Capitolo 3: La comunità a Roma
3.1 L’arrivo a Roma
3.2 Una nuova vita
3.1 L’arrivo a Roma
Con lo scoppio della guerra tra Israele e l’Egitto, iniziarono anche i tumulti che sconvolsero Tripoli per alcuni giorni. I tragici scenari dei pogrom del ’45 e del ’48 si ripetevano. Incendi e devastazioni dei negozi e delle abitazioni degli ebrei, uccisione di ebrei che incautamente uscivano dai loro nascondigli in cerca di cibo o di un rifugio più sicuro. Gli ebrei rimasero, per circa un mese, rinchiusi in campi di raccolta o, per la maggior parte dei casi, chiusi in casa, in condizioni difficili, per mancanza di cibo e sovraffollamento, in quanto nei vari appartamenti trovavano rifugio più di un nucleo famigliare, in modo da sostenersi a vicenda e superare il momento difficile.
Verso la metà del mese, su iniziativa del presidente della comunità, veniva inviato un appello al primo ministro libico in cui si chiedeva il permesso di partire agli ebrei che avrebbero desiderato lasciare, temporaneamente, il paese, fino a quando non si fosse calmata la situazione, ribadendo la fedeltà degli ebrei alla Libia in pacifica convivenza con la popolazione araba. La risposta del governo non tardò molto ad arrivare; nel giro di pochi giorni l’ufficio emigrazione si mise all’opera per rilasciare i documenti necessari per la partenza. Abbiamo visto, alla fine del primo capitolo, dalle testimonianze di H., L., e T. come, durante quei giorni, la polizia passasse di casa in casa invitando gli ebrei a partire in tutta fretta.
Vista la situazione che si stava creando, questa soluzione, per il Re Idris fu considerata la migliore. Da una parte avrebbe evitato il ripetersi degli incidenti e delle violenze contro gli ebrei, che lo avrebbero screditato agli occhi degli occidentali; dall’altro lato, eliminando l’oggetto principale dell’odio popolare rendeva meno probabile il ripetersi di nuovi tumulti, accontentando in questo modo gli elementi più scalmanati e nazionalisti della popolazione. Inoltre, vista la necessità ed urgenza con cui era stata presa questa soluzione, alcune questioni rimasero sospese, a tutto vantaggio del governo libico, che in un secondo tempo, quando la situazione interna ed internazionale fosse cambiata avrebbe potuto sfruttare a suo favore. Due esempi ce lo dimostrano. Il primo fu la disposizione che autorizzava coloro che partivano a prendere solo venti sterline a testa, invece delle trecento normalmente concesse. La giustificazione data fu che l’onere sarebbe stato troppo gravoso per l’economia libica, e che inoltre non vi sarebbe stata abbastanza valuta straniera disponibile, visto che solo il Banco di Roma tripolino era l’unico autorizzato al cambio delle lire libiche. Il secondo esempio più rappresentativo e più grave fu quello di lasciare nel vago l’aspetto più importante di tutta l’operazione, ovvero, se il trasferimento all’estero avrebbe dovuto essere considerato provvisorio o definitivo: più precisamente, se chi partiva sarebbe potuto ritornare e riacquistare i propri diritti di cittadino, o di residente straniero o se la partenza avrebbe modificato in qualche modo il suo status giuridico in Libia60.
Nell’arco di un mese, grazie a ponti aerei, i sei mila ebrei della comunità di Tripoli vennero trasferiti a Roma. Il modo più opportuno per descrivere il loro arrivo è quello di sentirlo direttamente attraverso le loro testimonianze.
