La storia di una famiglia ebrea triestina negli anni di «prima della prima guerra». E’ anche un accattivante «spaccato» familiare e sociale, nel quale molte persone potranno ritrovare qualche spezzone della loro storia nella loro città. Prima parte.
Lucio Pardo
Trieste, 1910. Da più di un anno, ormai, nelle vetrine del fotografo Cividini, in via San Nicolò 36, erano esposte alcune grandi fotografie. Sopra, un cartello intitolava: «Le belle famiglie triestine». Usavano molto, allora, i ritratti di gruppi familiari; e l’accordo professionista aveva pattuito, in alcuni casi, in cambio del compenso per la sua opera, la concessione di esporre i ritratti per il tempo che avrebbe ritenuto.
Fra le altre era esposta anche la foto della famiglia Wohl, con la piccola Iris ritratta tra le braccia del padre, seduto al centro, e, intorno, la mamma, il fratello, le tre sorelle.
Per lei, quel punto della via San Nicolò, all’angolo con la via Sant’Antonio, era un percorso quasi obbligato per tornare a casa sua, in via Nuova, di fronte al Credito Viennese, e lei ci passava davanti spesso e volentieri. La strada stessa era accogliente e piena di vita: al numero 30 c’era la libreria antiquaria di Giuseppe Mailender (che fu poi di Umberto Saba), e il fabbricato, allora in costruzione, della Riunione Adriatica di Sicurtà, in via Sant’Antonio, faceva da quinta a tutta la strada.
Una sera del novembre 1910, quando già i lampioni a gas gettavano il loro alone di luce, quel tratto di strada le parve ancora più caldo e accogliente. Nell’ultimo palazzo d’angolo, da tutte le vetrate del primo piano, proprio sopra Cividini, proveniva una vivida e bianca luce che i tanti specchi degli ambienti interni moltiplicavano all’infinito.
In ogni vetrata, come grandi bambole di un fiabesco gioco, si vedevano dei manichini che indossavano eleganti vestiti. In quel palazzo stile Liberty costruito pochi anni prima, l’architetto Depaoli aveva creato, al primo piano, una trasparenza pressoché completa, con le grandi vetrate scandite da esiti pilastrini incorniciate tutt’attorno da ornati di pietra lavorata.
Prima di allora, Iris non aveva mai notato, né sentito parlare della Sartoria di Ortensia Pardo Curiel, i passanti le indicarono come la prima di Trieste, e neanche in seguito ebbe modo di parlarne più: finché, tanti anni dopo, non sposò Ferruccio, il figlio di Ortensia.
«Appena uscito dal malor mortale»
C’è ancora, fra le vecchie carte di famiglia, un biglietto che il piccolo Ferruccio, appena guarito da un’influenza, scrisse alla madre in sartoria. Vi si legge: «Appena uscito dal mio malor mortale, mi volessi una putela, o magari anche due…», e si era anche firmato: Ferruccio. Le «putele» erano giovani apprendiste o lavoranti che, talvolta, quando c’era un po’ meno lavoro, facevano compagnia al figlio della signora.
La madre gli voleva un bene dell’anima; lei, che era stata la prima di otto fratelli e, verosimilmente, aveva anche aiutato la mamma, Grazia Finzi, nell’accudire a una così grossa famiglia, quel figlio l’aveva voluto disperatamente. Dopo la prima gravidanza, che aveva dovuto interrompere il dottore l’aveva ammonita: «Signora, no la poderà più aver fioi…». Invece ne aveva avuto uno, che in casa chiamava «Nina» lei e «Pepi» suo marito.
Un venerdì sera, «Pepi» (cioè Benedetto Pardo) aveva portato a casa un vassoio di paste e mentre il piccolo Ferruccio le stava finendo, aveva detto al figlio: «va’ a chiedere alla mamma se ne vuole anche lei…» Lui era corso fuori dalla stanza, in fondo al corridoio, e da li, senza interpellare la madre, aveva gridato: «La Nina no vol, la Nina no vol…!».
…
Le «putèle» entrate in Sartoria cominciavano come apprendiste cui venivano affidati i lavori meno impegnativi, come consegne, rifiniture (punti e sottopunti), poi via via imbastiture, cuciture, ecc. Il taglio delle stoffe, invece, lo eseguivano direttamente la titolare e la direttrice dell’atelier, Giovanna, poi sposata al gioielliere Zurch. Solo alla signora Ortensia competevano la scelta delle collezioni, la creazione di modelli, la messa in prova degli abiti alle clienti.
