Ada Treves – Pagine Ebraiche 23/03/2025
«Mio nonno era falegname, abitava in un kibbutz nel nord di Israele, a nel suo laboratorio aggiustava di tutto, per tutti. Quando mi portava lì, da piccola, per me era un sogno: entrare in quel posto con l’odore degli attrezzi, il profumo del legno con un retrogusto di cantina, metallo, misto di falegnameria e ferramente… Diventavo Alice nel paese delle meraviglie! Ed è ancora un po’ così. Adoro i negozi di ferramenta, per esempio, e quando creo qualcosa, di qualsiasi tipo, sono sempre molto felice».
Yael Rosenblum, liutaia, è seduta nel suo laboratorio a Torino fra trucioli, strumenti e attrezzi, e racconta di avere iniziato come musicista: si è diplomata alla Israel Arts and Science Academy di Gerusalemme, violino e viola. «Sono anche musicista, sì, ed è una cosa curiosa perché i liutai di solito non suonano. Chi arriva a fare questo mestiere ovviamente deve avere un minimo di manualità, ma spesso non ha mai avuto a che fare con la musica, e i musicisti finiscono per fare i musicisti… o più frequentemente fanno cose che non c’entrano nulla con gli strumenti. Oppure, anche, c’è chi si avvicina alla liuteria da adulto e si rende conto di amare il mestiere e di avere una buona manualità ma non ha avuto la fortuna di avere genitori che gli hanno dato possibilità di studiare uno strumento da bambino…
Io sono un caso un po’ particolare: ho fatto tutto il percorso per diventare musicista professionista, a Gerusalemme, e ho poi suonato per due anni la viola nell’orchestra da camera dell’esercito. È una formazione di altissimo livello, molto ambita. Ma credo di avere una buona manualità. E sono sempre stata molto affascinata dagli attrezzi: se vuoi farmi felice… al mio compleanno regalami dei bulloni». Poi la decisione di provare a studiare liuteria in Italia alla scuola più famosa del mondo, a Cremona: «Sì, e mi ci sono fermata vent’anni… quattro anni di scuola e varie specializzazioni, in particolare sugli strumenti barocchi, sempre alla scuola internazionale di liuteria. E ho aperto subito una mia bottega, in centro a Cremona, molto vicino al Duomo. Facevo solo costruzione di strumenti nuovi, anche perché non insegnano restauro, lì: a Cremona arrivano da tutto il mondo per comprare strumenti. Anzi, “lo” strumento, quello che suoneranno per la vita, mentre chi ha da riparare uno strumento danneggiato di solito non viaggia tanto, cerca di restare più vicino a casa. Io poi però ho conosciuto un restauratore americano, di origine ebraica peraltro, che viveva metà dell’anno in Italia e l’altra metà negli Stati Uniti, e ho lavorato molto con lui, anche seguendolo in America. Ma a Cremona, è paradossale, non c’è nemmeno un’orchestra…».
Racconta della sua vita in una città piccola, in cui si è trovata abbastanza bene da volerci restare per vent’anni, ma da cui ha deciso di andarsene: «Sì, ho deciso di festeggiare il ventesimo anno a Cremona lasciando la città. Volevo una dimensione diversa ma non volevo lasciare l’Italia. Ho scelto Torino un po’ per caso, in verità: ha la dimensione che cercavo, non è troppo lontana da Cremona, e mi aspettavo di recuperare un po’ di quella vita culturale e sociale che lì mi mancava. Solo che sono arrivata qui poco prima del Covid… due mesi dopo il trasloco le mie speranze si sono volatilizzate. Avevo aperto un laboratorio non lontano da casa, ma con la pandemia ho deciso di lasciarlo: avevo questo spazio libero in casa e lavorare qui mi ha permesso di stare accanto a mio figlio, che seguiva le lezioni dalla stanza accanto. Così riesco a seguirlo al cento per cento, e allo stesso tempo posso lavorare in qualsiasi ora del giorno o della notte. E i clienti possono venire la sera, la domenica, il primo dell’anno, a Natale… e lo fanno davvero, a volte anche senza avvisare».
Non pare per nulla infastidita però, Yael Rosemblum: «Tanto io lavoro sempre, mi piace. Ho bisogno di tenermi impegnata, e fare qualcosa per me è balsamico. Spesso per esempio sono nostalgica, mi manca Israele, e la mia famiglia, e fare qualcosa con le mani aiuta. Aiuta sempre. E poi negli anni a Cremona ho imparato a fare anche cose diverse da quelle che insegnano a scuola: perché chi impara a costruire uno strumento non sa restaurare. Gli attrezzi sono gli stessi, ma nel restauro devi saper smontare uno strumento, facendo meno danni possibile, per poi riportarlo a come era inizialmente. E il rifacimento di un lavoro di altri è completamente diverso, lo si impara facendo, o lavorando per qualcuno come è capitato a me». L’idea di tornare in Israele non è nel suo orizzonte: è un lavoro per cui serve essere in un luogo più facilmente raggiungibile, ben collegato, dove i clienti possono arrivare, anche in macchina, e gli strumenti possono viaggiare senza le difficoltà e le complicazioni che ci sarebbero da lì. Troppi problemi aggiuntivi, spiega, e costa tutto troppo. Aggiunge: «Continuo a fare costruzione, e anche se mi sono allontanata dalla patria del violino ho espanso la mia clientela, anche a paesi più lontani. Com l’Australia, per esempio. E ora faccio anche manutenzione degli archetti, e l’incrinatura, che a Cremona non facevo proprio perché non c’era la clientela. E io sono una lavoratrice di natura, sono una che non sta mai ferma, devo fare sempre qualcosa. Al di là della richiesta è un lavoro che mi da molta soddisfazione.
Organizzo anche visite di gruppi qui, in laboratorio, durante le quali faccio vedere tutti i passaggi della costruzione di un violino. È una cosa che facevo in tutte le lingue, ora mi dedico solo ai gruppi di israeliani in visita in città, invece. Escono sempre molto contenti, è un piacere. Quindi faccio anche questo: circa metà costruzione e metà manutenzione, e queste visite-lezione». Costruisce violini, viole e violoncelli, ma anche strumenti barocchi: viole da gamba e viole d’amore. E anche se ha un sito che porta il suo nome e sta sui social i clienti arrivano principalmente col passaparola: «Sono soprattutto musicisti che stanno iniziando la loro vita professionale, qualche studente di conservatorio, ma prevalentemente già professionisti. E collaboro con qualche negozio all’estero, che tiene i miei strumenti. Poi qualcosa noleggio anche, e se chi affitta un mio strumento poi decide di comprarlo i soldi del noleggio li tolgo dal prezzo finale». È il caso di un violoncello che sta terminando, per esempio, uno strumento particolare dentro cui, prima di chiudere la cassa ha deciso di disegnare una stella di Davide arancione: «È in un punto che non vedi facilmente se non apri lo strumento, se non la cerchi non la trovi, ma c’è. È il mio modo per portare avanti qualcosa in cui credo e fare almeno un gesto per la famiglia Bibas.
Sono argomenti di cui non parlo più, non voglio più scontri. Ma continuo così come ho fatto dal 7 ottobre a oggi, impegnandomi in prima persona sempre, e visto che sono felice di fare il mestiere che faccio ho voluto lasciare un segno anche in questo modo. Per la famiglia Bibas».
https://moked.it/blog/2025/03/23/torino-la-storia-di-yael-liutaia-israeliana/