H. racconta:
“Mi ricordo che atterrammo all’aeroporto di Roma, e già c’erano tutti gli ebrei locali che si erano adoperati ad accoglierci per darci assistenza, c’erano le organizzazioni mondiali degli ebrei che avevano organizzato delle camere d’albergo; noi ci misero tutti e sette, quanti eravamo in famiglia, in una camera a dormire. Rimanemmo lì circa due settimane, poi affittammo un appartamento, anzi, una camera dentro un appartamento, dove comunque stavamo in sette a dormire. Siamo rimasti lì diversi mesi, un bel po’ di tempo, intanto io ero andato a scuola, alla scuola ebraica di Roma, che aveva fatto delle classi speciali proprio per gli ebrei provenienti dalla Libia, non proprio speciali però, aveva messo il 90% di studenti provenienti dalla Libia e due o tre “piccioni” locali, per iniziare a integrare e scolarizzare. Fu un grande momento di aggregazione quello della scuola.”
V. che all’epoca aveva tredici anni, ha vissuto in un modo particolare il passaggio dalla Libia a Roma:
“siamo arrivati in Italia il 21 giugno, mi sembra, io avevo tredici anni, ed ero così contenta di essere fuori dalla Libia che di tutto il resto non mi importava niente. Allora non capivo il danno umano ed economico che stava colpendo la mia famiglia, e tutti in generale, io ero solo contenta di andarmene. Da una casa grande siamo finiti ospiti in un mini appartamento di alcuni amici, poi siamo andati in periferia. Il trauma non l’ho subito io che avevo solo tredici anni, non ho lasciato amicizie”
Più avanti si vedrà come il rapporto di V. con la Libia fosse pessimo e, di sicuro, quest’esperienza non ha contribuito a migliorarlo. Anche T., invece di andare in albergo o nei campi di accoglienza, è stato ospitato da familiari:
“Quando siamo arrivati qui, gli italiani si sono comportati bene, hanno aperto i campi di Latina, di Capua per i profughi, eravamo in 6000, quasi 5000 andarono nei campi, gli altri erano ospiti da parenti o amici. I primi tempi sono stati molto dolorosi. Io sono andato ospite da mio cognato, lui era arrivato in Italia nel ’62, aveva una piccola casa in Piazza Fiume, aveva tre camere, e ha ospitato in una stanza la madre e il fratello, anche loro fuggiti con noi, e io e la mia famiglia, mia moglie e due figli, nell’altra, dormivamo per terra; non era attrezzato per ospitare così tanta gente.”
E aggiunge:
“Abbiamo sofferto molto, non avevamo soldi, non avevamo niente; io sono stato un po’ fortunato; siccome in quel periodo dovevo andare all’estero per lavoro, avevo con me cinque-seicento sterline per il viaggio, Dio mi ha aiutato e non me li hanno trovati, e così sono riuscito a portarle via, ma c’era molta gente che dalla Libia era uscita solo con i vestiti che aveva addosso. Per un mese, quaranta giorni, siamo rimasti ospiti da mio cognato. Chi voleva poteva andare in Israele o dove voleva; circa 4000 sono partiti per Israele, qualcuno è andato da dei parenti in America, in 2000 siamo rimasti qui in Italia, per la maggior parte a Roma.”
