Prosegue la causa di beatificazione di Pio IX, il pontefice del caso Mortara
Daniele Scalise
Sono decenni che la Chiesa cattolica, silenziosamente ma con grande impegno, ci sta lavorando. Il processo di beatificazione di Pio IX, al secolo Gian Maria Mastai Ferretti, sembra giunto ad un approdo e nulla toglie che quel Papa, antisemita e violento, autore tra l’altro di un tremendo delitto contro l’umanità, verrà presto onorato sugli altari come Santo.
Nato a Senigallia alla fine del ‘700 da una famiglia numerosa, Gian Maria era tutto meno che un ragazzo di sani princìpi: donnaiolo e giocatore, all’inizio non mostrò alcuna ispirazione religiosa, preferendo mettersi in lista per entrare nel corpo delle Guardie Nobili. Visti i ritardi e l’esito incerto, il Mastai Ferretti – proveniente dal ceto aristocratico provinciale e agguerrito – su incoraggiamento di Pio VII decise di prendere i voti. Una cosa gli va riconosciuta: appena indossato l’abito talare, Gian Maria abbandonò del tutto ogni promiscuità sessuale. Ciò che gli premeva al di sopra di ogni cosa era l’esercizio assoluto e indiscusso del potere. Soddisfò abbondantemente il suo appetito senza farsi frenare da quel “mal caduco” (così si preferiva chiamare l’epilessia), che pure lo aveva perseguitato fin da giovanissimo. Più tardi diffuse la fola di esserne guarito grazie ad un miracolo della Madonna: bugia smentita dai fatti, se è vero che – come testimoniano i suoi contemporanei – anche da vecchio ebbe diverse e pesanti crisi che allarmarono il Quirinale, allora sede papale.
La sua ascesa ai massimi vertici della Curia fu rapidissima. Lo agevolò molto l’essere marchigiano, una delle zone più fedeli dello Stato papalino. A soli trentasei anni divenne arcivescovo di Spoleto, poi di Imola e infine a quarantotto anni indossò le vesti porpora del cardinalato. Durante tutto questo periodo – proprio nel cuore delle guerre di Indipendenza che fecero dell’Italia una nazione unita – mostrò una cospicua abilità diplomatica riuscendo a piacere tanto ai liberali che ai conservatori. Nel 1846, durante il conclave che doveva eleggere il nuovo Papa, uscì del tutto inaspettatamente il suo nome. Quella nomina, in effetti, era il risultato imprevisto di un compromesso dopo la feroce quanto inutile battaglia condotta da due avversari che rappresentavano il partito liberale e quello ultramontano: Pasquale Gizzi e Luigi Lambruschini. Francia e Austria, sia pure per motivi opposti, vedendo sconfitta la fazione opposta, salutarono con gioia l’elezione del Mastai Ferretti e tutti, soprattutto nella penisola, si illusero che quello sarebbe stato il Papa della grande svolta, colui che avrebbe accompagnato la realizzazione del sogno unitario abdicando al potere temporale della Chiesa. Non ci volle molto, però, perché i liberali si disingannassero. Finché gli tornò comodo, Pio IX lasciò crescere il mito del “papa liberale”: nominò a segretario di Stato il cardinale Gizzi, alleggerì le norme censorie sulla stampa, istituì il corpo della Guardia Civica e rinunciò ai mercenari.
Con i moti del ’48, però, cambiò volto. A chi chiedeva una Costituzione (allora lo Stato papalino comprendeva, grosso modo, il Lazio, le Marche, l’Umbria e le Romagne) oppose un netto rifiuto e mostrò i denti. Scomunicò l’abate Rosmini che aveva prefigurato la partecipazione dei cattolici alla vita politica e, al momento della costituzione della Repubblica Romana, fuggì a Gaeta scomunicando gli insorti. Tornato nella Città eterna affiancato dal nuovo segretario di Stato, il cardinale Antonelli (altro esempio di spregiudicatezza), Pio IX inaugurò la politica del bastone e annunciò il dogma dell’Immacolata Concezione secondo il quale è indiscutibile che la madre del Cristo sia nata senza peccato originale. Nei confronti della comunità ebraica romana esercitò astuzia, arroganza e crudeltà. Come quando scoppiò l’ affaire Mortara che lo vide al centro di una fortissima polemica e di un’immane – soprattutto per quei tempi – protesta internazionale.
