Prima di Hannah Arendt denunciò Hitler come “banale Medusa” e intuì che trasgredire il rispetto per gli altri non è solo crudele, ma volgare
Claudio Magris
«Io l’ho riconosciuto, io lo smaschero… io perisco». Questa apocalittica e sprezzante denuncia attacca frontalmente l’Anticristo, l’avvento del Male quale signore del mondo che assume, come è detto nelle Scritture, le sembianze del Cristo, del bene, della virtù, del progresso. A strappargli la maschera è uno dei grandi scrittori del Novecento, l’austriaco Joseph Roth, che in quegli anni sta combattendo la sua donchisciottesca battaglia contro il nazismo e abbandonandosi a una regale e cenciosa autodistruzione con l’alcol, il pernod che gli toglie anni ma gli regala mesi.
L’Anticristo, uscito nel 1934 (ora ripubblicato da Editori Riuniti), è un guanto gettato in faccia al mondo intero e soprattutto alla modernità, un Giudizio universale che coinvolge e travolge l’autore stesso. Un libro platealmente fallito nel suo pathos che condanna in blocco soprattutto nazismo e fascismo, ma anche il comunismo, il socialismo, il capitalismo, la democrazia, la scienza e la tecnica, l’ebraismo che tradisce se stesso, la letteratura sperimentale e d’avanguardia, il cinema, Ade moderno che riduce gli uomini a ombre.
Ma ci sono naufragi letterari che irradiano una violenta forza rivelatrice, ben più di tante equilibrate navigazioni politicamente corrette e fiduciose nel progresso. Insensati se presi alla lettera, questi furiosi naufragi fanno capire, con la loro ottica stravolta, alcune verità del tempo che le persone e gli scrittori ragionevoli non vogliono vedere, perché sconvolgerebbero la loro fede nella possibilità di capire il mondo e dargli un senso.
Quando pubblica L’Anticristo, Roth, esule dalla Mitteleuropa in mano nazista, vive a Parigi; ha già scritto alcuni capolavori (Fuga senza fine, La marcia di Radetzky) e ne scriverà, nei pochi devastati anni che gli restano, altri (La milleduesima notte, La leggenda del santo bevitore) di una conturbante profondità incredibilmente lieve. Ma si dedica soprattutto a qualcosa di ben più importante, anche ai suoi occhi, della letteratura ossia al «buon combattimento » contro il trionfante Leviatano nazista.
Ben prima di Hannah Arendt, egli denuncia la squallida banalità del male. Definisce Hitler «una banale Medusa» e intuisce la gregaria mediocrità del male. Trasgredire il rispetto e l’amore per gli altri non è solo crudele, ma anche stupido e volgare, come le prevaricazioni scurrili dei goliardi presto avviati a diventare bravi borghesi o come gettare immondizie dal finestrino del treno.
La buona battaglia di Roth è pervasa dal sentimento sacro e fraterno dell’uguaglianza di dignità e di diritti di tutti gli uomini, contro ogni razzismo, esplicitamente condannato nell’Anticristo, e contro ogni aristocrazia – di sangue, di denaro e anche di cultura. È feroce contro il culto del genio artistico cui si dovrebbero accordare speciali riguardi e privilegi.
Difendendo, ad esempio, uno sconosciuto scrittore tedesco antinazista, David Luschnat, respinto dalla Svizzera dove aveva cercato rifugio, scrive che quest’uomo, privo di mezzi e di fama, aveva fatto la stessa cosa che aveva fatto Thomas Mann, avversare il nazismo e abbandonare la Germania, e che sull’eventuale differenza del loro valore letterario non era la polizia svizzera a doversi pronunciare.
Nei suoi ultimi anni, sempre più alcolizzato e più trasandato di un clochard, Roth ha difeso i più ignoti e poveri emigrati politici in Francia, perorandone la causa presso la polizia parigina con una carità mista a sprezzante arroganza verso i potenti e le autorità.
Bevitore e randagio, Roth ha avuto un senso profondo della sacralità di ogni vita e della fraternità umana, quella che non fa distinzione tra i fratelli più rispettabili e quelli più scapestrati. Se la sua condanna in blocco della modernità quale secolarizzazione è ingiusta e retoricamente predicatoria in tanti giudizi che misconoscono i reali progressi dell’uomo avvenuti nell’epoca moderna, la sua denuncia della perdita del sacro ha una sua inesorabile verità, oggi più che mai bruciante.
