Il popolo d’Israele che esce dall’Egitto non cerca vendetta contro i suoi oppressori, ma guarda avanti verso la Terra Promessa. Questa visione è in contrasto con l’ethos dei nostri nemici, adottato dall’Occidente progressista, che si crogiola nel passato e perpetua la schiavitù e la condizione di profugo
David Kurtzweil – 11 aprile 2025 – Makor Rishon
Il fenomeno della schiavitù è antico quanto l’umanità. Testimonianza di ciò si trova non solo nella Torà, che tratta la schiavitù come una realtà conosciuta e familiare, ma anche nell’antico Oriente. Già nel Codice di Hammurabi, del XVIII secolo a.C., vi sono leggi che regolavano i diritti degli schiavi. 2.300 anni dopo Hammurabi, anche il diritto romano sancì la schiavitù nella legge. Questa legislazione costituì la base per la continuazione della schiavitù anche nel periodo post-classico. L’abolizione della schiavitù è stata una conquista tardiva del mondo moderno, e di fatto nella costituzione americana la schiavitù fu vietata solo a metà del XIX secolo.
Ogni popolo ha la sua storia di schiavitù; per alcuni è una storia di padroni, per altri di servi. La cultura mondiale è piena di storie di schiavi. La maggior parte di esse si è conclusa in tragedia, in alcune il destino degli schiavi è migliorato e hanno ottenuto la libertà. Il famoso libro di Harriet Beecher Stowe, “La capanna dello zio Tom“, che descrive le sofferenze degli schiavi e le torture che hanno subito, fu pubblicato per la prima volta nel 1852, fece scalpore e ottenne subito un’eco straordinaria. Alcuni dubitarono del grado di verità e autenticità delle descrizioni, ritenendo che la stimata scrittrice avesse dato ali alla sua immaginazione creando un dramma dal nulla. Tuttavia, circa un anno dopo la pubblicazione del libro, uscì l’autobiografia dello schiavo liberato Solomon Northup, “12 anni schiavo“, che confermò di prima mano la maggior parte delle descrizioni de “La capanna dello zio Tom”. Tra gli storici americani è comune ancora oggi considerare il libro “12 anni schiavo” un documento attendibile di valore storico.
L’Haggadà di Pesach è anch’essa una storia di schiavitù, la schiavitù del popolo ebraico e la storia della sua liberazione. Anche nella storia della schiavitù ebraica ci sono descrizioni di torture e tirannie dei padroni, e nelle parole dell’Haggadah: “Gli egiziani ci maltrattarono e ci afflissero“. Ispirandosi al libro di Northup, si potrebbe intitolare l’Haggadah anche come “210 anni di schiavitù“. In questo articolo vorrei evidenziare una distinzione che caratterizza la storia della schiavitù ebraica rispetto alle altre storie di schiavitù universali. Grazie a questa distinzione, vorrei illuminare un ulteriore aspetto del significato della notte del Seder e indicare anche un collegamento attuale.
La scoperta di Colombo
María Magdalena Campos-Pons è un’artista pluripremiata, nata a Cuba ed emigrata negli Stati Uniti. Campos-Pons discende da una famiglia di schiavi neri. Come portatrice di un’eredità familiare di schiavitù, la questione della schiavitù ha trovato un’espressione significativa nelle sue opere. In questi giorni si tiene una mostra dei suoi lavori al museo Paul Getty in California. Per la pubblicità della mostra è stata scelta una delle sue opere più espressive e potenti. Si tratta di un’opera del 2003 intitolata “The Calling“. Quest’opera è un dittico che mostra una donna nera con piccole linee bianche su tutta la pelle e il viso. Queste linee creano l’associazione con una malattia della pelle o forse con ustioni, non nere né rosse ma bianche. L’impressione che emerge da questa immagine è di una critica forte e acuta al ruolo dell’uomo bianco nella vita dei neri. Secondo questa interpretazione, nell’esperienza dell’uomo nero, l’uomo bianco è come una malattia che lo colpisce.
Anche se non era questa l’intenzione dell’artista, queste sono le correnti che oggi soffiano da movimenti come Black Lives Matter. Nella cultura americana contemporanea soffiano venti cattivi che fanno i conti con il difficile passato anche attraverso la violenza, il silenzio e pretese di supremazia della razza nera. La lotta contro il fenomeno storico della schiavitù e la repulsione verso chiunque vi fosse coinvolto trovano sfogo anche nella distruzione e nella demolizione di statue e monumenti di chiunque sia considerato problematico da questi movimenti. In un’atmosfera culturale del genere, era prevedibile che si spolverasse il libro “12 anni schiavo” e lo si trasformasse nel 2013 in un film. Nel 2019 il New York Times ha fatto di più con il “Progetto 1619” (l’anno dell’arrivo dei primi schiavi neri in America), che cerca di fare della schiavitù il cuore dell’esperienza americana. Parallelamente, si sono sentite sempre più richieste da parte dei neri per ricevere un risarcimento per la schiavitù dei loro antenati storici, fino a quando alla Camera dei Rappresentanti americana, sotto il controllo dei Democratici, sono iniziate le procedure per esaminare una proposta di legge per il risarcimento della schiavitù.
