Chiude in una media comunità ebraica l’unico punto vendita di prodotti alimentari kasher, perché il nuovo Consiglio non tenta un esperimento?
Sandro Servi
Abbiamo letto con piacere sulla stampa ebraica in queste ultime settimane della creazione del primo ristorante kasher in una media Comunità ebraica italiana: ai promotori e ai gestori dell’iniziativa facciamo i più fervidi auguri di successo. Contemporaneamente sulla stampa ebraica non abbiamo letto, ma abbiamo comunque saputo, che ha chiuso l’unico punto vendita di prodotti alimentari kasher di un’altra media comunità ebraica italiana, di cui, per i consueti motivi di opportunità (evitare le polemiche), preferisco tacere il nome. Per i pochi che cercano di mangiare kasher in quella comunità si tratta di un colpo durissimo, come chiunque potrà capire.
Uno dei motivi della scarsità della clientela era che i prodotti erano “troppo cari”. Della chiusura si danno dunque due spiegazioni: 1) i gestori hanno talmente lucrato su quella attività commerciale che, con i loro esosi ricarichi, in breve tempo accumulati, hanno acquistato una villa in un’isola dei Caraibi e ora se ne stanno tutte e tre spaparazzati a prendere il sole e sorseggiare aperitivi da mane a sera; 2) i gestori non ce la facevano proprio a tirare avanti perché le famiglie che mangiano kasher in comunità si contano sulle dita di una o due mani, e perché alcuni di questi hanno preferito, nel tempo, rifornirsi altrove, dando così la zappa sui piedi a se stessi e ai loro pochi “amici kasher”. Lascio ai lettori di scegliere l’interpretazione preferita.
Poiché in quella comunità, per l’appunto, si è alla vigilia delle elezioni, vorrei avanzare un suggerimento. Innanzitutto onore al merito dei volonterosi candidati consiglieri. La situazione di quella comunità non pare facile, da nessun punto di vista. Le finanze vanno a rotoli (ogni anno si accumulano centinaia di miglia di euro di nuovi debiti, solo parzialmente coperti dalla lungimirante dismissione di un immobile – ma, nel frattempo, gli immobili sono quasi finiti –), la frequentazione del pubblico è molto rarefatta, la compagine comunitaria è, a dir poco, scompaginata, la disaffezione ai massimi storici. Se questa analisi non vi convince tenete in considerazione che un primo appello elettorale è stato annullato (e le elezioni rinviate) perché non c’erano neppure abbastanza candidati per coprire tutti i posti di consigliere: è il primo caso nella storia delle comunità ebraiche in Italia?
Ora che i candidati sono stati trovati (pare cercandoli tra quelli che ne sapevano meno possibile delle passate vicende comunitarie) sarebbe a mio parere opportuno che gli eletti si riproponessero di compiere un esperimento: perché non provare a comportarsi, nel periodo della loro carica, come un ebreo dovrebbe comportarsi? Mi spiego: magari mangiando kasher (così potranno rendersi conto della necessità di un negozio kasher in città); frequentando settimanalmente il beth ha-kenesseth (così potranno misurare le temperature polari che vi regnano in inverno); studiando Torà (così potranno rendersi conto di quanto la comunità non offra proposte adeguate – ho scritto “adeguate”, perché proposte (inadeguate) ce ne sono fin troppe –); osservando lo Shabbàth; avendo un marito/moglie ebreo/a, e anche dei figli ebrei, e perfino dei nipoti ebrei; imparando l’ebraico; viaggiando, talvolta, in Eretz Israel (così da raccogliere informazioni di prima mano, e non solo dalla stampa nazionale, eviterando, magari, uscite anti-sioniste); ecc. ecc. Lo so, lo so, ci sono anche altri modi di essere ebrei, e come non saperlo! Basta conoscere un po’ il pubblico ebraico locale! Ma, non è forse proprio per questo che la comunità è arrivata a questo punto?
L’esperimento che caldamente propongo poggia su una tesi: quando si dice che le comunità devono “soddisfare le esigenze materiali e morali dei propri iscritti” non si intendono “tutte” le esigenze, ma le esigenze, per l’appunto, “ebraiche”. Mi spiego più chiaramente: se il pubblico ebraico locale ha l’esigenza di mangiare la porchetta, non è la comunità che deve provvedere, ma se qualcuno ha l’esigenza di mangiare kasher, allora sì che la comunità deve provvedere, anche se quel qualcuno è una piccola, statisticamente trascurabile, minoranza. Ho l’impressione che questa mia tesi non sia troppo popolare, in loco. Eppure l’esperimento potrebbe dare dei frutti!