La parashà di Mikkez è nota soprattutto per i sogni fatti dal Faraone e l’interpretazione che ne dà Giuseppe che prevede i sette anni di abbondanza e i sette anni di carestia. Sarà proprio la carestia che fornirà l’occasione per l’incontro dei fratelli con il viceré – Giuseppe. Yeshayau Leibovitz analizza questa parashà da vari punti di vista, ma considera come suo punto centrale l’attenzione dedicata all’amministrazione dello Stato egizio.
Scrive Leibowiz (Sheva shanim shel sihot al parashat hashavua, pag. 159)
Il punto centrale della Parashà è l’attenzione dedicata all’amministrazione dello Stato, intesa come strumento per rispondere alle necessità vitali della popolazione; Il Faraone dà a Giuseppe la piena autorità di mettere in pratica la riforma amministrativa, cosa che è legata a procedure complesse come l’imposizione di tasse, l’organizzazione dell’agricoltura ecc.
Dal punto di vista storico sappiamo che la maggior parte della terre sulle quali dominava il Faraone era di sua proprietà. Nella parashà leggiamo che vengono emanati dei decreti di emergenza, attraverso i quali il potere esigerà delle tasse che andranno alle casse dello stato: un quinto di tutti i prodotti saranno destinati al potere in modo da potersi preparare per gli anni di carestia. Nel midrash troviamo un’osservazione interessante e che ha un significato attuale e che non si riferisce esclusivamente all’Egitto, o solo ai momenti di crisi, ma a cosa si debba intendere per un governo corretto e un’amministrazione rispettabile in ogni luogo e tempo.
Qual è la proposta di Giuseppe: in vista della catastrofe che si sarebbe abbattuta sull’Egitto? Il Faraone deve imporre una tassa pari a un quinto di tutti i prodotti e il testo della Torà usa queste parole (Genesi 41, 34): יַעֲשֶׂ֣ה פַרְעֹ֔ה וְיַפְקֵ֥ד פְּקִדִ֖ים עַל־הָאָ֑רֶץ וְחִמֵּשׁ֙ אֶת־אֶ֣רֶץ מִצְרַ֔יִם בְּשֶׁ֖בַע שְׁנֵ֥י הַשָּׂבָֽע
Il Faraone operi, nomini dei commissari nel paese e, durante i sette anni di abbondanza, requisisca la quinta parte dei prodotti della terra d’Egitto.
La parola Ya’asè sembra inutile e infatti il midrash dice: Giuseppe suggerisce al Faraone di iniziare lui a operare lui stesso donando il quinto dei propri averi e poi nomini dei commissari che si occupino di esigere le tasse. Vedendo che il capo è pronto a fare per primo la sua parte, ognuno sarà molto più propenso a dare del proprio e non cercherà scuse per evitare di contribuire e non farà imbrogli.
Da qui un messaggio importante per tutti i governi, indipendentemente dal luogo e dall’epoca: non c’è niente di più convincente dell’esempio. Resh Lakish diceva “Abbellisci te stesso e poi abbellisci gli altri”. Quindi prima di chiedere agli altri di dare bisogna dare in prima persona.
Questa proposta di Giuseppe può essere applicata a una società di contadini, ma come potrebbe essere applicata oggi? Non c’è dubbio che una società in cui il capo è un evasore fiscale, il governo non ha l’autorità morale per chiedere di fare la propria parte.
La proposta di Giuseppe sembra elementare: se si vuole affrontare e risolvere una crisi è necessario essere previdenti, senza aspettare i sogni o i segnali che vengono dall’alto, e quando questo fosse impossibile, la soluzione è quella di “impegnare” i beni accumulati in passato: quindi evitare di indebitare le prossime generazioni con debiti che potrebbero travolgerli.
Di fronte alla crisi in cui versa l’Italia con l’indebitamento di somme ingenti in cui ha trascinato le prossime generazioni – solo in parte dovute all’effetto dell’epidemia Covid 19 – cosa potrebbe proporre oggi Giuseppe?