Come abbiamo visto dalla testimonianza di T. l’Italia, per la maggior parte di queste persone, era soltanto un punto di passaggio, prima di emigrare verso Israele o altri paesi, come gli Stati Uniti, Francia e Inghilterra, per raggiungere parenti. I. ad esempio come altre due mila persone ha deciso di rimanere in Italia:
“Io decisi di fermarmi a Roma perché mio marito aveva già degli affari qui. E appena arrivati, per un po’ abitammo in un residence…”
L. è stata una delle molte persone che sono state ospitate nei campi di accoglienza:
“Noi abbiamo avuto un’odissea, arrivati in Italia. Quando siamo arrivati all’aeroporto ci hanno chiesto “chi vuole andare a Latina?”, “chi vuole andare in una pensione?” eccetera. Mio marito era una persona tranquilla, non era un tipo che si faceva molto avanti e ha lasciato fare a loro; per cui ci hanno mandato al campo di Capua. Il campo di Capua era la cosa più tremenda che abbia mai visto. Erano della stanze senza pavimento, con la terra battuta. C’erano le reti senza i materassi, peggio di un carcere, con le coperte color marrone da soldati, o deportati. Era il vuoto, il niente. Sembrava un campo di concentramento. Io ero sola con i miei bambini perché mio marito era rimasto a Roma, per cercare una casa o qualcosa. E io ero sola con i bambini, il più piccolo aveva pochi mesi e io non avevo pannolini, né latte, niente. Questo bambino piangeva sempre. Non c’era acqua corrente, per arrivare alle cucine, per prendere l’acqua per fare un po’ di latte, dovevo fare più di mezzo chilometro a piedi, arrivavo lì e l’acqua era finita. C’era solo una tinozza da cui prenderne, ma l’acqua era sporca. Questo bambino ha avuto un’enterocolite che era una cosa… un continuo, un continuo. E’ veramente grazia di Dio che questo bambino sia sopravvissuto ed oggi è un uomo. Io lo accudivo alla meglio. Tutto il giorno e tutta la notte era un su e giù tra le cucine e la “capanna” per lavarlo e cambiarlo.
Ci portavano un po’ di pappa e un litro di caffè, ma era acqua sporca. L’altro mio figlio piccolo, V. non faceva che piangere e mi chiedeva: “Potrò ancora andare a scuola? Potrò ancora studiare? Ma che fine faremo?” e non riusciva a mangiare niente. Poi c’era anche mio fratello K., che me lo avevano affibbiato, e mia nonna anziana pure lei con me. L’unica forte che poteva dare sostegno ero io, ma purtroppo io non sono forte per niente [sorride]. Poi era girata la voce che in quel campo c’erano persone dell’est europeo, che si drogavano, che si ubriacavano… e la mia capanna era in mezzo alle loro. Poi i temporali la notte, i temporali tremendi. Le finestre erano senza vetri, l’acqua entrava così… dentro. Una cosa tremenda, allucinante, allucinante. Sembrava un film di Hitchcock. Poi c’erano granchi grossi così… no, no… [si corregge] dei ragni, che entravano continuamente, perché la porta era alta dal pavimento fatto di sabbia. Naturalmente di notte potevano anche arrampicarsi sul letto, allora andavo di giorno a cercare delle scatole che riempivo di acqua, poi mettevo in ogni scatola una gamba del letto, sempre da sola. In queste condizioni sono rimasta dieci giorni, senza valigia, senza indumenti, senza niente. Dieci giorni! Dopo è arrivato mio marito, e siamo andati a Roma, da una pensione all’altra, in camere ammobiliate. Ci trattavano malissimo, perché con quattro figli di cui uno piccolissimo dicevano: “ah, non vi muovete! State fermi!” come potevano stare fermi i bambini dopo che per un mese non potevamo uscire di casa o accendere la luce? La pensione era orribile, controllavano cosa facevamo, cosa non facevamo, potevamo usare la cucina solo per fare degli spaghetti, niente di più. Poi siamo andati alla ricerca di un appartamento. E alla fine lo abbiamo trovato. Un appartamento, o un buco nero, dove prima alloggiavano degli studenti; era sporco, lurido, aveva scarafaggi e cimici ma era il nostro appartamento. Non potevamo permetterci di più perché non c’erano soldi, tutto era rimasto a Tripoli. Non abbiamo portato niente, niente, niente. Noi siamo stati particolarmente sfortunati. Qualcuno era riuscito, negli anni prima, a portare in Italia qualcosa, poco per volta, e quindi era stato più semplice per loro sistemarsi.”
Dopo alcuni mesi dal loro arrivo a Roma, qualche membro della comunità, visto che ormai la situazione si era calmata, provò a ritornare in Libia per vedere lo stato in cui erano le loro proprietà ed eventualmente cercare di recuperare il più possibile. T. testimonia:
“Verso ottobre sono tornato in Libia per cercare di liquidare, vedere cosa è rimasto e cosa non è rimasto. A volte le autorità hanno chiuso un occhio, se qualcuno aveva una casa di proprietà o un fondo di magazzino glielo hanno lascito vendere agli arabi, ma a poco, i più fortunati, pochi, alla metà del valore.”
