Introduzione al Midràsh
Vi sono due indirizzi principali nel mondo della letteratura talmudica: l’Halakhà e l’Aggadà. La prima riguarda le regole di vita che l’ebreo deve osservare, nei rapporti dell’uomo con il Signore, e con il suo prossimo. Tutto ciò che non rientra in tale ambito è Aggadà: cioè, racconti, detti sapienziali, sentenze morali e in genere tutte le forme con cui si affrontano le questioni concernenti i problemi di fede e di pensiero[1]. Le due componenti non sono in contrasto fra di loro, bensì si integrano.
L’Halakhà è la legge; l’Aggadà viene a completare il discorso dell’Halakhà, rendendola più vicina e più comprensibile all’intelletto e al sentimento umano. Dice una massima talmudica: «Il Maestro dell’Aggadà non proibisce e non permette, non rende impuri e non purifica»[2]. La parola Aggadà secondo alcuni deriva dall’espressione «narra il verso» (in ebraico hagghèd), termine con cui i maestri del Midràsh usavano iniziare le loro omelie midrashiche. Il termine midràsh, che deriva dalla radice daràsh “ricercare”, “indagare”, si applica soprattutto al lavoro dei Maestri, caratterizzato da una ricerca profonda nel testo biblico.
Il vocabolo (midràsh) designa:
1) L’indagine esegetica dei testi sacri, quale venne praticata dai Dottori ebrei dell’epoca talmudica (ultimi secoli avanti l’E.V. e primi cinque secoli dell’E.V.) e dai loro continuatori;
2) i risultati di questa indagine esegetica;
E come era Midràsh il complesso di questa attività esegetica sui testi della Bibbia, così era Midràsh l’insegnamento di essa, e Midràsh anche la singola norma o il singolo insegnamento risultante dall’esegesi. Midràsh Halakhà o Midràsh halakhico era quello di contenuto giuridico[3]. Midràsh Aggadà o aggadico quello di contenuto non giuridico[4]. La traduzione dei due termini (Halakhà e Aggadà) indica già la diversità della loro funzione: il termine Halakhà deriva dalla radice halòkh = “andare”: quindi la sua funzione è di indirizzare l’uomo verso la strada giusta, la strada dei precetti dell’Ebraismo. Il termine Aggadà deriva dalla radice higghìd = “esporre”, “insegnare”, “raccontare”: quindi la sua funzione è di sensibilizzare l’uomo attraverso il racconto verso la problematica divina e umana. Si può quindi dire che, attraverso l’Aggadà, i Maestri tendono ad avvicinare l’uomo all’Halakhà. Una massima dice:«Vuoi conoscere Chi creò il mondo e seguire le Sue vie? Studia l’Haggadà».[5]
Come nasce il Midràsh?
Il Midràsh ha origini antichissime (vi è chi ne vede esempi già nel testo biblico)[6], si sviluppa in epoca ellenistica, conosce grande fioritura in epoca romana e è redatto per iscritto, nelle forme a noi pervenute, in età medioevale. Nel mondo ellenistico gli ebrei, che in Eretz Israel godono di una relativa indipendenza con il regno degli Asmonei, si trovano ad affrontare il problema della convivenza con una cultura dominante diversa dalle precedenti, perché non «nazionale» ma «super-nazionale», universale, non religiosa ma antropocentrica e atea, per certi aspetti vicina al mondo ebraico, ma per altri contraddittoria.
Sotto la dominazione romana, tollerante con le varie religioni ma non con quella ebraica che, a differenza delle altre è parte integrante dei valori nazionali del popolo ebraico (e i romani poco tollerano separazioni etniche, specialmente sul piano legale), gli ebrei mal sopportano la graduale perdita di indipendenza e la sempre maggior ingerenza e coercizione dell’impero che esige anche idolatria (culto dell’imperatore-dio) nella propria vita religiosa, legale e nazionale. Serpeggia l’opposizione, che almeno due volte (70 e 133 E.V.) sfocia in gravi e violente rivolte. A ciò si deve aggiungere il problema dei vari gruppi che nascono all’interno del popolo ebraico in quei secoli (Sadducei, Farisei, Esseni, Zeloti, sette del mar Morto, movimenti messianici ecc.) da una parte, e dall’altra di quegli ebrei che si assimilano alla cultura dominante, attratti da migliori condizioni di vita o da motivi filosofico-ideologici.
