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Giorni Feriali – Rito spagnolo

60,00

Siddùr per i Giorni Feriali Kippùr di rito spagnolo סידור לימי חול כמנהג הספרדים באיטליה
2016 – Pagine 428

Informazioni aggiuntive

Autore

Eliezer Di Martino

Copertina

Cartonata e plastificata

Formato

148×210 mm

Testo

Testo ebraico e traduzione italiana a fronte

COD: 146 Categorie: , Product ID: 77

Introduzione

הצעיר Eliezer Shai Di Martino Trieste, 19 adàr II 5776

L’“embrione” di questo siddùr è nato una notte di Tishà’ Beàv nel 5763 (agosto del 2003) nella città vecchia di Gerusalemme assieme a cari amici italiani che si trovavano a studiare in Israele in varie istituzioni ebraiche. Parlavamo di minhaghìm italiani e io suggerii che avremmo dovuto dare importanza al minhàg sefardita italiano. Essendo legato da un amore particolare per la tradizione culturale e liturgica sefardita in generale e sefardita occidentale in particolare, mi sembrava che le varie comunità storiche in Italia di rito spagnolo non avessero lo spazio che meritavano nel discorso ebraico italiano.

A quei tempi sognavo una serie di siddurìm e machazorìm che includessero i riti e le peculiarità di tutte le Comunità Italiane di rito spagnolo ancora attive in Italia, come Genova, Venezia, Livorno, Firenze, il tempio Spagnolo a Roma, Napoli e a Trieste nei giorni feriali. Nel mentre varie pubblicazioni sono state fatte da Morashà legate a Firenze che però oggi sono usate in altre comunità di rito spagnolo, quindi quando diventai Rabbino della Comunità di Trieste decisi di far resuscitare, per così dire, il siddùr sefardita dei giorni feriali usato in Comunità e creato ingeniosamente con ritagli del famoso siddùr Tefillàt Hachòdesh da rav Elia Enrico Richetti Shalitt”a verso la fine degli anni ´70. La storia del rito spagnolo a Trieste è legato a doppia nodo con l’esodo di profughi ebrei corfioti che scappavano da persecuzioni da parte della popolazione cristiana dell’isola Ionia esacerbatesi alla fine del diciannovesimo secolo.

Come si sa a Corfú la popolazione ebraica era prettamente romaniota o dell’Italia Meridionale, ma, così come nel resto della Grecia, con l’arrivo degli ebrei sefarditi dopo la cacciata dalla Spagna fu adottato il siddùr di rito sefardita, mantenendo però alcune peculiarità dei riti presenti precedentemente. Arrivati a Trieste, gli ebrei corfioti, molto più osservanti e legati alle loro usanze di quanto lo fosse la già presente comunità ashkenazita, introdussero il loro rito, prima in templi propri poi, con la costruzione della grande sinagoga, nel rito della Comunità. Con l’unione dei vari nuclei ebraici presenti in città nella grande sinagoga della Comunità, si decise anche di creare una sorta di rito ibrido dove nei giorni feriali e feste minori, frequentati solo dai più osservanti e quindi principalmente i corfioti, si usava il siddùr sefardita, mentre negli shabbatòt e mo’adìm, frequentati dalla comunità allargata, si usava il siddùr ashkenazita.

Come già fatto notare nell’introduzione al machazòr degli Shalòsh Regalìm da rav Umberto Piperno Shalitt”a, questo ovviamente ha portato influenze di un rito sull’altro e viceversa creando situazioni peculiari, come per esempio la lettura dell’Haftarà sefardita negli shabbatòt di rito ashkenazita. Per non parlare poi del fatto che essendo i chazanìm principalmente corfioti, introdussero tante, o forse addirittura la maggioranza, delle loro melodie anche quando si usava il rito ashkenazita.