Il marito di L., come molti, provò a tornare a Tripoli, mentre la moglie lo aspettava a Roma; neanche lui, come tanti altri, riuscì portare a casa molto:
“Io non ho nostalgia, tanti sono scesi giù per cercare di recuperare qualcosa, ma io non sono scesa mai… mio marito è sceso un paio di volte, ma io mai, non ha recuperato niente. E pensare che avevamo ristrutturato la casa appena sei mesi prima, tutta nuova l’avevamo fatta. Io per tanti anni avevo resistito, non volevo comprare niente, perché lì mi sentivo provvisoria, poi ad un certo punto mi son detta: “la casa è di proprietà” e allora ho rifatto i pavimenti e il bagno… dopo sei mesi… solo vorrei vedere con gli occhi di adesso chi ci abita in casa mia!
[ora è I. che parla] io invece sono scesa due volte, nel settembre ’67 e nel maggio del ’68 Noi la nostra l’abbiamo data con tutti i mobili, le tende, tutto, ad un arabo. Uno che aveva aiutato A. P. a scappare, nascosto in un bidone.”
Anche i genitori di H. tornarono in Libia:
“Anche i miei genitori partirono, dopo un anno, per la Libia, per vendere qualcosa; non c’era un lavoro, non c’erano soldi e quel tentativo rischioso era una prova delle difficoltà economiche che si affrontavano. In casa si respirava un’aria tesa e preoccupata fino al ritorno dei miei che, infine, per pochissimi soldi svendettero qualcosa dei beni di mio padre.”
3.2 Una nuova vita
Solo poche persone erano riuscite, previdentemente, a portare, poco a poco, fuori dalla Libia prima di fuggire, qualche bene o capitali che in quei momenti di bisogno tornarono utili per ricominciare una vita a Roma. La maggior parte delle persone rimaste a Roma, invece, si era ritrovata a dover ricominciare una vita da zero:
“Come sono arrivata a Roma, io che non avevo mai lavorato, oltre ai bambini e alla casa ho dovuto anche lavorare fuori, ho fatto la rappresentante di profumi la mattina, il pomeriggio facevo mezza giornata nel negozio di una mia amica come commessa. Mio marito si arrangiava come poteva, e siamo andati avanti così per anni e anni, fino a quando siamo riusciti a sistemarci.”
racconta L., e V. ricorda una situazione simile nella sua famiglia:
“noi siamo arrivati a Roma e ci siamo rimboccati le maniche, mia madre è andata a vendere libri porta a porta, e in Libia aveva tre donne di servizio. Arrivati qui non c’è stata scelta, abbiamo dovuto ricominciare da capo. Non siamo rimasti lì a piangere, nessuno ci avrebbe regalato nulla.”
Bisogna ricordare che le testimonianze raccolte sono descritte attraverso gli occhi dei bambini, che, anche se spesso i genitori fingevano che andasse tutto bene, spesso si rendevano conto delle difficoltà in cui si trovavano le famiglie. H., arrivato a Roma a dodici anni racconta:
“Noi bambini non sapevamo nulla delle condizioni economiche della famiglia. Mio padre credo abbia sofferto molto in quel periodo, l’unico sollievo era il fatto che ciò stava accadendo a tanti nostri simili. I nostri genitori in questo sono stati molto bravi, hanno saputo sopportare in silenzio le difficoltà, senza coinvolgerci.”
