Un lucido articolo del 2002 dello scrittore scomparso che analizza la sua identità ebraica “per difetto” e ci spiega l’integralismo
Guido Lopez
Nell’antologia curata da Liliana Weinberg Il sale della terra, edita dalla Ibiskos editrice, il tema dell’identità ebraica è affrontato da una trentina di personaggi (Claudio Magris, Amos Oz, Edith Bruck, Amos Luzzatto, Rav Elia Richetti … ) attraverso una domanda tanto impegnativa da poter essere vista come irrisolvibile: “Può l’ebraismo oggi dare ancora qualcosa al mondo?”
Una via d’uscita è rispondere con una sfilata di altri punti interrogativi. Primo: perché me lo chiedi? vuoi sapere se vale la pena di insistere a essere ebrei? più largamente, allora, se vale la pena di far figlioli? è un istinto che ti guida? è una fede che tu hai – se ce l’hai – nel comandamento di Dio “crescete e moltiplicatevi”? oppure è un desiderio, più o meno conscio, di non sparire definitivamente dalla faccia della terra? o un insieme di tutto questo?
Per quel che mi riguarda, la sola cosa di cui mi sento sicuro, oltre all’esistere, è di appartenere all’universo ebraico. Tutti i miei antenati da generazioni e generazioni sono nati ebrei. Nessuno per scelta propria. Anzi, nelle famiglie di mio padre e di mia madre livornesi di chiara origine sefardita – erano rimasti solo frammenti di ebraismo praticato. E tuttavia … Restavano i punti fondamentali: le feste grandi in Sinagoga, il bar mitzvah (detto ‘mignàm’), le azzime per il Pesach, niente salumi in casa … ma anche la nonna o bisnonna che non cuciva di sabato, il nonno che di sabato entrava in teatro a credito (Livorno, fine Ottocento) … I matrimoni furono tutti ebraici per altre due generazioni, salvo il caso di un parente che sul finire dell’Ottocento scappò in Francia per sposare una bella corallaia gnarelà (doppio scandalo).
Quanto a me, nato nel 1924, a Milano, ho fatto anche parte delle voci bianche al Tempio, ma mio padre – presidente del Gruppo sionistico dal tempo della ‘Dichiarazione Balfour’ (1915-16) non ce lo ricordo che come testimone di un paio di matrimoni. Mia madre aveva pubblicato nel primi numeri usciti della Rassegna mensile di Israel (1926) un romanzo intitolatoIl Signore è nostro Dio (trattava di una sofferta conversione al credo cattolico). Insomma, non ho avuto bisogno delle leggi antisemite (ero vicino ai 14 anni compiuti) per riconoscermi ebreo: il mio senso di appartenenza era tranquillamente totale. Ma appartenenza a che cosa? A tutto quello che mi aveva sempre distinto dalla quasi totalità dei miei compagni di scuola: i gesti liturgici ma anche l’estraneità al mondo permeato dal martirio e – sentivo dire successiva Resurrezione di Gesù-Messia. Ancora bambino, in villeggiatura a Varallo Sesia, fui portato a vedere le stazioni della Via Crucis con gli affreschi di Gaudenzio Ferraris e – ancora più impressionanti – le scene in tre dimensioni del Calvario, con quei personaggi malvagi contrassegnati dalla dicitura ‘Giudei’ dal naso adunco. Ne fui impressionatissimo, Mamma cercò di spiegarmi la situazione storico-ideologica in semplici concetti. Mi disse, più o meno, che era un brav’uomo e un buon ebreo che però si proclamava figlio di Dio non solo come tutti noi, ma alla lettera.
A proposito: l’entità che nella lingua italiana è espressa dal suono e dalla scrittura ‘Dio’ (così come l’ho scritta) è un Credo a cui tutti possono accedere. Ma ce ne corre se andiamo a specificarlo. Vi ha fatto riferimento persino quel giovane diyeshivah che ha sparato su Rabin attingendo come me alla Torà e come i kamikaze musulmani al loro Libro per votarsi a un doppio delitto: la morte altrui, indiscriminata, e la propria, determinatissima. Fortunatamente, di solito si invoca Iddio impetrando soccorso, o per superare dolori estremi, o per andare incontro con coraggio alla morte e contare su un aldilà dove gli ultimi potrebbero essere i primi, o su altro compenso extraterreno. Perciò mi astengo dallo scrivere il tetragramma originario: penso che il comandamento di non pronunciarlo ‘invano’ (ovvero sbadatamente, con leggerezza o spudoratezza, o addirittura per offesa) sia un pilastro dell’etica ebraica, tramandato da generazione a generazione. Si lega col dettato principe del Dio unico in mezzo a un mondo politeista e a una delle enunciazioni più alte dei codici rituali: “Benedetto tu o Signore re del mondo che ci hai portati sino a questo giorno”. Tanti mai secoli dopo, la ricerca di questa certezza d’esistere verrà razionalizzata con il Cogito ergo sum di Cartesio.
Ma l’integralismo religioso, mai convinto di fare abbastanza, si è inventato un’ulteriore barriera con l’adozione del trattino nella ‘traduzione’ del tetragramma. Qualche tempo fa, in un numero della rivista Ha Keillah l’autorevole voce di Gavriel Levi, dopo averci avvertito che l’italiano Dio – dal latino Deus – non è che una derivazione dal re degli dèi Zeus (e dunque un distacco ma anche una reminescenza storica della nostra convivenza con gli dèi classici), si inoltra in due colonne di ragionamenti in cui, fra l’altro, parla di “incompletezza del Nome … applicabile e da applicarsi a qualunque scrittura e a qualunque preghiera, punto di unificazione tra le diverse culture umane”. Bravo, bravissimo. Mi inchino. Ma sostanzialmente uno sberleffo alla ragione (dono di Dio, o no?) che impone di distinguere il significato dal significante. Se nella lingua inglese fossero invertiti God e dog, sarebbe dog a volere la maiuscola. E se D-o esprime l’Innominabile, anche D-o non basterebbe; e neppure D- – o; e così all’infinito. Il giovane nerovestito, cappello nero a larga falda, che alla vigilia del Pesach bussa alla nostra porta con la matzah super-kasher (cioè l’azzima supervisionata della sua congregazione) è gentile e di obbedienza cristallina, ma anche lui, in senso traslato, allinea lineette dietro lineette.
http://www.keshet.it/rivista/mag-giu-02/pag12.htm
Chi era Guido Lopez