Ecco qualche esempio dell’ influenza ashkenazita in questo caso sul rito sefardita praticato a Trieste: non parliamo semplicemente di meri minhaghìm popolari, come dire parte delle Zemiròt di Shachrìt a voce bassa, come usano gli ashkenaziti, o l’alzarsi in piedi durante il Kaddìsh e rispondere Berìkh Hu invece di Amèn, ma anche di dettagli halakhici puramente ashkenaziti adottati nel rito sefardita di Trieste come per esempio: Dire El Mèlekh Neemàn se si dice lo Shemà’ senza miniàn, come lo indica il Ram”à nelle sue aggiunte allo Shulchàn ’Arukh, ’Orach Chayìm, simàn 61, se’ìf 3. Fare Nefilàt Appàyim sul braccio destro quando si hanno i tefillìn come lo indica il Ram”à nelle sue aggiunte allo Shulchàn ’Arukh, ’Orach Chayìm, simàn 131, se’ìf 1. Non fare Nefilàt Appàyim in un luogo dove non ci sia un aròn con un Sèfer Torà, come lo indica il Ram”à nelle sue aggiunte allo Shulchàn ’Arukh, ’Orach Chayìm, simàn 131, se’ìf 2. Questi usi e dettagli halakhici non sono generalmente seguiti nel rito sefardita occidentale, che invece in linea di massima non segue per niente le indicazioni del Ram”à, e quindi dimostrano la naturale influenza che ha avuto l’uso ashkenazita, che si basa sulle direttive del Ram”a, originale della Comunità di Trieste sul rito sefardita introdotto con l’ arrivo dei corfioti.

A mio avviso oggi più che mai è importante non dimenticare il minhag sefardita in uso tra i corfioti, soprattutto davanti agli evidenti dati demografici comunitari. Ringrazio prima di tutto la prima mente dietro il siddùr spagnolo triestino che è rav Elia Enrico Richetti Shalitt”a, che a suo tempo rese il tradizionale e generale siddùr Tefillàt Hachòdesh adatto alle peculiarità di Trieste. Poi a Giorgio e Simonetta Valli, che Kadòsh Barùkh Hu li benedica, che in memoria della loro cara figlia Deborah z”l, hanno donato la grande parte dei costi necessari a pubblicare questo siddùr.

E non dimentico di ringraziare di cuore tutti coloro che a sèfer si sono impegnati a offrire il fatidico Matenàt yadò lesiddùr yemè chol! In fine ribbì Jacov Di Segni Shalitt”a che faceva parte di quella chaburà di giovani talmidè yeshivà italiani quella notte di Tishà Beàv del 5763, che ha rivisto tutto il siddùr è fatto le dovute correzioni al testo ebraico. Concludo con le parole del profeta ’Ovadià nella speranza della nostra pronta redenzione in questi giorni di terrore e violenza. … וְגָלֻת יְרוּשָׁלִַם, אֲשֶׁר בִּסְפָרַד־יִרְשׁוּ, אֵת עָרֵי הַנֶּגֶב. וְעָלוּ מוֹשִׁעִים בְּהַר צִיּוֹן, לִשְׁפֹּט אֶת־הַר עֵשָׂו; וְהָיְתָה לַיהוָה, הַמְּלוּכָה. «…e gli esuli di Gerusalemme abitanti di Sefarad possederanno le città del Nèghev. Liberatori saliranno sul monte di Tziòn per fare giustizia sui figli di Esàv, e all’Eterno apparterrà il regno»

הצעיר Eliezer Shai Di Martino Trieste, 19 adàr II 5776

La traduzione

La traduzione che affianca il testo ebraico ha origine dall’edizione del 1856 del Machazòr di rav Shemuèl Davìd Luzzatto (Shadàl), uno dei più grandi maestri dell’ebraismo italiano dell’era moderna. È su questa prestigiosa versione che Costanza Coen ha iniziato nel 2000 a elaborare un testo che tenesse conto sia delle brillanti intuizioni dell’autore, profondo conoscitore della lingua ebraica, sia della necessità di arrivare oggi a un italiano comprensibile a tutti. Questo lavoro è stato successivamente esteso ed elaborato da altri collaboratori fino all’attuale versione, utilizzando anche testi di allievi del Luzzatto e di maestri a noi più vicini, come l’enciclopedica edizione di rav M.E. Artom z.l.

Dove possibile, la traduzione originale è stata resa più aderente al senso letterale del testo ebraico, uniformando la corrispondenza tra i frequenti sinonimi e la loro trasposizione in italiano.

È chiaro che così operando potremmo aver trasgredito a molti criteri storici e filologici, e agli esperti vanno da subito le nostre scuse. Tuttavia, il progetto dei siddurìm di Morashà, in tutte le loro edizioni, ha avuto soprattutto l’intento di offrire al pubblico italiano strumenti accessibili per poter adempiere a un precetto divino, quello della tefillà, con un’immediatezza che non ponesse ostacoli alla comprensione, perlomeno superficiale, dei brani recitati in ebraico.

La redazione