Erano tante le «putèle» in Sartoria, e ai primi gradini della loro esperienza non potevano essere sufficientemente indipendenti. Finito il lavoro, per farsi assegnare il successivo si presentavano così: «Signora, son de bando…». Forse, chi si trovava meglio nella Sartoria era il piccolo Ferruccio, beniamino delle «putèle» che all’occasione, nelle belle giornate, lo portavano anche fuori a spasso. Era assai benvoluto anche dai tanti giovani zii e dal nonno Samuele che aveva tanto piacere di parlare con il suo primo, e per il momento unico, nipotino, invariabilmente concludendo: «Ti ti xe il mio unico amico…».
Con la madre, poi, andava fuori per grandi occasioni, in carrozza, che era veicolo di prestigio cui era riservata la strada principale della città, il «Corso delle Carrozze» per l’appunto. Successe così, a esempio, quando lei ebbe l’incarico (che costituì un’assai notevole qualificazione professionale)di preparare il fornitissimo corredo da sposa di una ragazza della famiglia Brunner, allora una delle più ricche delle città.
Scesi dalla carrozza, prima di entrare per le prove, gli diceva: «Ti pol caminar de qua a là», e lui obbediente, passeggiava entro il perimetro consentito. In Sartoria, Ferruccio aveva anche il permesso di giocare con «le pupe», cioè con i manichini sui quali si provavano i vestiti. Una volta ne mise uno nel bagno, in modo che cadesse a chi apriva la porta, legata con lo spago al manichino.
Ma nessuno se ne aveva a male per gli scherzi di un bambino che aveva nel padre, anch’egli assai sovente in Sartoria come amministratore della ditta, un continuo esempio di serenità e buonumore.
«Sior» Benedetto e il suo stemma
Benedetto, o come lo chiamavano, il «sior Beneèto», proveniva da una famiglia di elevate condizioni (si racconta che gli antenati, al momento di lasciare per sempre la Spagna che scacciava gli ebrei, nel 1500, avessero scagliato al suolo, infrangendolo, lo stemma nobiliare; comunque, la corona a sette punte continuava a essere scolpita sulle tombe dei discendenti). A un certo punto, tuttavia, ora subentrato uno stato di necessità a causa del quale Benedetto aveva dovuto lasciare gli amati studi classici e passare a quelli commerciali.
Gli era rimasto il gusto per l’eloquio preciso l’orbito, e un grandissimo amore per la storia. Anche la famiglia Curiel, del resto, vantava una discendenza ispano-portoghese. Nel 1600 un certo Jacopo Curiel frequentava la Corte di Giuseppe IV del Portogallo sotto il nome di Nunzi da Costa ed era stato nominati «Hidalgo da Casa Real» (Nobile della Casa reale) con il compito di reperire fondi ad Amburgo per quel re in difficoltà.
A forza di puntualizzare, con l’ausilio del dizionario dei sinonimi, Benedetto spazientiva talvolta la consorte, che commentava: «Lui, e le sue parolète…!!». Ma se poi c’era qualcosa che non le andava nell’amministrazione, puntualizzava lei, ben chiaramente e più direttamente, in: «Lui ga dito… lui ga fato…»; tanto che, più tardi, appena sentiva dire: «Lui…», Benedetto interrompeva subito, precisando: «Lui, no ga dito gnente!!».
Forse non sempre ci riusciva; come quando, una volta, in occasione di un inventario, passando davanti a una grossa pezza di stoffa comprata a Vienna che da tempo ingombrava l’atelier, si permise di dire: «l ne gà svejà a l’alba per ‘sta stofa… e ancora la xe qua…!». Non aveva neanche finito di parlare, e già Ortensia aveva scaraventato quella stoffa giù dalla finestra del cortile, gridando: «Adesso la xe venduda!».
Sempre rapida nelle decisioni, Ortensia pretendeva eguale rapidità anche da chi le stava intorno, non sopportava esposizioni troppo lunghe neanche da suo figlio, del quale concludeva il discorso con il commento: «Per fortuna che no ti farà el professòr…!!». La concisione la imponeva già al telefono mitragliando: «Dilla O. Pardo Curiel…» nel ricevitore.
Tante erano le telefonate in arrivo. La sartoria, prima della guerra, serviva anche le attrici che recitavano al Politeama Rossetti e alla Filodrammatica e altra gente importante, anche di fuori Trieste.
Ortensia seguiva con molta attenzione e da vicino tutte possibili esposizioni di toilettes; talvolta tanto da vicino che, al varo di una nave, per vedere il tipo di ricamo di un vestito, si era troppo avvicinata all’imperial-regia Principessa d’Austria, madrina del vero; e, con delicatezza, il cerimoniere aveva chiesto a Benedetto: «S. V. P. l’aites dèplacer madame de colè», cioè fra gli invitati e non fra le autorità.
Almeno una volta all’anno la signora andava a Parigi per seguire le collezioni presentate: e allora le sue direttrice Giovanna, o le lavoranti comunicavano con orgoglio alle clienti: «No, la signora no xe qua, la xe a Parigi…!»
(1- continua)
Da Jarchon – Comunità Ebraica di Trieste