Non c’è dubbio che il fenomeno della schiavitù sia spregevole e riprovevole; non c’è dubbio anche che la discriminazione razziale contro l’uomo nero sia un marchio di infamia per la società umana. In effetti, anche ai nostri giorni dobbiamo schierarci fermamente contro ogni manifestazione di razzismo. Tuttavia, la domanda è come dovremmo affrontare nel presente ingiustizie e fenomeni riprovevoli avvenuti nel passato, tenendo presente che sia gli esecutori che le vittime non sono più in vita.
Come detto, nella società americana esistono correnti importanti che scelgono di cancellare ogni traccia storica di chi considerano riprovevole. Così, ad esempio, il “Columbus Day” è una delle festività federali ufficiali negli Stati Uniti. Questa festa, celebrata da molti anni, esalta il giorno della scoperta dell’America nel 1492 da parte di Colombo. Ma ora, nei venti progressisti, tra molti che in passato lo celebravano cresce la tendenza a cancellare questa festa e ogni suo riferimento, trasformandola nel “Giorno dei nativi americani“. La loro idea è che l’arrivo di Colombo ha causato l’uccisione degli indigeni che vivevano già da tempo nel continente. Così, Colombo è diventato agli occhi di molti una persona non grata, e persino la sua statua a Richmond, in Virginia, è stata data alle fiamme e gettata in un lago. Se in passato Colombo ha scoperto l’America, molti americani sentono di aver ora scoperto Colombo.
Un regolamento di conti senza fine
Se lasciamo l’America e torniamo nel nostro quartiere, i nostri vicini gridano alla “Nakba” fatta ai loro padri quasi ottant’anni fa. Anche se adottassimo per amore della discussione la falsa narrativa araba, si porrebbe comunque loro la stessa domanda nazionale e sociale a cui ogni popolo deve rispondere: come è giusto affrontare nel presente le calamità del passato? I palestinesi hanno sempre agito come i nuovi progressisti. Cercano di congelare per sempre il passato e di farlo dominare sul presente e sul futuro. Ecco perché perpetuano lo status di profughi fino alla fine dei tempi.
Nell’antica Repubblica Romana si verificarono tre guerre di schiavi, la più famosa delle quali è la guerra dei gladiatori guidata da Spartaco. Lo storico Prof. Keith Bradley sostiene nei suoi studi che la motivazione iniziale delle guerre fosse la vendetta. Nel periodo moderno, la rivolta documentata degli schiavi iniziò all’inizio del XVI secolo. Gli schiavi che riuscirono a fuggire dai loro padroni si unirono in comunità chiamate comunità cimarroni. Anche tra le comunità cimarroni ci furono fenomeni di vendetta, non necessariamente diretti contro i diretti responsabili.
Di fronte ai numerosi movimenti sociali negli Stati Uniti che oggi trasformano la storia della schiavitù come un conto aperto con l’uomo bianco, di fronte alle guerre degli schiavi e alle comunità cimarroni che dopo la loro liberazione agirono per vendicarsi, e soprattutto di fronte a fenomeni universali di continue rese dei conti con ingiustizie passate i cui autori non sono più tra noi, e il conto viene fatto con discendenti innocenti – arriva la storia dell’Haggadàdi Pesach che propone un’alternativa diversa.
Il popolo ebraico ha sofferto in Egitto una dura schiavitù durata centinaia di anni, e alle sue levatrici fu ordinato di gettare i suoi figli nel Nilo. Nonostante ciò, quando il popolo ebraico esce dall’Egitto, cancella di fatto la storia egiziana come un conto nazionale aperto. Gli schiavi in uscita non perpetuano la loro condizione di profughi. Non sono vittime eterne; sono un popolo vivo con gli occhi rivolti a un futuro luminoso.
Non solo l’Haggadà non chiama a una vendetta eterna contro l’Egitto, ma la Torà impone persino un comandamento sorprendente contrario a ogni intuizione umana, e degno di attenzione: “Non avrai in abominio l’Egiziano, perché sei stato straniero nella sua terra” (Deuteronomio 23, 8). L’Haggadà inoltre non incoraggia la demolizione delle piramidi egiziane, nonostante il loro simbolismo. Agli angeli che volevano cantare quando gli egiziani annegarono nel Mar Rosso, il Santo, benedetto sia, disse: “Le opere delle mie mani stanno annegando nel mare e voi volete cantare?” (TB Sanhedrin 39a). La Torà inoltre proibisce addirittura di tornare in Egitto.
