Romanzo storico. Il delizioso testo di Enrico Castelnuovo (1908) salvato dall’oblio e ripubblicato da Interlinea. Una famiglia della borghesia ebraica italiana, 50 anni prima dei «Finzi Contini» di Bassani
Tommaso Munari
L’articolo 1 dello Statuto albertino (4 marzo 1848) sanciva: «La Religione Cattolica, Apostolica e Romana è la sola Religione dello Stato. Gli altri culti ora esistenti sono tollerati conformemente alle leggi». E, a scanso di equivoci, la Legge Sineo (19 giugno 1848) precisava: «La differenza di culto non forma eccezione al godimento dei diritti civili e politici, ed all’ammissibilità alle cariche civili e militari». Così, prima ancora che si compisse l’Unità d’Italia, l’emancipazione degli ebrei veniva formalmente riconosciuta dalla legge. Non è un caso, del resto, che la partecipazione ebraica alle campagne risorgimentali del 1859, 1866 e 1870 sia stata tanto ampia e attiva. Ma una cosa è l’emancipazione (il riconoscimento di diritti civili e politici), un’altra l’assimilazione (l’assorbimento di modelli culturali e sociali). E il nesso tra le due, come ci racconta Enrico Castelnuovo nel romanzo I Moncalvo (1908), è più ambiguo e complesso di quanto possa apparire a prima vista.
Clara, Giacomo e Gabrio Moncalvo sono nati in una famiglia ferrarese di fede ebraica e vivono a Roma al principio del Novecento. L’emancipazione li ha resi laici, borghesi, italiani. Ma assai diversi l’uno dall’altro. La primogenita Clara ha dedicato la sua vita ai fratelli e alle loro famiglie, vivendo alternativamente con l’una e con l’altra. Giacomo, il secondogenito, si è votato allo studio della matematica, divenendo, a costo di alcune rinunce, un rispettato cattedratico. Gabrio, poco incline allo studio ma molto agli affari, si è consacrato alla finanza, scalando i vertici della Banca internazionale. Ugualmente diversi sono i cugini Giorgio e Mariannina, figli rispettivamente di Giacomo e Gabrio: l’uno dedito, come il padre, alla scienza positivista, l’altra proiettata, grazie al padre, nella mondanità più sfrenata. E proprio Mariannina, di conturbante e magnetica bellezza, è il motore delle passioni che animano questo delizioso romanzo umbertino, strappato all’oblio dalla curatrice Gabriella Romani (anche coautrice della traduzione inglese) e dalla casa editrice Interlinea.
Più ancora che per la sua dignità letteraria (certificata niente meno che da Benedetto Croce), I Moncalvova oggi letto, o riletto, per il suo valore storico. Cinquantacinque anni prima che Giorgio Bassani pubblicasse Il giardino dei Finzi-Contini (1963) e ottantacinque prima che Clara Sereni desse alle stampe Il gioco dei regni (1993), Enrico Castelnuovo (1839-1915) calava i suoi lettori nel contesto sociale, del tutto inconsueto per la letteratura del tempo, della borghesia ebraica italiana. Ossia il milieu nel quale visse egli stesso, fiorentino di nascita e veneziano d’adozione, prima impiegato nell’impresa commerciale di un parente, poi giornalista di cronaca politica e culturale e infine professore alla Scuola superiore di commercio di Venezia (che diresse per un decennio fino al pensionamento). In quest’ultima veste scrisse un fortunato manualetto di istituzioni commerciali per la «Biblioteca Vallardi» (1893), a cui però non arrise il successo delle sue opere narrative, specialmente quelle pubblicate dall’amico editore Emilio Treves. Come, appunto, I Moncalvo.
I Malavoglia israeliti? Non proprio. I Buddenbrook italiani? Nemmeno. Anche se tutti e tre i romanzi descrivono la trasformazione molecolare di una famiglia sullo sfondo dell’unificazione di una nazione. Quella dei Moncalvo, intimamente e convintamente italiana, si trova a dover affrontare un particolarissimo conflitto di lealtà, quando Mariannina decide di convertirsi al cattolicesimo per sposare il principe Cesarino Oroboni, ultimo ed esangue esponente della più pura aristocrazia nera. In casa Moncalvo s’accende il dibattito: a un estremo la posizione di Gabrio (e della moglie Rachele, malata di ambizione e vanità), secondo cui gli ebrei sono un «anacronismo», adatti solo a «rinsanguare le sfibrate aristocrazie occidentali che hanno poi più ragioni di vivere perché hanno radici profonde nella terra, nella storia europea … mentre noi siamo nomadi»; all’altro quella di Giacomo (e del figlio Giorgio, esacerbato dall’amore per la cugina), secondo cui le «conversioni utilitarie sono uno degli spettacoli più tristi e più vili del nostro tempo», un tradimento non tanto della fede avita quanto della stessa morale religiosa.
L’adesione di Enrico Castelnuovo alla posizione di quest’ultimo è fuori discussione: Romani ne trova peraltro conferma in un veemente passo delle sue memorie inedite, così come rintraccia una testimonianza del suo agnosticismo in una lettera del 1899 al cognato e futuro primo ministro Luigi Luzzatti. Il narratore esterno, al contrario, presenta i personaggi con onnisciente obiettività e … imparziale ironia. Le sole figure che sembra non amare sono quelle di monsignor de Luchi, «inframmettente» prelato che agisce da sensale nel matrimonio contratto fra i Moncalvo e gli Oroboni, e del dottor Lòwe, cupo apostolo del sionismo che auspica non solo uno Stato degli ebrei (o, nella peggiore delle ipotesi, «una colonia»), ma «il trionfo finale della razza». Il personaggio per cui Castelnuovo ha invece più simpatia è l’enigmatica, esuberante Mariannina, metà sfinge e metà sirena. La curatrice scorge in lei un’antesignana dell’opalescente Micol Finzi-Contini (per la quale Bassani inventò la splendida metafora dei «lattìmi») e a ragion veduta: di entrambe sappiamo cosa dicono e fanno, ma non cosa provano e desiderano.
Mariannina, si diceva, è il motore del romanzo; ma anche il suo traguardo. Nell’ultima, aspra discussione col fratello Giacomo, che gli rinfaccia il suo stile di vita, Gabrio afferma: «Voglio per me, voglio per mia moglie, per la mia figliuola una posizione sociale che sia al di sopra delle fluttuazioni della ricchezza … Ecco il motivo pel quale approvo il matrimonio e la conversione della Mariannina, ecco perché, presto o tardi, la Rachele ed io abbracceremo la religione della maggioranza». Per Gabrio, l’emancipazione non basta e l’assimilazione può compiersi solo attraverso la conversione, anche a costo di compromettere i suoi rapporti col banchiere Rothschild. In questa affermazione risiede l’essenza del romanzo, ma anche un implicito dilemma: sono più ebrei o più borghesi questi Moncalvo.
Il Sole 24 Ore, 18.8.2019