Che posizione assumere nei confronti di questi problemi, di fronte a crisi così frequenti, spesso esistenziali? Come reagire alla distruzione del Tempio di Gerusalemme, luogo di culto religioso, ma anche centro di vita culturale e sociale? Il Tempio, che permette l’espiazione dei peccati è distrutto; i sacerdoti hanno perso, fra l’altro, la loro funzione di maestri; l’ispirazione profetica è ormai sopita; si vede il giusto soffrire e l’ingiusto prosperare. Tutto ciò che avviene, sembra essere in contrasto con la legge della Torà. Ecco allora fiorire l’insegnamento dei Maestri del Midràsh, che affrontano e vivono i grandi e piccoli problemi quotidiani della gente, offrono soluzioni, colmano lacune, consolano, sostengono e rinsaldano lo spirito del popolo. Si sviluppa e si diffonde così il metodo interpretativo del Midràsh, che ricerca nel testo biblico le risposte ai drammi del popolo.
Eccone alcuni esempi.
Al grande problema della sofferenza del giusto così risponde un Maestro: «È scritto: “Il cibo (tèref) Egli dà a coloro che Lo temono, ricorda in eterno il Suo patto” (Salmi 3, 5). Disse Rabbì Jeoshùa ben Levì: “Sbranamento (terùf) Egli ha dato a coloro che Lo temono, in questo mondo, però in futuro ricorderà eternamente il Suo patto”»[7]. Cambiando le vocali del termine tèref = cibo in terùf = sbranamento, il Maestro del Midràsh fornisce un’interpretazione totalmente diversa del verso, che gli consente di affermare che è vero che i giusti soffrono in questo mondo, ma il giusto sofferente avrà certamente la sua ricompensa nel mondo futuro.
Altro esempio: il Tempio è distrutto e non si può ottenere il perdono dei peccati perché non si possono portare i sacrifici. Dicono i Maestri: «Esiste un modo di espiazione analogo a quello dei sacrifici?» Rispondono: «Le opere buone»[8].
Ultimo esempio di Midràsh consolatorio. Si sa che Abramo ha dimostrato la massima fede in Dio con il cosiddetto sacrificio di Isacco. I Maestri capovolgono il discorso e affermano che l’importanza del «sacrificio di Isacco» non consiste nella fede assoluta di Abramo verso Dio, bensì in quella di Isacco, che era disposto a lasciarsi sacrificare a Dio. In questa maniera diviene lampante il paragone fra il sacrificio di Isacco e la generazione che sacrifica la propria anima a Dio, generazione che si vede massacrata da greci e romani, specialmente in quei suoi membri «osservanti scrupolosi della Legge».
In sostanza con questi metodi i Maestri cercano di dare una risposta ai problemi dell’epoca, dimostrando l’attualità della Torà.
Un altro pregio dell’opera dei Maestri del Midràsh è l’aver saputo usare un linguaggio efficace, fatto di racconti, dialoghi, aneddoti, proverbi, giochi di parole, ecc. con cui il dàrshàn (Maestro del Midràsh) sapeva attirare con piacere le masse mentre insegnava le tradizioni ebraiche. Le fonti riferiscono che le riunioni erano affollate quando veniva a parlare un Maestro del Midràsh. «I Maestri del Midràsh» scrive l’Heinemann «non affrontano i problemi in maniera schematica e filosofica… bensì in maniera concreta e reale. L’idea astratta è resa con una immagine viva e diretta. Cosi, riguardo al problema del bene e del male, non sono formulate chiaramente le risposte o non vengono fornite definizioni precise, ma si interviene attraverso un esempio: «Il Creatore non esamina dei vasi malandati sui quali è sufficiente un piccolo colpo perché si rompano. Che cosa esamina? Vasi solidi, che, anche se li batti più volte, non si rompono. Così Iddio non mette alla prova i malvagi bensì i giusti»[9]. Con tali risposte allegoriche si voleva affrontare il problema della sofferenza del giusto, affermando che proprio perché i giusti sono tali, Iddio li mette alla prova, li fa soffrire, perché vuol dimostrare al mondo che essi non servono il Creatore per ricevere una ricompensa. Queste considerazioni introducono un altro problema: bisogna evitare l’errore di considerare l’Haggadà, con il suo stile caratteristico, come una produzione ingenua e puerile, da non prendere troppo in considerazione.