E aggiunge un episodio dei suoi primi giorni a Roma:
“La sera, io me ne andavo in Piazza Vittorio, dove, dentro una casina, all’aperto, c’erano cantanti e bella gente ai tavolini. Io, dodicenne, ero affascinato da quella musica dal vivo e mi appassionavo al buio; tanti altri si avvicinavano, ma nessuno come me stava lì tre o quattro ore di seguito. Una sera non mi resi conto che si erano fatte le due di notte; tornando a casa trovai mia madre e mio fratello per strada disperati a cercarmi. Quella volta mia mamma fu tenera con me e mi capì; eravamo appena arrivati da una prigionia di un mese e quella libertà me la prendevo tutta, anche se ero un po’ incosciente rispetto i rischi della nuova grande città.”
Tornando a come si ricostruivano una vita i membri della comunità tripolina,T., rispetto agli altri, è stato più fortunato, proprio grazie ad alcuni arabi con cui lavorava a Tripoli:
“Ho ricominciato a lavorare nel ’68, grazie a degli amici arabi, (forse eravamo amici perché non avevamo mai parlato di politica e ognuno rispettava l’altro per quello che era); grazie a loro, io qui in Italia ho continuato il mio vecchio lavoro, ordinavo spezie per loro, importavo, gestivo eccetera. Guadagnavo io, guadagnavano loro ed eravamo tutti contenti. Ho continuato così per quattro o cinque anni. Poi nel ’70 ho aperto una mia società, più o meno lo stesso lavoro della Libia, ho continuato fino all’85.”
Una volta sistemati a Roma, oltre a cercare di trovarsi un lavoro, un alloggio ecc. gli ebrei tripolini dovevano inserirsi nella nuova realtà italiana, ma anche nella comunità ebraica romana. Ci sono diverse testimonianze a riguardo. T. ricorda l’assistenza che hanno ricevuto appena arrivati:
“La comunità ci ha aiutato molto; di quelle 6000 persone, 5800 erano malate, dopo un mese di paura, di stress, non avevamo niente da mangiare… era normale, ma la comunità romana ci ha aiutato e ci ha curato. Anche se con pochi soldi, la comunità ci aiutava.”
Secondo D. invece, il loro arrivo ha contribuito ad accrescere la coscienza religiosa della comunità romana:
“La comunità romana era abbastanza… ‘secolarizzata’, mentre la comunità libica era, ed è, più osservante. Con il nostro arrivo c’è stato un risveglio della comunità romana, una maggior partecipazione alla vita liturgica e al rispetto delle regole; prima del nostro arrivo c’era solo una macelleria kasher, ora sono otto. La riscoperta delle tradizioni è avvenuta anche grazie ai matrimoni ‘misti’ tra le due comunità.”
Anche L. è d’accordo sull’aiuto ricevuto dalla comunità romana appena giunti in Italia, però:
“L’inserimento nella comunità ebraica romana non è stato molto facile nei primi tempi, perché avrebbero voluto che fossimo andati in Israele, per sviluppare e popolare Israele che era ancora un paese giovane e aveva bisogno di gente. Noi eravamo titubanti se andare o non andare, mio marito non voleva che i figli facessero il servizio militare, aveva paura per loro. E questo era un po’ lo spirito di protezione di molti dei genitori tripolini… [interviene I.] sì, noi siamo sempre stati pacifici, era inconcepibile che un figlio nostro potesse andare a combattere, a fare la guerra. In Libia non avevamo mai fatto neanche il servizio militare.”
