Descrizione
La benedizione annuale per gli alberi in fiore
Secondo la formula dei Dotti di Baghdad
Introduzione, traduzione e note a cura di Rav Alberto Moshè Somekh
Cultura ebraica a tutto campo
€5,00
La benedizione annuale per gli alberi in fiore
2013 – Pagine 48
Autore | Alberto M. Somekh |
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Copertina | Brossura morbida plastificata |
Formato | 130×210 mm |
Testo | Testo italiano |
La benedizione annuale per gli alberi in fiore
Secondo la formula dei Dotti di Baghdad
Introduzione, traduzione e note a cura di Rav Alberto Moshè Somekh
Tre berakhòt distinte hanno istituito i nostri Maestri alla vista del rinnovamento annuale della vegetazione. Le prime due sono le seguenti:
Shehecheyànu שהחיינו: si recita alla vista di un frutto che si rinnova di anno in anno (stagionale) una volta che sia maturo, anche se lo vede sull’albero o se è proprietà altrui. Se non si è recitata la prima volta che si è visto il frutto, la si potrà recitare quando lo vede per la seconda volta, ma l’uso invalso è di recitare questa berakhà la prima volta che lo si mangia (O.Ch. 225, 3 e 7).
Shekàkha lo be’olamò שככה לו בעולמו: si recita la prima volta che si vedono alberi particolarmente belli. Normalmente non si ripete questa berakhà nel corso dell’anno, a meno che non si vedano alberi ancora più belli (Ibid. 10).
Le due berakhòt citate hanno quattro caratteristiche in comune: a) sono Birkhòt Hanehenìn “di godimento”: si recitano cioè per la gioia che proviamo nel godere della vista di particolari prodotti della natura; b) non riguardano in realtà solo i vegetali; c) si recitano solo se si presenta l’occasione, senza che si incorra in sanzioni in caso contrario; d) possono essere recitate più volte nel corso di un anno.
I Chakhamìm hanno stabilito una terza berakhà diversa dalle precedenti ed è l’oggetto del nostro studio. Si tratta di una Birkàt Hashèvach “di lode” per il fatto stesso che esiste il rinnovamento annuale della Creazione. Per questo motivo è stata concepita da recitarsi specificatamente alla vista degli alberi da frutto prima che abbiano dato frutti, protagonisti di un ciclo complesso che si osserva mentre è ancora in corso. È una mitzvà da compiersi una sola volta all’anno in primavera, preferibilmente nel mese di nissàn.
Del mese di nissàn la Torà dice «Primo sarà per voi – lakhèm, tra i mesi dell’anno» (Shemòt 12, 2): in esso è avvenuta l’Uscita dall’Egitto e festeggiamo Pèsach. La parola lakhèm – per voi, è anagramma di mèlekh – re. Noi Ebrei calcoliamo il passar del tempo in funzione della Redenzione, in modo da non perderne mai la memoria: secondo il calendario biblico nissàn è effettivamente Hachòdesh Harishòn – il primo mese. Il suo nome più antico è avìv – primavera, parola che a sua volta è spiegata dai Maestri come crasi dell’espressione av ley”b – padre dei 12 (mesi). Un buon padre kovèa’ berakhà «è fonte di Berakhà» (Sèfer Hatoda’à): lo impariamo dal primo dei Patriarchi Avrahàm, di cui la Torà dice: «sarai una benedizione» (Bereshìt 12, 3). Anche il mese di nissàn, in quanto primo dei mesi dell’anno, reca con sè una berakhà particolare.
Ma la berakhà di cui ci occuperemo è legata al rinnovamento degli alberi da frutto in particolare. Questi sono oggetto di attenzione speciale nella Torà. In caso di assedio nei confronti di una città nemica è scritto che «Non potrai abbattere i suoi alberi agitando la scure su di essi, poiché da essi trai il tuo cibo e non lo distruggerai… Solo alberi che tu sappia non essere da frutto potrai abbattere e distruggere per costruire l’assedio» (Devarìm 20, 19-20; cfr. Maimonide, Hilkhòt Melakhìm 6, 8-10). Da questi versetti i nostri Maestri hanno dedotto il divieto di spreco, ovvero provocare danni o perdite ad oggetti utili. «Rientra in questo divieto quello di sprecare alcunché, come p.es. bruciare, o stracciare un abito, o rompere un oggetto inutilmente. E in tutti i simili casi in cui vi sia distruzione, spiegano i Maestri del Talmùd che si trasgredisce al divieto di “bal tashchit”. Scopo della mitzvà è insegnarci ad apprezzare ciò che è buono e utile e aderirvi. Per questa via si instillerà il bene nella nostra anima e prenderemo le distanze da qualsiasi volontà distruttiva…» (Sefer Hachinnùkh, prec. 529).