I Maestri usano intenzionalmente un linguaggio popolare, attraente, ricco di parabole e di giochi di parole, per avvicinare una problematica complessa alla comprensione del popolo. L’Aggadà, nella forma scritta in cui ci è giunta, non è sempre di facile comprensione. Solo recentemente alcuni studiosi hanno affrontato ricerche sul linguaggio dell’Aggadà[10]. Il Talmud testimonia la serietà con cui veniva considerato il Midràsh: Rabbì Samlaj non insegnava il Midràsh a coloro che provenivano dalla Babilonia, e a quelli dei Sud, perché essi erano superbi e avevano poca conoscenza della Torà.
In quale cornice nasce l’Aggadà? Nella Sinagoga[11] (più tardi anche nelle scuole). Era qui infatti che la gente si riuniva di Sabato, per sentire il maestro del Midràsh; e alla popolazione locale si aggiungevano persone provenienti da villaggi e cittadine vicine. Le derashòt (omelie) avevano uno schema fisso, composto da quattro parti:
1) Apertura: il Maestro introduce il discorso citando un verso degli Agiografi.
2) Problema: proposta di un quesito, eventualmente riguardante una singola mitzvà.
3) Derashà: discorso midrashico vero e proprio. Nel rispondere al problema, il Maestro introduce un’aggadà, collegata almeno con un verso biblico letto quel sabato (Parashà).
4) Semplificazione: risolto il quesito posto, il darshàn conclude il discorso con parole di consolazione[12].
Il darshàn aveva in genere due assistenti (meturghemanìn, lett. traduttori): uno lo aiutava nella citazione delle fonti, l’altro declamava a alta voce le parole del darshàn (che in genere era anziano), che venivano pronunciate a bassa voce. Quando il pubblico era particolarmente numeroso, vi erano vari assistenti. Si racconta che Rav Unnà aveva ben tredici assistenti: quando finiva la sua derashà, tutto il pubblico si alzava e, scossi i mantelli, si levava tanta polvere che oscurava perfino il sole: in quel momento tutto il popolo d’Israele esclamava: «Si è alzata la Jeshivà (scuola) di Unnà il Bavlì (Babilonese)»[13]. Secondo Josef Heinemann è invece difficile stabilire una forma precisa di struttura e costruzione haggadica, in quanto la maggior parte del materiale che possediamo è certamente opera rielaborata da successivi redattori[14].
C’è da tener conto inoltre che i midrashìm prima di essere stati scritti, erano trasmessi oralmente, per cui al momento della stesura certamente sono state apportate delle modifiche. Sembra tuttavia un dato costante il fatto che molto spesso i Maestri inizino con la citazione di un verso degli Agiografi[15]. L’abilità del darshàn consiste appunto nel saper sviluppare il suo discorso, creando un legame tra il verso scelto degli Agiografi e la parashà della settimana, suscitando così tra l’uditorio l’attesa di quale nesso il Maestro proponga. Il talento del darshàn consiste anche nel saper tenere sospeso il pubblico e destarne la curiosità. Da ciò si deduce che vi erano Maestri e Maestri, padroni in diverso grado dell’arte oratoria.