Sacro, per lui, non implica alcuna sublimità metafisica, alcuna ritualità, alcun ineffabile mistero. Il sacro è la semplicità della vita, del vino e del pane che egli- nella sua azzardata, talora mistificatrice ma geniale simbiosi fra ebraismo e cattolicesimo – trova a pari titolo in una piccola amata chiesa e in una piccola e ancor più amata osteria. Sacro è anche l’eros, mai pasticciato in ideologia della trasgressione, ma pervaso di anarchica passione e di rispetto per ogni corpo e ogni gesto umano. Non a caso al funerale di Roth c’erano tre vedove senza che ci fosse stato alcun divorzio, mentre la moglie regolarmente sposata, affetta da malattia mentale e ricoverata in un ospedale psichiatrico, sarebbe stata poco dopo assassinata dall’eutanasia nazista praticata sui disabili in nome di una delle tante versioni della «qualità della vita» , non è sempre ben chiaro di chi.
Ingiusto verso tante conquiste del progresso, Roth non ama le rivoluzioni ma sa bene – come scrive nell’Anticristo – che a scatenarle non sono gli oppressi ma gli ignobili oppressori; ha una forte propensione per la cattolicità ovvero universalità, ma non per il Santo Padre che accoglie l’Anticristo venuto ad offrirgli un Concordato né per il borghese- incarnazione per eccellenza, ai suoi occhi, dell’Anticristo – che dissimula la puzza di zolfo col profumo dell’incenso o con altri deodoranti morali.
Ingenuo nei suoi vagheggiamenti di impossibili alleanze tradizionaliste contro i fascismi, è geniale nell’individuare nel radicalismo- che rompe ogni vincolo – l’origine dei fascismi e della volontà di potenza; è pateticamente sprovveduto nei giudizi su liberalismo e capitalismo, ma acutissimo nel cogliere- allora!- la perversione di un capitalismo trasformato da sistema economico a visione del mondo; è spietato nell’avvertire, fra i primi, i cancri del comunismo, ma raccoglie il peso delle sofferenze da cui sono nate le domande poste dal comunismo e sferza come pochi le repressioni dei movimenti operai. Se sul cinema scrive delle vere sciocchezze, le staffilate sulla smania di farsi fotografare sorridenti sono l’epifania di un’umanità che ride ebete e soddisfatta sul cratere di un vulcano pronto a ridurla come Pompei.
Pur magniloquente e talora fastidiosamente oracolare, L’Anticristo aiuta a capire che il progresso dev’essere perseguito in tutti i campi possibili per il bene degli uomini, ma non può divenire una presuntuosa ideologia. È il disprezzo che riscatta l’enfasi di questo libro sfasato, ma dalla scrittura secca ed essenziale che ricorda il grande narratore e che è resa splendidamente dalla nuova versione di Cristina Guarnieri.
Quest’uomo esperto di demolizioni- a cominciare da quelle dei miseri alberghi che erano la dimora della sua esistenza errabonda – era anche un blagueur, un beffardo aedo di osteria che non prendeva del tutto sul serio neanche se stesso e le proprie geremiadi contro l’Anticristo, osserva Flavia Arzeni nell’eccellente introduzione, degna dei suoi originali studi sui rapporti fra letteratura tedesca e culture orientali.
La recita beffarda della sua vita caratterizzò anche il suo funerale, con la corona imperialregia giallonera deposta dagli esuli monarchici e i garofani scarlatti deposti dalla «Guardia Rossa» in onore del compagno Joseph Roth. Un funerale furtivo e grottesco che sarebbe piaciuto al bevitore vagabondo che si considerava l’unico autentico fedele dell’Imperatore, e dunque della tradizione, negando così ogni organizzazione politica legittimista e conservatrice. Questa irriverente buffoneria è il risvolto del senso del sacro.
L’uomo realmente religioso, scrive Alan Watts, è per eccellenza l’uomo dello sberleffo, dell’ironia, del riso, perché – sapendo che l’Assoluto è Uno, come dice la professione di fede ebraica – ride di tutti i piccoli idoli che goffamente e violentemente pretendono di essere dio. Non c’è nulla di così religioso quanto il riso, come insegnano le storielle ebraiche o quelle cattoliche di Chesterton. «Qualcosa per cominciare, Monsieur?», chiese una volta in un bistrot parigino un cameriere a quel cliente assiduo e spesso assai poco pulito. «No» , rispose Joseph Roth, «io non comincio, io sono finito».
