Un estratto dell’intervento del filosofo israeliano Avishai Margalit sulla rivista «il Mulino». Gli ebrei vagano con lo stigma indelebile di essere ospiti ovunque. La consapevolezza di essere sottoposti allo sguardo degli altri è un impedimento a sentirsi liberi
Avishai Margalit
L’idea dello Stato nazionale si rifà a due immagini: la prima è quella della nazione come famiglia allargata; la seconda è quella del suo territorio come casa. (…) Anche il pensiero di Isaiah Berlin sul nazionalismo, e in particolare sul sionismo, fu fortemente influenzato da queste due immagini. Più importante ancora è il fatto che l’idea centrale di Berlin di una libertà psicologica, distinta dalla libertà politica, sia associata all’idea della patria come casa. (…)
Freud rese famosa l’idea del perturbante. Se ciò che ci è assolutamente familiare è l’Heimlich (ciò che è di casa), allora il perturbante è l’Unheimlich (ciò che non è di casa). Freud mette subito in luce che Heimlich è l’idea dell’appartenere a una casa, del non essere estranei, dell’essere di famiglia, di casa, amici, intimi, comodi, graditi, riposati e al sicuro. L’opposto è il perturbante (Unheimlich), ossia l’inquietante, lo strano, lo spettrale e il pauroso. Gran parte dell’ambivalenza umana sta fra il senso dell’essere a casa da una parte e quello del perturbante dall’altro.
Freud è arrivato tardi sulla scena del perturbante. Il suo saggio è del 1919. Ernst Jentsch aveva pubblicato il suo saggio sulla Psicologia del perturbante già nel 1906. (…) Ma anni prima che Freud e Jentsch scrivessero i loro saggi Leo Pinsker, un ebreo russo che era diventato sionista, aveva avuto questa stessa idea. Pinsker sperava che gli ebrei avrebbero trovato una casa in Russia, ma le sue speranze furono scosse dai pogrom del 1881. Nel 1882 scrisse un pamphlet intitolato Autoemancipazione, che rappresentò una tappa fondamentale nel processo di autocomprensione degli ebrei. Il suo sugo è che l’ebreo è ovunque un ospite e non è a casa da nessuna parte. L’esistenza dell’ebreo è l’esistenza del perturbante. (…) Pinsker vedeva la paura dei fantasmi come la fonte della paura per gli ebrei che conducevano un’esistenza spettrale, familiare e allo stesso tempo perturbante. «Dal momento che l’ebreo non è a casa in nessun luogo e non è visto da nessuna parte come uno del posto, rimane uno straniero ovunque. Il fatto che lui e i suoi antenati siano nati nel Paese non fa la minima differenza».
È difficile sapere che cosa Berlin abbia letto direttamente. Pero ho buone ragioni per credere che non solo avesse letto Leon Pinsker, ma che ciò avesse prodotto una forte impressione su di lui. Pinsker, più o meno come Berlin, pensava che gli ebrei vagassero per questo mondo con uno stigma indelebile. L’esistenza spettrale degli ebrei li rendeva invisibili — le persone vedevano attraverso di loro — mentre Berlin sottolineava che gli ebrei, come i gobbi, hanno l’impressione che il loro stigma sia evidente e costantemente osservato: lo sguardo alienante degli altri dà agli ebrei la sensazione di disagio del non essere a casa. (…)
Isaiah Berlin era stupito dalla propria attrazione per scrittori che stavano all’opposto di ciò in cui egli credeva. La sua attrazione per il contro-Illuminismo lo disturbava, anche se lo divertiva. Questa attrazione, secondo me, è spiegata in parte dalla sua convinzione che il liberalismo avesse magari la morale politica giusta, ma una psicologia sbagliata. Egli sospettava che i contro-illuministi avessero una comprensione della psicologia umana migliore rispetto a quella degli illuministi. Jürgen Habermas ha sostenuto che i nemici dell’Illuminismo hanno contrapposto alla sua fondamentale spinta emancipativa una spinta opposta e schiacciante alla voglia di appartenenza. Pinsker e Berlin obiettano a questa contrapposizione fra casa e libertà. La casa non è un ostacolo all’emancipazione; è una condizione di emancipazione.
L’Illuminismo ha ragione a insistere sull’emancipazione e il contro-Illuminismo ha ragione a insistere sull’importanza di avere un senso di casa e di appartenenza. Entrambi hanno torto a non rendersi conto che la casa è una condizione dell’emancipazione, anziché la sua prigione. Pinsker e Berlin non avevano molta simpatia per lo spaesamento trascendentale, nel senso in cui György Lukács intendeva questa espressione, cioè come l’anelito a sentirsi a casa ovunque. Al contrario, secondo Berlin e Pinsker le persone normali non hanno voglia di andarsene in giro, ma di essere a casa da qualche parte, non ovunque.
Essere a casa, per Berlin, significa non avere una coscienza di sé esasperata. Ma allora potremmo pensare che, come per il colesterolo, ci siano due idee di coscienza di sé: una buona e una cattiva. Quella buona fa bene alla libertà umana; quella cattiva fa male alla libertà umana.
L’essere coscienti di sé in senso buono è affine al conoscere se stessi o, come minimo, a una consapevolezza riflessiva della propria coscienza del mondo. Quello in senso cattivo è la preoccupazione eccessiva per se stessi, e in particolare per l’impressione che si fa sugli altri.
In effetti, un senso di libertà storicamente importante è la libertà come autodeterminazione. Un’espressione dell’autodeterminazione è esercitare la propria volontà in base alla propria conoscenza, anziché in base alle proprie emozioni. Perciò l’avere coscienza di sé nel senso buono della conoscenza di sé è al servizio della libertà.
Berlin credeva che la conoscenza, compresa la conoscenza di sé, talvolta aumenti la libertà e talvolta la ostacoli: a volte aumenta un aspetto della libertà, mentre ne riduce un altro. (…)
Si può essere frenati nei propri progetti e nelle proprie azioni dall’essere troppo consapevoli dei propri limiti, mentre qualcuno a cui manca questa conoscenza può lanciarsi, e talvolta avere successo, proprio in quelle stesse azioni e in quegli stessi progetti. Berlin non sottoscrive la frase evangelica «conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi» (Giovanni 8:32). La conoscenza, anche nel senso buono, non libera sempre.
L’indice completo del numero su www.rivistailmulino.it.
Corriere della Sera – 23.7.2014