Talvolta avveniva che l’interesse del pubblico si assopiva, anche se il Maestro era un grande Rav, come Rabbì Akivà. In simili casi, il darshàn ricorreva anche all’improvvisazione, basata sulla sua preparazione, per escogitare qualche idea inaspettata.
Una volta mentre Rabbì (Rabbì Jehudà Hannasì, compilatore della Mishnà) svolgeva la derashà, la gente stava per assopirsi; cercò di svegliarli, cambiando subito discorso, e affermando improvvisamente: «È successo una volta che in Egitto una donna partorisse tutti insieme 600.000 bambini». In quel momento ovviamente la gente si ridestò incuriosita dallo strano ed inconsueto quesito. La risposta era poi: «Questa donna era Jochèved, la quale partorì Mosè, che equivaleva come grandezza a 600.000 persone messe insieme»[16].
I Maestri si distingueranno oltre he per dottrina anche per la loro specializzazione nel campo dell’Halakhà o dell’Aggadà. A Rabbì Akivà, espertissimo in Halakhà, talora veniva rimproverato il suo sconfinamento nell’Aggadà: «Akivà, che cosa hai a che fare tu con l’Aggadà? Taci e vai a occuparti di piaghe e di problemi di purità (problemi strettamente halakhici, riguardanti cioè la normativa)».[17] Viceversa Rabbì Elazàr non si impegnava in Halakhà, ma era considerato un esperto nel campo della Aggadà, al punto che nella generazione seguente, di lui dice Rabban Gamlièl, dopo una spiegazione midrashica: «Tuttavia abbiamo bisogno del Modai» (= si sente ancora, non è stata ancora colmata la mancanza del suo insegnamento)[18].
Ci si potrebbe domandare: con quale licenza il darshàn si permette di dare un’interpretazione, che è spesso in palese contrasto con il significato letterale del testo? In realtà anche l’interpretazione midrashica non è affidata all’arbitrio dell’interprete. Secondo una Baraità di Rabbì Eliézer ha-ghelilì, ben 32 sono i metodi secondo i quali la Torà può essere interpretata midrashicamente. Afferma l’Heinemann: «Per i nostri Maestri erano ovvii tre principi, ognuno dei quali costituisce la base del successivo:
1) bisogna interpretare tutti i piccoli particolari dei testi sacri con rigorosa precisione;
2) anche i particolari insegnano qualche cosa;
3) «Tutte le parti del discorso (lettere, parole, versetti, brani biblici) vanno interpretate – non solo secondo la continuità degli argomenti, come tutti i documenti umani, ma, oltre – all’insegnamento che è determinato dalle continuità degli argomenti – rimane in essi una indipendenza completa e la possibilità illimitata di formulare associazioni»[19].
Dunque anche ogni minima aggiunta al testo, anche di singole lettere o di parole o di forme atipiche (singolare al posto del plurale) e simili, possono costituire la base per l’interpretazione midrashica. Ad esempio riguardo al faraone e alla sua gente che affonda nel mare è detto (Esodo 15, 1): «… e il cavallo con il suo carro affondò nel mare». Domanda il Midràsh: «Forse il faraone aveva solo un cavallo e un cocchiere? Non è scritto “E prese 600 cocchi scelti?” (Esodo 14, 7). Ma per insegnarti che di fronte a Dio tutti erano come un solo cavallo e un solo cocchiere»[20].
Si può aggiungere ancora che qualche metodica trova già un cenno nella Torà e i Maestri non fanno altro che applicarla a altri casi o ne allargano il concetto in altra forma. Per esempio la Torà stessa talvolta fornisce spiegazioni di nomi e di personaggi e di alcune località20. I Maestri estendono tale metodica anche a nomi che non sono spiegati: così il monte Sinai, dovrebbe il suo nome al fatto che vi furono compiuti dei miracoli per Israele (attraverso un gioco di parole Sinai – Nes = miracolo). Parimenti circa le parabole e le rassomiglianze, la stessa parabola biblica è adoperata con l’aggiunta di altri significati.