La storia degli schiavi ebrei crea un ethos secondo cui dalla crisi della schiavitù, e in effetti da ogni crisi, bisogna alzarsi e costruire e non crogiolarsi in essa per sempre. Il Talmud racconta che dopo la distruzione del Secondo Tempio, a causa dei profondi sentimenti di lutto e dolore, molti smisero di mangiare carne e bere vino, ma Rabbi Yehoshua discute con loro e ordina di non comportarsi così (TB Bava Batra 60b). Nelle sue parole e nelle sue motivazioni, Rabbi Yehoshua ribadisce l’ethos ebraico secondo cui anche in un momento di crisi, gli occhi sono sempre rivolti alla costruzione e al progresso, poiché crogiolarsi nel passato è una negazione e cessazione della vita. Anche il comandamento amorfo di cancellare Amalek viene spostato a un punto temporale utopico dopo il completamento dell’insediamento nella terra e la sconfitta di tutti i nemici. In altre parole, il progresso e la costruzione precedono la cancellazione di Amalek.
Ricordare e dimenticare
La memoria della storia dell’uscita dall’Egitto è fondamentale nella legge e nel pensiero ebraico. Ma questo ricordo è indirizzato solo a un pensiero costruttivo di ricordare i miracoli fatti al popolo d’Israele e di educare l’uomo alla compassione e all’amore per lo straniero, perché siamo stati stranieri in terra straniera. Il progetto di memoria ebraico nel suo complesso è destinato solo all’apprendimento di lezioni e intuizioni morali (come spiega anche il Chafetz Chaim nel suo testo Mishnà Berurà, all’inizio delle leggi del 9 di Av e degli altri digiuni). Nessun ricordo è indirizzato a sentimenti di rabbia o violenza, né all’oppressione nel presente. Il comandamento dell’Haggadà che in ogni generazione ogni persona deve vedere se stessa come se fosse uscita dall’Egitto, è destinato a produrre un valore educativo e imporre all’uomo obblighi morali, non a inculcare in lui un senso di vittima o incoraggiarlo a combattere contro i discendenti degli egiziani per correggere il torto storico.
L’Haggadà di Pèsach non descrive solo la schiavitù d’Egitto, ma ricorda anche che in ogni generazione si alzano contro di noi per annientarci. L’Haggadà porta il pesante carico storico del popolo d’Israele. Anche in questo conto storico non ci chiede di vendicarci, e si accontenta di rivolgersi a Dio che è colui che verserà la sua ira sulle nazioni che non lo hanno conosciuto. E nota, Lui e non noi. Nella meravigliosa frase “Versa la tua ira sulle nazioni che non ti conoscono“, è radicata l’idea di contenimento e raffinamento contro la vendetta umana. I sentimenti di vendetta sono giustificati e umani, ma quando si tratta di vendetta storica (a differenza della nostra attuale situazione di guerra, a cui questo articolo non è affatto rivolto) creano stagnazione e bloccano ogni progresso. Lasciare la vendetta a Dio lascia l’uomo libero da tutti i sentimenti di vendetta e mentalmente libero di costruirsi un nuovo mondo.
Per un popolo cresciuto con questo ethos dell’Haggadà di Pèsach, non c’è da stupirsi che dopo aver attraversato l’Olocausto europeo non abbia chiesto la creazione di un’organizzazione di profughi dell’ONU che per molti anni lo nutrisse e educasse i suoi figli. Al contrario, questo popolo si è alzato in piedi, ha preso il suo destino nelle proprie mani e ha stabilito uno stato indipendente di cui essere fieri. Questo popolo non porta nemmeno un conto storico aperto contro i discendenti dei suoi persecutori. Questo in totale contrasto con i nostri vicini che non hanno vissuto una catastrofe come l’Olocausto europeo, ma fino ad oggi sono rimasti imprigionati e bloccati nel loro passato, con la paralisi e l’atrofia di ogni orizzonte di progresso, e con ostilità e odio per generazioni di ebrei non ancora nati nel 1948.
L’Haggadà di Pesach crea quindi una costruzione sociale per il modo appropriato di affrontare la memoria storica. La storia dell’uscita dall’Egitto, come è organizzata nell’Haggadà di Pesach e nella tradizione rabbinica, non ci insegna solo cosa è giusto prenderne per sempre, ma anche e soprattutto cosa è giusto e appropriato lasciare al passato. Il prologo dell’Haggadà è “Eravamo schiavi in Egitto“, il cui scopo è inculcare la comprensione che l’Egitto è impresso solo come memoria educativa, ma la nostra principale aspettativa è diretta alla realizzazione del desiderio e dell’obiettivo, che sono l’epilogo dell’Haggadà: “L’anno prossimo a Gerusalemme ricostruita“.
Concluderò con il noto detto di Yigal Allon: “Un popolo che non conosce il suo passato, il suo presente è povero e il suo futuro è avvolto nella nebbia“. Nello spirito di questo articolo aggiungerò che le sue parole sono vere anche per un popolo “bloccato” nel suo passato. Anche per un tale popolo, il presente è povero e il futuro è avvolto nella nebbia. I nostri vicini lo dimostrano.
Avv. David Kurtzweil è esperto di diritto civile