fattispecie i Maestri, chiamati padri (spirituali), in quanto con i loro insegnamenti fanno acquistare ai propri figli (spirituali, cioè i discepoli) la vita del mondo futuro, così come il padre carnale dà alla sua prole la vita di questo mondo; ovvero nel senso di padri fondatori, che hanno stabilito per le generazioni successive i principi dell’Ebraismo (è quanto afferma Rashì al termine del suo commento ad Avòt «… Per insegnarci come le loro azioni erano giuste e trattenevano dal male i loro contemporanei e li indirizzavano sulla retta via. Altrettanto è opportuno che si comporti ogni sapiente – chakhàm, nei confronti della propria generazione»). Sulla stessa linea, nel secolo scorso era S.R. Hirsch che così commentava il primo paragrafo: «Molto propriamente in questi passi si allude ai Saggi della nostra Legge come padri perché con questi detti essi davvero agiscono nei nostri confronti in qualità di padri fornendoci con la loro sapienza la guida etica di cui abbiamo bisogno per raggiungere lo stato di perfezione che Dio ci comanda». Nella Mishnà ’Eduyòt 1, 4 i Maestri stessi sono chiamati Avòt ha’olàm – padri del mondo, o forse piuttosto padri eterni. Ma è anche possibile che il termine alluda ai “giudici” destinatari primi del messaggio del trattato: si veda Gen. 45, 8. Il secondo gruppo lo considera alla stessa stregua di espressioni come avòt melakhòt – azioni capitali, proibite di shabbàt (Shab. 7, 2) avòt nezikìn – danni capitali (B. K. 1, 1) o avòt hatum’òt – impurità capitali (Toh. 1, 5; Kel. 1, 1) e avrebbe il significato astratto di principi fondamentali.

Il trattato Avòt non ha estensione né nel Talmùd Babilonese, né in quello Palestinese. Tuttavia uno dei cosiddetti trattati minori extra-canonici del Talmùd Babilonese, generalmente stampato in calce all’ordine Nezikìn, intitolato Avòt Derabbì Natàn, costituisce di fatto un commento talmudico ai Pirkè Avòt. Più precisamente si deve trattare del commento a una recensione di Avòt più antica di quella che Rabbì Yehudà Hanassì avrebbe introdotto nell’edizione definitiva della Mishnà e attribuita a Rabbì Natàn, da cui il nome. Essa ci presenta pertanto in molti casi una lezione delle massime anteriore rispetto alla versione “ufficiale” e può servire a rendere intelligibili eventuali difficoltà testuali riscontrabili in quest’ultima. Anche a noi capiterà di fare ricorso, talvolta, agli Avòt Derabbì Natàn. Essi ci sono pervenuti in due distinte lezioni: l’una, pubblicata nelle edizioni talmudiche fin dal 1550, in 41 capitoli (ARN-A); l’altra, costituita da 48 capitoli, pubblicata per la prima volta da S. Schechter nel 1887 (2a ed. 1945; ARN-B). Pur essendo sostanzialmente simili, le due versioni si differenziano nell’accentuazione data a determinati passi rispetto ad altri. Non vi sono elementi obiettivi per una datazione sicura degli ARN: riscontri interni farebbero pensare a un’epoca forse addirittura anteriore alla redazione del Talmùd. 

L’editio princeps dei Pirkè Avòt uscì a Napoli nel 1492; le successive a Venezia nel 1566 e 1579. Per il suo contenuto aggadico, fu il trattato mishnico più conosciuto anche fuori del mondo ebraico. Conobbe relativamente presto una traduzione latina (1541) e successivamente in tutte le lingue moderne. Le prime versioni italiane a stampa risalgono al XVII secolo. Negli ultimi decenni, dopo la traduzione di Castiglioni-Schreiber, come parte dell’intera versione della Mishnà (Trieste 1927), sono da segnalare le traduzioni di A.A. Piattelli (Roma 1968), Y. Colombo (Assisi 1977), G. Busi (nella versione italiana del volume di F. Manns, Leggere la Misnah, Brescia 1987, p. 179 sgg.) e infine la recentissima pubblicazione curata da S. Bekhòr della Comunità Sefardita Orientale di Milano (1995).

Fra i numerosissimi commenti classici dei Pirkè Avòt in ebraico citeremo quelli di Rashì, Maimonide (che accompagnava l’editio princeps e quella del 1566; preceduto dall’importante introduzione filosofica intitolata Shemonà Perakìm, “Gli otto capitoli”, Bologna 1526), ’Ovadià da Bertinoro, R. Yonà, Rabbì ’Ovadià Sforno (pubblicato nel Machazòr di Bologna del 1540), I. Abravanèl (1566), il Midràsh Shemuèl di Rabbì Shemuèl de Uçeda (Venezia 1579), il Avòt ’Olàm di Rabbì Biniyamìn Hakohèn Vitale di Reggio (Venezia 1719), il Maghèn Avòt di Rabbì S. b. Z. Duran (Livorno 1762), lo Ya’avètz. Il Chidà (acronimo di Chayìm Yosèf Davìd Azulày) di Livorno dedicò ai Pirkè Avòt quattro opere.

In questa tradizione che ha avuto in Italia dei momenti salienti, si inserisce l’opera di due autori che stiamo per affrontare: il già citato commento Avòt ’Olàm di Rabbì Biniyamìn Hakohèn Vitale e un supercommento al medesimo opera inedita di Rabbì Davìd Zekhariyà Shabbetày Segre di Vercelli intitolata Maghèn Avòt sul quale finiremo per concentrare la nostra attenzione. Cominceremo introducendo brevemente l’autore dell’Avòt ’Olàm.