Così il profeta Geremia paragona Israele ad un’ulivo fiorente adorno di magnifici frutti (Geremia 5, 9). Nel Talmud è scritto: «Rabbì Jeosciua ben Levì disse: Perché Israele è paragonato a un ulivo? Per dirti, come all’ulivo le foglie non cadono né di estate né d’inverno, così il popolo d’Israele non sarà mai annullato né in questo mondo,nè nel mondo futuro»21.
Quindi, come confermano alcuni studiosi, i Maestri possedevano per tradizione orale la chiave del metodo interpretativo midrashico. Per cui è più corretto parlare semplicemente di un allargamento, di sviluppo, di un’evoluzione di concetti e di metodo baggadico che non di un radicale innovamento. Tuttavia si può anche sostenere la tesi secondo la quale, ferma restando la base di una tradizione precedente, l’evoluzione della Aggadà, considerata nel lungo arco di secoli in cui è avvenuta, costituisce in sé un fatto nuovo. A volte è difficile decidere se è nato prima un certo Midràsh al quale è stato poi trovato un appoggio nel testo biblico, oppure se, attraverso l’interpretazione biblica, si è arrivati poi alla formulazione di quel Midràsh.
In realtà, come afferma l’Urbach[21], il fatto è di un’importanza relativa; fondamentale e piuttosto la conferma che fra le idee dei Maestri e il testo ci fosse in sostanza una tale concomitanza da far ritenere che spesso, sia il motivo, sia l’interpretazione, fossero nati contemporaneamente. Tale legame con il testo della Torà ha fatto si che, nonostante diversità di forma e lontananza di luogo, l’Haggadà abbia conservato una certa unitarietà.
È necessario infine accennare alla problematica costituita dalla differenza fra spiegazione letterale (peshàt) e interpretazione allegorica (midràsh). Come distinguere se una interpretazione esegetica al testo è peshàt o midràsh? (Tale problema non sussiste riguardo ai midrashìm raccolti nei testi di Midràsh, ma si presenta soprattutto riguardo alla esegesi biblica in genere). La distinzione non è sempre facile. Si può tuttavia dire che una spiegazione, non rientra nella categoria del peshàt (senso letterale del verso), quando, la spiegazione del verso biblico, non risponde pienamente alle difficoltà sintattiche, stilistiche, linguistiche, che presenta il verso o tutto il contesto del racconto. Ogni Midràsh non è tuttavia necessariamente lontano dal peshàt, ma infatti vi sono midrashìm, che sono lontani dall’intenzione e dalla spiegazione piana e semplice del verso, altri invece propongono una spiegazione che a prima vista sembra estranea al verso, ma che in realtà ne coglie il senso più profondo.
Scrive N. Leibovitz: «I midrashìm dei Maestri sono molto differenti l’uno dall’altro per la loro forma letteraria, per ciò che concerne il loro legame con il verso, e per il loro scopo. Vi sono midrashìm che spezzano la costruzione sintattica del verso e ricostruiscono da frammenti di questo mondo distrutto, un mondo nuovo e affascinante; tali midrashìm sono belli e straordinari… Questi si sono allontanati intenzionalmente dal verso. Ve ne sono altri che restano aderenti alla lingua, combaciano pure con l’ordine delle parole e con la costruzione sintattica, ma contrastano con i versi precedenti o seguenti, o comunque non si inseriscono nel contesto; ma anche questi non sono d’aiuto per colui che studia la Bibbia, intendendo comprendere ogni verso nella sua parte organica … Però ci sono i midrashìm, il cui scopo a priori è di venire in aiuto alla comprensione di un brano, di un racconto profetico, e sono assai profondi in quanto riescono a scorgere nelle righe e tra le righe, e in particolare aiutano il lettore a completare il messaggio con la propria fantasia … attraverso un racconto aneddotico, attraverso una parabola o un dialogo, che trasformano l’astratto in concreto, il generico in particolare, l’universale in qualcosa di intimo. Questo tipo di mídrashim è il più adatto per insegnare la Bibbia, quando il lettore ricerchí non solo il significato concettuale, ma anche l’identificazione sentimentale»[22].