Qui si ricollega l’esperienza contrapposta di V.:
“ho fatto la terza media in periferia a Roma, vicino a casa, poi ci siamo trasferiti più verso il centro e lì ho frequentato i primi due anni di liceo, dopo di che mi sono trasferita in Israele e lì ho terminato il liceo, cambiando lingua un’altra volta. Non ho mai avuto questo “legame di sangue” con le amicizie. Sono stata quattro anni in Israele, ho fatto anche il militare là; avevo tanta voglia di dare qualcosa a un popolo che meritava, dopo aver dato tanto a uno che non meritava affatto”
A tutti questi problemi, ben presto se ne aggiunse un altro, che si sarebbe trascinato per molti anni. La questione della cittadinanza; al loro arrivo a Roma erano stati accolti dall’Italia con lo status di rifugiati, non con lo stato di profughi; ancora non era chiaro se la loro permanenza sarebbe stata definitiva o, se una volta che la situazione in Libia si fosse calmata, sarebbero tornati a Tripoli. Quando fu chiaro che ormai non era più possibile tornare nel paese di origine, ognuno scelse la sua strada e, come già accennato, duemila persone decisero di stabilirsi in Italia. Per loro iniziava una trafila burocratica per regolarizzare la loro permanenza in Italia. Tra di loro ce n’erano alcuni che avevano il passaporto libico, come T., ad esempio:
“Avevo il passaporto libico, ma quando mi è scaduto non me l’hanno rinnovato; allora mi hanno dato un titolo di viaggio italiano; questo però non è niente, non puoi girare liberamente, ti chiedevano perché eri profugo, se avevi i soldi per viaggiare. Una volta dovevo andare a Londra, e per il visto ho aspettato una settimana: per ottenerlo ho dovuto portare il conto corrente, ho dovuto dimostrare che la società era registrata a nome mio alla Camera di Commercio. Una volta dovevo andare in Francia, per un matrimonio, ho aspettato tanto, che il visto è arrivato a matrimonio finito. Allora mi sono deciso a fare subito domanda per la cittadinanza italiana”
altri invece possedevano passaporto straniero, come ci dice I.:
“Molti avevano un passaporto straniero, francese, inglese, anche olandese; non perché si fosse originari di quei paesi, ma perché negli anni trenta alcuni governi proposero ad alcune famiglie se volevano la cittadinanza, non so per quali motivi. Ad esempio i N., non è che fossero olandesi, semplicemente avevano scelto l’Olanda. Mio padre invece non si è dato da fare e si sono ritrovati libici… Noi, invece, avevamo il passaporto tunisino. Non l’avessimo mai avuto. I miei figli lavorando e studiando qui ottennero subito la cittadinanza. Io e mio marito invece la ottenemmo dopo molti anni perché essendo tunisini, non rientravamo tra le facilitazioni che avevano ottenuto i libici.”
Infine, il caso di L.; nonostante suo padre avesse il passaporto italiano, non fu per niente facilitata nell’acquisizione della cittadinanza, anzi:
“Mio padre aveva il passaporto italiano… ma io anche con quello non sono riuscita ad avere subito la cittadinanza quando sono arrivata qui. Solo con la legge di Andreotti, dopo tanti anni, forse nell’87, siamo riusciti tutti ad avere la cittadinanza, ma per tanto tempo dovevamo andare a rinnovare il permesso di soggiorno e il titolo di viaggio… questi documenti si dovevano rinnovare ogni anno; all’ufficio stranieri della Questura si passavano giornate intere, e poi alla fine, di pomeriggio arrivavi allo sportello e ti dicevano che non si trovava il fascicolo e che si doveva tornare l’indomani. Una cosa allucinante. Dovevo lasciare il lavoro e la famiglia per fare queste file.”
In teoria, però, nel 1919 era stato emanato un decreto che dichiarava “cittadini italiani” tutti i nativi della Tripolitania e della Cirenaica, e tutti coloro che vi avevano abituale residenza. Successivamente, con l’introduzione delle leggi razziali, limitatamente per la popolazione ebraica, era stata istituita la “cittadinanza italiano-libica”; mentre ai musulmani, con il decreto di aggregazione delle quattro province libiche all’Italia, nel gennaio 1939, venne concessa la piena cittadinanza italiana. Con il termine della guerra, e il controllo della Libia da parte dell’amministrazione militare britannica, venne emanato un nuovo decreto legislativo con cui veniva abrogata tutta la precedente legislazione antisemita e reintegrati gli ebrei nei loro diritti precedenti le leggi razziali, per riparare prontamente, dice il decreto: “…alle gravi sperequazioni di ordine morale e politico create da un indirizzo infondatamente volto alla difesa della razza…”61. Così veniva riconosciuta la cittadinanza italiana a tutti coloro che erano nati in territorio libico, fino a quando questo era una colonia italiana. Che poi, successive vicende storiche abbiano portato alcuni ebrei ad acquistare, volontariamente o per imposizione, un’altra cittadinanza, la libica per esempio, non avrebbe dovuto comportare cambiamenti perché non vi era stata un’espressa rinuncia della cittadinanza italiana e il diritto di acquisizione per nascita della stessa permaneva. T. racconta:
“abbiamo fatto domanda allo stato per ottenere la cittadinanza; io, ad esempio, sono nato nel ’34, allora era territorio italiano, avevo quindi diritto alla cittadinanza italiana. Però hanno voluto riconoscerla. Poi due o tre famiglie di Milano hanno fatto causa e noi tutti ci siamo accodati a loro.”
