Lo scrittore israeliano di fama mondiale, ospite a Taormina, interviene sul tema “padri – figli”, parla di Gerusalemme e della Sicilia: «Non siate succubi di una cultura che vi considera la parte povera dell’Italia. Siete e rimarrete anche voi culla di un’identità mediterranea che va preservata e coltivata»
Simone Centamore
«Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò». (Gen 22,2). Chiunque si sia trovato a prendere in mano la Bibbia e a leggerne il primo libro, si sarà certamente imbattuto in questa frase. Si tratta di una delle tante vicende che caratterizzarono la vita di un tale di nome Abramo. In particolare, non è altro che il preludio di ciò che da alcuni viene definito un mito, per altri è origine della “storia della salvezza”. Dietro tutto questo vi è un unico grande rapporto: il legame tra un padre e un figlio. Abraham Yehoshua, scrittore israeliano di fama mondiale, autore di ben 11 romanzi, svariati racconti e opere teatrali, ripercorre al TaoBuk di Taormina questa vicenda dal sapore mediorientale. La sua è certamente una visione laica (se non atea). Eppure, dietro le sue parole si nasconde una dura realtà: il mito del “legame di Isacco”, come ama definirlo il popolo ebraico, ancora oggi è alla base di un conflitto che va avanti da tempo.
UN PADRE. Abramo, considerato da tre religioni diverse il patriarca per eccellenza, può essere definito un innovatore. Lascia la sua terra, la casa di suo padre, gli idoli della sua tradizione nativa e si riveste di originalità. Al centro della sua missione uno scopo preciso: costituire un popolo che abbia a riferimento un unico Dio. Ma è proprio a questo punto che sorgono le difficoltà: come legare un gruppo di persone a una nuova realtà quale appunto una religione monoteista? Nella visione di Yehoshua la risposta è semplice: «la chiave è la paura». Abramo instilla in suo figlio Isacco il terrore che abbandonare il tetto paterno, e di conseguenza Dio, è punibile con la morte. Egli vuole evitare a tutti i costi che Isacco ripeta il suo gesto e lasci la loro casa. Così inscena quella che si può definire una commedia o un esperimento: «pone il figlio davanti al baratro della morte, lo offre in sacrificio al Signore, e nello stesso istante in cui sta per sferrare il colpo letale ecco che Dio appare per fermare la sua mano». Lo scrittore israeliano sottolinea come in realtà questo Dio non sia mai esistito. Il rapporto con il divino diventa mera “propaganda”. Questa presenza minacciosa e sconosciuta crea il “legame”: «Isacco è costretto, se non altro per timore, a seguire la volontà del padre e ad assecondarlo in questo suo programma».
UN FIGLIO. Isacco vive in questa storia una condizione di trauma costante. Nulla di diverso rispetto a quello che ancora oggi vivono i figli: «siamo un po’ tutti – continua l’autore – il frutto delle paure dei nostri genitori. Questo bagaglio culturale, il timore di questo giovane uomo, è stato tramandato al popolo ebraico». L’immagine di un Dio vendicativo fa da padrona soprattutto per quella porzione di fondamentalisti i quali vivono nell’angoscia costante che tradire Jahvè sia origine e causa di tutti i mali. Le altre due religioni che in Abramo colgono il fondamento della fede hanno reinterpretato a modo loro questa cruda realtà. Il cristianesimo ha invertito i termini del discorso: ha posto la sua attenzione non su un padre che sacrifica il figlio, ma su un figlio che al contrario assume su di sé le colpe del genere umano e si offre in espiazione sul legno della croce. Quest’uomo, questo figlio, non è altri che Gesù. I musulmani si sono limitati, invece, a sostituire Isacco con un altro della progenie di Abramo, ossia Ismaele. In entrambi i casi il discorso non cambia: il rapporto padre – figlio, si trasforma in una lotta tra la vita e la morte. Ciò che per ebrei e musulmani è paura, per i cristiani è sofferenza ed espiazione.
GERUSALEMME OGGI. Il mito del “sacrificio di Isacco” ha come palcoscenico naturale un monte che sovrasta Gerusalemme. Sarebbe inutile ripercorrere il lungo elenco di problematiche che affliggono questa città. Certamente, la vicenda che è stata riletta da Abraham Yehoshua può essere considerata a tutti gli effetti uno dei motivi scatenanti dei conflitti che si susseguono a causa dell’incontro di tre religioni in un’unica porzione di territorio. Basti pensare che molti tra i fondamentalisti semitici auspicano di poter un giorno distruggere la moschea che nel frattempo è stata edificata proprio sul monte di cui si accennava. I musulmani, da parte loro, credono seriamente che ciò possa accadere e si guardano bene dall’intrattenere rapporti pacifici con gli ebrei. A condire il tutto la presenza dei cristiani che non sempre hanno messo in atto il precetto del “porgere l’altra guancia”.
PROPOSTA PER IL MEDITERRANEO. Abraham tuttavia è fiducioso e lancia una proposta: «Perché non rendere Gerusalemme un territorio che goda di uno status d’indipendenza come la Città del Vaticano? Potrebbe essere una strada percorribile verso la pace». Ma lo scrittore non si ferma qui, sprona i Siciliani: «Non siate succubi di una cultura che vi considera la parte povera dell’Italia. Siete e rimarrete anche voi culla di un’identità mediterranea che va preservata e coltivata». Forse la Sicilia non è ancora pronta ad assumere le redini di una iniziativa così articolata. Non va escluso, però, che si possa seriamente pensare di investire su un progetto di tale portata. Nel frattempo domandiamoci: siamo in grado di superare le nostre piccole grandi certezze e le differenze culturali che ci circondano, o viviamo anche noi il trauma di Isacco?
Abraham Yehoshua il trauma di Isacco, l’identità mediterranea e il rapporto padri figli