Quindi, come abbiamo sopra accennato, ci sono tre tipi di midrashìm: quelli molto lontani síntatticamente dal verso, quelli più vicini, altri più vicini ancora, paragonabili quasi al peshat (interpretazione letterale). Il discorso è lungo e complesso, ma, per attenersi all’essenzialità di una introduzione, deve terminare qui. Con queste pagine mi auguro di aver fornito un avviamento alla comprensione del pensiero e della mentalità dei Maestri del popolo ebraico espressi in un lasso di tempo che supera il millennio.
[1] Per un inquadramento riassuntivo e critico delle varie correnti di pensiero dei Maestri è utile consultare l’opera fondamentale di E.E. URBACH: Hazàl, Pirqé Emunòt Vede’ot (La fede e il pensiero dei Maestri) Ed. Magnes, Gerusalemme, 1971, 2a ediz.
[2] Talmud Jerushalmì, Horajot, Cap. 3, Halakhà 5.
[3] V. voce Midràsh di Umberto Cassuto nell’Enciclopedia Treccani.
[4] I libri in cui tali risultati sono esposti.
[5] Sifrì, fine Parasbat ‘Eqev.
[6] Per es. riguardo a Noè è scritto: «Lo chiamò dicendo: questi ci consolerà nel nostro lavoro e nel travaglio delle nostre mani.» (Genesi, 5,29). Si sa che il nome Noè (Noach in ebraico) deriva dalla radice Nuach che vuol dire aver quiete, riposo; viceversa «ci consolerà» («jenachamennu» in ebraico) deriva dalla radice Nacham; perché ci sia una correlazione linguistica fra la motivazione e il nome dato sarebbe stato necessario chiamarlo Nacham e non Noach. Quindi ci troviamo di fronte a una tipica interpretazione midrashica.
[7] Beresbit Rabbà, 40.2.
[8] Avot Derabbì Natan, Nuschà Alef, Perék Dalet (Cap. 4).
[9] Jitzchak HEINEMANN, Darchè Habaggadà, Gerusalemme, ed. Magnes, 1970, 3a ed., pagg. 15-16.
[10] v. R. BONFIL, «Saggio di analisi strutturale in Haggadà», in Miscellanea ai studi in memoria di Dario Disegni, Istituto di studi ebraici, Scuola Rabbinica «S.H. Margulies-Disegni», Torino, 1969, pagg. 35-37.
[12] E. Z. MELAMED, Parashjiot me-haggadot ha-tannaim (brani di Haggadot dei Maestri della Míshnà), ed. Kirjat Sefer, Gerusalemme, 1961, pag. 21.
[13] Talmud Babilonese, Ketubòth, 106b.
[14] Josef HEINEMANN, Derashotb Batzibur Bitkufat Ha-Talmud (Omelie in pubblico nel periodo talmudico), ed. Bialik, Gerusalemme, 1970, pagg. 14-15.
[15] La scelta degli Agíografi, secondo Josef Heinemann, era dettata da due motivi: a) perché libri sapienziali; b) perché presentano dei versi brevi e incisivi (OP. cit, pag. 14).
[16] Scir ha-scirim Rabbà, 1, 64.
[17] Sanbedrin, 67 b.
[18] Sciabbat, 55 b.
[19] Jitzchak HEINEMANN, op. cit., pag .96.
[20] Mechilta De Rabbì Ishmael, Shira, Parashà Beth, pag. 124. 20 v. p. es. Noè (Genesi 5, 29), Beer Sceva (ibid. 21, 31). Menachot, 53 b.
[21] E. E. URBACH, in Encyclopedia Haivrit – voce Haggadà.
[22] Nehama LEIBOVITZ, Oraat hahaftarà – iom scenì shel Rosb hashana – (l’insegnamento dell’aftarà del 20 giorno di Rosh-Hashana) Maynot alef, ed. Makhlaka Letarbut Toranit, Gerusalemme, 1967, pagg. 1634.