Corriere della Sera, 17.12.2010
EDITORI RIUNITI: SCHEDA EDITORIALE
L’Anticristo è un’opera scomoda, difficilmente classificabile, situata al crocevia di diversi generi letterari: dal romanzo alla saggistica, dalla scrittura diaristica a quella teatrale, dalla denuncia apocalittica e profetica al reportage giornalistico di viaggio. Un libro denso di storia, eppure fuori dal tempo, scritto in una prosa incalzante e vertiginosa, che narra le derive di cui è capace l’uomo confrontato alle tentazioni del potere.
Le figure dell’Anticristo che Roth smaschera assumono volti allegorici indimenticabili (il Patriota, l’Antisemita, il Conducente delle scope, eccetera). Su tutti domina il «Signore delle mille lingue», magnate proprietario dei giornali del mondo.
Al suo servizio il reporter J. R. attraversa i diversi paesi d’Europa visitando i tanti luoghi in cui l’Anticristo imperversa: la «Terra rossa», dove due «Scope» (la Rivoluzione e la Ragione umana) hanno spazzato via dal cielo Dio e la giustizia; la «Patria delle ombre» (Hollywood), il paese della fabbrica cinematografica in cui gli uomini sono divenuti ombre; e poi ancora le miniere, dove gli operai vivono interrati, dimentichi del cielo, incorporati nel carbone; i summit in cui si riuniscono i leader del mondo; le comunità religiose colme di fanatismo; il Vaticano; i giacimenti di gas saccheggiati per rifornire le guerre; infine, gli agghiaccianti scenari di un ghetto dove gli ebrei vivono in un raccapricciante intrigo con il Male. Mentre sorge un dio di ferro, l’incombente nazismo rimbomba su tutta l’Europa.
Un “romanzo” irregolare, la cui implacabile e appassionata denuncia non risparmia nessuno, e la cui storia è stata finora, forse proprio per questo, la storia di una rimozione: come se si perpetuasse l’esilio in cui venne scritto, L’Anticristo è del tutto inedito in Italia, ancora introvabile in lingua tedesca. Un’opera sconcertante per la potenza espressiva del suo linguaggio, per il lucido presentimento degli orrori imminenti (i gulag, i campi di concentramento e la guerra), per la scandalosa attualità del suo j’accuse rivolto ai media mondiali, ai politici, ai totalitarismi, alle dittature, a tutte le forme di ingiustizia sociale e di razzismo che infuriano nel mondo.
JOSEPH ROTH (Brody, 2 settembre 1894-Parigi, 27 maggio 1939). È stato uno scrittore e giornalista austriaco, di origine ebraica. Autore di romanzi famosi in tutto il mondo, come La leggenda del santo bevitore, da cui il regista Ermanno Olmi ha tratto il film omonimo, vincitore del Leone d’Oro al Festival di Venezia (1988). Roth è stato, insieme a Stefan Zweig, Arthur Schnitzler ed altri, il grande cantore della finis Austriae, della dissoluzione dell’impero austro-ungarico, una realtà politica e sociale che aveva dato a molti il senso di appartenere a un mondo intramontabile.
Il tema della «perdita della patria» attraversa le sue migliori opere, da La marcia di Radetzky (1932) a La cripta dei cappuccini (1938). Dal 1923 lavorò come corrispondente culturale per la Frankfurter Zeitung. Quando, anni dopo, gli fu affidato l’incarico di fare grandi serie di reportages, cominciò a viaggiare per il mondo, dall’Unione Sovietica all’Albania, dalla Polonia all’Italia, in una vita inquieta e raminga, passando da un hotel all’altro.
Con l’avvento del nazismo, nel 1933, fu costretto ad emigrare e i suoi libri furono dati alle fiamme. Trascorse gli anni dell’esilio fra Parigi e gli innumerevoli viaggi in altre nazioni, anche prolungati, tra cui i Paesi Bassi, dove potè pubblicare molte delle sue opere. L’Anticristo fu scritto nel 1934 e pubblicato infatti per una casa editrice di Amsterdam.
Introduzione di Flavia Arzeni, traduzione di Cristina Guarnieri.
ISBN 978-88-359-9017-8
Prezzo: 9.90 Euro
Pagine: 165