Secondo T. il motivo di queste difficoltà da parte dello stato italiano erano motivate da una causa puramente economica:
“Quando chiediamo il risarcimento, ci dicono che quando ci hanno sequestrato i beni, non eravamo italiani, per cui non abbiamo diritto a nessun risarcimento. Il Governo italiano ha paura che, se ci concede la cittadinanza come diritto di nascita, allora abbiamo diritto anche al risarcimento; per questo è tutto bloccato.”
Anche per S. la questione era puramente economica e cita una nota del Console italiano a Tripoli:
“il console a Tripoli, in un sua nota del 1977, scrisse, tra l’atro con mal celata acredine, di essere convinto che l’insistenza degli ebrei della Cirenaica e della Tripolitania a voler adottare la procedura di rivendica giudiziale della cittadinanza era solo per l’ottenimento dei benefici previsti dalla legge sulla profuganza dalla Libia.”
Resta il fatto che, come dice T.:
“Noi stiamo combattendo da anni per essere risarcirci, dagli italiani, dai libici, ma niente. Sono trent’anni che combattiamo; ci rispondono anche gentilmente ma non si muove nulla. ”
Alla fine T. aggiunge:
“alla fine tutti siamo riusciti a sistemarci e ora, siamo cittadini italiani”
Adesso, a distanza di anni, come sono i sentimenti degli ebrei tripolini di Roma verso la Libia? In tutti i suoi racconti, per esempio, V. lasciava trasparire un certo rifiuto nei confronti della Libia. Quest’ultimo giudizio di V. ci fa capire quale sia il suo rapporto con la sua vita a Tripoli; continuando a raccontare, usa delle parole dure:
“per me la Libia è cancellata. Non ho nessuna nostalgia dei posti, non ho interesse di vedere dove sono nata, la odio. No, non arrivo neanche odiarla, perché sarebbe già un sentimento troppo nobile. C’è il disprezzo totale, un ricordo da cancellare. Mi sono resa conto, quando ero in Israele, che se ascoltavo o guardavo qualcosa in televisione in arabo, riuscivo a capire parecchio, però onestamente tendo proprio a cancellarlo, non posso nascondere il disprezzo che provo.”
Non solo gli episodi del ’67, ma anche gli anni precedenti, quando a Tripoli c’era una relativa calma, hanno sconvolto talmente tanto V. che racconta:
“se qualcuno mi desse tutto l’oro del mondo per tornare in Libia, non arriverei neanche all’aeroporto di Roma! Sono stata in Tunisia alcuni anni fa, per un desiderio di mio marito, ma non ci sono andata molto volentieri. Abbiamo girato tranquillamente per il mercato, nessuno ci ha dato fastidio, ma io ero traumatizzata da quello che avevo subito. Non ci sono andata a cuore leggero, purtroppo. C’è gente che rimpiange i tempi della Libia, il mare soprattutto, forse sono quelli che hanno fatto in tempo a vivere la loro giovinezza la, ma io no.”
Qualcuno condivide l’opinione di V., come L.,per esempio:
“Premetto che non mi è mai piaciuta la Libia, però siamo nati là, lavoravamo là, avevamo tutto là, era la nostra vita.”