Investite i beni culturali accumulati nel passato! Questi sono talmente numerosi che potrebbero essere noleggiati mediante un concorso e dati a persone che hanno dimostrato di poter valorizzare la “merce” che producono e vendono. Imprenditori capaci potrebbero valorizzare i beni inutilizzati: pensiamo alle cantine di Musei in cui stazionano opere importanti che nessuno può vedere, ma anche a opere d’arte presenti su tutto il territorio e che nessuno pubblicizza in modo dovuto, pensiamo a località turistiche di alto valore culturale, in cui l’ingresso è gratuito e non danno alcun reddito: un progetto del genere comporterebbe anche la creazione di posti di lavoro e un flusso turistico controllato.
Investite utilizzando i beni accumulati dagli italiani negli ultimi anni dopo la seconda guerra mondiale e i capi diano il buon esempio!
In poche parole: le generazioni precedente hanno investito nel futuro creando beni culturali enormi, ora dobbiamo utilizzarli e continuare a fare altrettanto per le generazioni future.
Anche le Comunità ebraiche italiane potrebbero utilizzare i propri beni culturali proponendo un loro noleggio (anche parziale): le sinagoghe italiane sono tra le più belle esistenti al Mondo e molto spesso non sono conosciute e non vengono neanche visitate. I proventi ovviamente dovrebbero essere utilizzati per diffondere il bene culturale per eccellenza del popolo ebraico e cioè la Torà.
Il popolo ebraico e la Comunità ebraica Italiana hanno creato prodotti culturali e spirituali importanti: così come noi oggi godiamo di quanto fatto dai nostri antenati, così pure noi abbiamo il dovere di lasciare ai nostri figli una società sana sul piano sia morale che economico.
Ha detto Rabbi Yochanàn: ….. (Honì hame’aghel) caminava per strada e vide un uomo che metteva a dimora un carrubo. Gli disse: tra quanti anni darà frutti? Gli rispose: tra settanta anni. Gli rispose: pensi forse che potrai vivere settanta anni per mangiarne? Gli rispose: io ho trovato il mondo con i carrubi, così come i miei padri hanno piantato per me, così anche io pianterò per i miei figli. (TB Ta’anit 23a)
Per un futuro migliore, investiamo oggi, utilizzando anche il passato.
Scialom Bahbout
Yeshayahu Leibowitz ( Riga 1903 – Gerusalemme 1994)
Laureato a Berlino e Basilea. Professore in Biochimica e chimica organica e neurofisiologia all’Università di Gerusalemme. Ha scritto vari libri sull’ebraismo. In italiano sono disponibili un commento alle massime dei Padri, una raccolta di Saggi su Ebraismo e Stato d’Israele, una raccolta di articoli sulle feste. Ha pubblicato: Gli otto capitoli di Maimonide, Sette anni di commenti sulla Parashat hashavua, Conversazioni su La Mesillat Yesharim (Il sentiero dei Giusti di Rabbi Moshe Haim Luzzatto). Gli ultimi due anni della vita li ha dedicati a lezioni sul Meshekh Chochmà di Rabbi Simcha Dvinsk.
Leibowitz era un ebreo osservante, pur avendo opinioni controverse in materia di halakhà. Secondo Leibowitz l’unico scopo dei comandamenti religiosi è obbedire a Dio e non ricevere alcun tipo di ricompensa in questo mondo o nel mondo a venire. L. sosteneva che le ragioni dei comandamenti religiosi erano al di là della comprensione dell’uomo: qualsiasi tentativo di attribuire un significato emotivo all’esecuzione delle mitzvot è irrilevante e fuorviante, e simile all’idolatria.
Dopo la Guerra dei sei giorni e la conquista dei territori della Cisgiordania assunse posizioni critiche sull’occupazione dei territori in cui viveva una popolazione araba, mettendo in guardia l’establishment dalla possibile disumanizzazione che comportava l’occupazione.
La sorella Nechama è nota per i suoi numerosi commenti sulla Torà.