I comandamenti e le feste ebraiche sono un’occasione per riflettere sulle modalità per raggiungere la libertà dell’uomo, una idea che sta alla base della tradizione ebraica: infatti senza libertà verrebbe meno il concetto di responsabilità che fa dell’uomo una creatura speciale. La marcia verso la libertà inizia con lo scrollarsi di dosso il giogo del dittatore (il Faraone di tutti tempi), continua accettando la legge e si consolida quando l’uomo ha raggiunto le condizioni economiche che lo liberano dai bisogni materiali. È questo il percorso che l’ebreo fa nel corso dell’anno passando da Pèsach (liberazione dall’Egitto) a Shavuòth (dono della Legge) e a Succòt (festa del raccolto): la libertà spirituale e culturale – raggiunta attraverso la Legge – può essere lo strumento per salvaguardare quella fisica, ma solo la libertà dal bisogno rappresenta una garanzia che l’uomo è veramente libero.
L’affermazione di questa idea ha però anche altre implicazioni: la storia dell’uomo sembra sottoposta a una regola quasi universale a cui non è possibile sfuggire: tutti i popoli hanno un loro percorso storico (Vico direbbe una loro giovinezza e una loro maturità) alla fine del quale sono destinati a scomparire. Pèsach in ebraico significa “salto”: infatti, Pèsach è il simbolo della libertà dalle catene della storia che dovrebbero circoscrivere nel tempo e nello spazio la storia di un popolo che, invece, non può essere sempre spiegata in base a un processo lineare e dialettico di tesi, antitesi e sintesi, ma come un progressivo avanzamento in cui sono possibili dei “salti”, in cui è possibile che “l’angelo della morte” passi oltre la Casa d’Israele, liberandola dai condizionamenti della storia.
Questa idea si concreta attraverso gli atti che si compiono a Pèsach e in particolare durante la cena pasquale che ha al centro tre parole chiave: Pèsach – l’agnello pasquale – che simboleggia la possibilità del “salto”, della miracolosa esistenza di un popolo e di una cultura antica; matzà, azzima, pane non lievitato, in contrapposizione a chamètz pane lievitato, che è il simbolo di una cultura che ha saputo progredire, pur mantenendo la propria integrità, senza assimilare acriticamente comportamenti e pensieri esterni; maròr, erba amara, simbolo della schiavitù, della perdita della libertà come uno dei momenti da non dimenticare per non ricadere negli stessi errori.
“In ogni generazione l’uomo deve vedere se stesso come se proprio lui fosse uscito dall’Egitto”: ogni generazione ha avuto il suo Egitto, ogni generazione ha mangiato la sua erba amara, ma ha trovato infine la forza per operare il “salto” e per riconquistare la propria “azzima”.
Questo processo di liberazione, anche se nella sua forma è precipuo al popolo ebraico, è una possibilità aperta a tutti, purchè ognuno sappia sradicare il proprio Egitto da dentro di sè.
Shalom Bahbout