Altri invece esprimono un giudizio diverso, nostalgico, anche se quello, ormai è il passato; T. per esempio:
“La vita era completamente diversa, era favolosa: tutti si conoscevano l’un l’altro, tutti si rispettavano, se qualcuno era in difficoltà veniva aiutato… altra vita; ne ho moltissima nostalgia, ma erano anche altri tempi; ora non ci tornerei; purtroppo è cambiata tutta, se ci tornassi cosa troverei? Niente.”
Anche H. condivide l’opinione di T.:
“Tripoli per come me la ricordo era bellissima, una città di mare piccola, con il porto; bella, proprio perché piccola e tranquilla, non caotica come le grandi città. Ho una gran nostalgia della città per come la vivevo. Ora non ci andrei, so che molte cose sono cambiate e non sarebbe più come una volta, preferisco tenermi il ricordo di come era.”
E I. commenta:
“era una cosa meravigliosa, che ricordo con tristezza. Nonostante tutto, noi lì vivevamo bene, oggi me ne rendo conto di che vita privilegiata facevamo, anche se non era ricca, però era un altro mondo… allora si viveva!”
Bene o male, nonostante tutte le difficoltà, il dover ricominciare una vita dal niente, i problemi con la cittadinanza; dopo aver messo ordine nei propri ricordi e nei propri cuori, la comunità è rifiorita presto perché, come dice H.:
“Di fronte al dramma siamo sempre riusciti ad andare avanti grazie al carattere forte.”
E L. rafforza il pensiero di H.:
“La comunità si è ripresa benissimo, lentamente ma è rinata, perché siamo ingegnosi. Specialmente nel commercio.”
Dopo lunghi anni di assestamento, la comunità tripolina è riuscita a trovare una sua identità all’interno della comunità romana. L’ambientamento alla nuova realtà è stato superato. Tra i suoi membri, oggi, si contano numerosi professionisti, come docenti universitari, medici, avvocati, giornalisti, imprenditori e, eredità del periodo tripolino, molti, ancora oggi, sono commercianti, specialmente nei campi dell’abbigliamento e delle calzature. Ecco attraverso il racconto di T. come è oggi la comunità:
“Solo nel ’73, ‘74 abbiamo iniziato a sistemarci, fino ad allora non sapevamo ancora se saremmo tornati in Libia, se saremmo andati in Israele o rimasti in Italia; però ora tutti hanno una loro attività e guadagnano. La maggior parte della comunità vive in Viale Libia, Piazza Bologna, qualcuno a Viale Marconi. Allora per non far fare troppi spostamenti, agli inizi avevamo preso un appartamento qui vicino e l’abbiamo sistemato a sinagoga. Poi la comunità è cresciuta e avevamo bisogno di più spazio, visto che avevamo deciso di stabilirci qua. Abbiamo allora deciso di fare un tempio più grande, e abbiamo comperato questo cinema, era il cinema Ausonia; anche la comunità romana ha partecipato all’acquisto; poi noi nel giro di vent’anni lo abbiamo ristrutturato, la gente fa offerte volontarie. C’è molta solidarietà tra di noi, come ai tempi di Tripoli. Il Tempio aiuta tutti perché è di tutti, ad esempio: i malati, li aiutiamo a trovare medici, assistiamo gli sfrattati con avvocati, e ci sono anche non ebrei che ci aiutano. Quando io sono arrivato a Roma, avevo un figlio di sei anni e una figlia di quattro; ora ho cinque figli, e anche loro hanno figli. Agli inizi eravamo in duemila, adesso, mi sembra, di tripolini ce ne sono circa cinquemila persone. La comunità cresce, la vita continua.”
60 R. De Felice, Ebrei in un paese arabo, op. cit., pp. 421-422.
61 Decreto legislativo 20 gennaio 1944 n. 25, esteso alla Libia con proclama n. 123 delle Forze Britanniche di Occupazione.