Il piccolo Edgardo Mortara era nato a Bologna nel 1851 da una famiglia ebrea. Il padre Momolo era un modesto negoziante di passamanerie, mentre la madre Marianna curava personalmente l’educazione degli otto figlioli. Il 23 giugno 1858 le guardie papaline (Bologna era ancora sotto la giurisdizione della Chiesa) entrarono di prepotenza in casa Mortara e, dopo ore di tormento e costernazione, portarono via il piccolo Edgardo. Dissero di eseguire un ordine che veniva dal Papa in persona. Sostenevano che anni prima il bambino fosse stato battezzato di nascosto da una serva cattolica, e che quel battesimo ne avesse fatto un soldato di Cristo, in barba alla sua famiglia. Edgardo venne portato nottetempo a Roma, chiuso nella Casa dei Catecumeni (dove venivano ‘custoditi’ altri fanciulli ebrei battezzati con la forza o con l’inganno), sottratto alla vista della famiglia e cresciuto come cristiano. Se a poco valse la disperazione della famiglia (” Ma che vogliono? “, replicò infastidito il Papa alle suppliche dei disperatissimi genitori, ” in fin dei conti hanno altri sette figli, mentre io non ho che lui… “), ancora meno lo persuasero le proteste internazionali espresse, tra gli altri, da Napoleone III e da Francesco Giuseppe. ” No e no! Edgardo è mio “, continuò a ripetere Pio IX senza mai mostrare un attimo di cedimento. Quel gesto di prepotente crudeltà serviva a due scopi: dimostrare la forza terrena di una Chiesa che stava perdendo il suo potere temporale, ed esercitare un’ennesima prepotenza nei confronti degli odiatissimi ebrei, resi ‘liberi’ dalle mura del ghetto ma costantemente minacciati di esservi sepolti di nuovo. Durante un incontro con i responsabili della Comunità romana che tentarono di perorare la causa della famiglia Mortara che chiedeva la restituzione del bambino, il Papa insultò e minacciò con la consueta (ma non per questo meno temibile) protervia.
La polemica, sia in campo cattolico che altrove, divampò in modo inconsueto. Non ci fu nulla da fare. Edgardo rimase ostaggio della Chiesa cattolica tutta la vita: identificatosi con i suoi rapitori, diventò sacerdote ma continuò a pagare cara quella terribile disavventura infantile; fino alla morte (che avvenne nel 1940, in Belgio, tre mesi prima che i nazisti invadessero il paese) fu devastato da un tormento indicibile, perseguitato da incubi e fantasmi notturni, dissanguato da lacerazioni che non seppe mai nominare, assordato da urla segrete che gli funestarono i giorni. Mai il Papa si pentì di quel gesto, anzi più e più volte se ne vantò e ancora oggi tra i cattolici c’è chi, come Vittorio Messori, ne difende le ragioni sostenendo che Pio IX fece benissimo a fare quel che fece e, indifferente alla blasfemia, rincara la dose asserendo che la vicenda di Edgardo altro non è che una ” storia singolare (…) in cui sembra di vedere all’opera un Dio che ‘sa scrivere dritto anche su righe storte ‘ “. Il Vaticano può certamente incorniciare quel losco figuro che fu Pio IX, ma questo non cancellerà di certo l’orrore del suo pontificato perché, come sosteneva Agostino – considerato dai cattolici stessi un padre della Chiesa – ” nemmeno Dio può cambiare il passato “.
Dicembre 1999 – Pubblicato su Shalom