«Giacché un uomo è come un albero del campo» (ibid.). Il rinnovamento dell’albero diviene a sua volta metafora del rinnovamento dell’uomo. Scrive a questo proposito il Maharàl di Praga (Nètzach Israèl, cap. 7): «In verità l’uomo è chiamato “albero del campo”, ma è un albero capovolto, perché l’albero ha la radice in basso infissa per terra, mentre l’uomo ha la radice in alto perché la sua radice è l’anima che è di origine celeste; le mani sono i rami dell’albero, le gambe sono rami sovrapposti ai rami e il corpo è il tronco dell’albero. Perché l’uomo è un albero capovolto? L’albero ha radici in basso perché deriva la sua vitalità dalla terra, mentre la vitalità dell’anima umana deriva dal Cielo…»
Il legame fra l’albero e il Giusto è evidente in Tehillìm 92, 13: «Il giusto fiorirà come una palma, darà frutti come un cedro del Libano». Come questi alberi svettano nel deserto e sono visibili dappertutto, così il giusto costituisce un punto di riferimento nel deserto spirituale. «Se è paragonato ad una palma, cosa c’entra il cedro del Libano? Se questo non fosse stato scritto, avrei detto che il giusto è solo come una palma, il cui fusto non si rinnova. Se è paragonato ad un cedro del Libano cosa c’entra la palma? Se questa non fosse stata scritta, avrei detto che il giusto è come un cedro del Libano, che non dà frutti. Perciò sono scritti entrambi» (Ta’anìt 25b; cfr. anche Bavà Batrà 80b). Rashì ritiene che il rinnovamento del fusto allude alla vita oltre la morte, mentre i frutti alla ricompensa delle sue azioni. Rashì commenta Bemidbàr 13, 20 come segue: «… se vi è là un albero oppure no: se vi è fra essi un uomo degno (adàm kasher) che li protegga con i suoi meriti» come se formassero la chioma di un albero.
Così ancora nel versetto: «Colui che si affida alla propria ricchezza cadrà, mentre i Giusti fioriranno come una foglia» (Mishlè 11, 28). «La salvezza del Giusto è paragonata alla fioritura degli alberi prima che diano frutto. Al contrario di chi confida nella propria ricchezza il quale è destinato a cadere in fretta, il Giusto che ha fiducia nel Santo Benedetto fiorirà in fretta» (R. Bachyè, Commento alla Torà, Introduzione alla P. Kòrach).
La berakhà assume un ulteriore significato nel pensiero dei kabbalisti. Occorre a questo proposito citare integralmente il seguente passo dello Zòhar (III, 196b):
R. El’azar diceva: “Il nome Tzippor (lett. “uccellino”: è il nome del padre di Balàq re di Moav in Bemidbàr 22,2) contiene velato riferimento ad una verità. È scritto: “Anche gli uccellini (tzippor) hanno trovato una dimora, e la rondine un nido per sé” (Tehillìm 84, 12). Forse che il re Davìd si sarebbe soffermato su un semplice uccellino? Si riferisce piuttosto a ciò che abbiamo imparato. Quanto sono care le anime (neshamot) al cospetto del Santo Benedetto! Ciò non significa tutte, bensì le anime dei Giusti la cui dimora è presso di Lui. Abbiamo imparato che il Gan ’Èden è circondato da tre muri. Fra l’uno e l’altro molte anime e spiriti si aggirano, godendo dei profumi provenienti dall’interno, non avendo il permesso di entrarvi. In determinati giorni dell’anno, nei mesi di nissàn e tishrì, questi spiriti si radunano in certi luoghi sopra i muri del giardino, dove si manifestano come uccellini che cantano ogni mattina. Questo cinguettio è una lode offerta all’Onnipotente ed una preghiera per la vita degli esseri umani, perché in quei giorni Israele è interamente occupato a compiere i comandamenti e i precetti del Signore dell’Universo”.
Disse r. Shim’on: “Ottima spiegazione, r. El’azar. Ma cosa mi dici della seconda parte del versetto: “e la rondine un nido per sé”?” Rispose: “Ho imparato che si tratta dell’Anima Superiore che vola verso un luogo nascosto che solo l’occhio di D. ha visto”. Disse r. Shim’on: “È tutto certamente esatto. Così avviene nel Gan ’Èden inferiore. Gli uccellini sono gli spiriti che hanno il privilegio di entrare e poi ne escono: di essi è detto che “hanno trovato una dimora”, ciascuno nella camera a lui destinata. Cionondimeno, ciascuno è geloso del baldacchino dei suoi compagni, che sono liberi da tutto. D. mostra loro un luogo nascosto che solo l’occhio di D. stesso ha visto ed è chiamato “il nido dell’uccello”. Da lì vengono preparate corone per il Messia nel Tempo a Venire e tre volte all’anno D. conversa con loro e mostra loro quel palazzo nascosto che non è noto neppure a tutti i giusti lì”.
Non tutte le anime, allorché lasciano il corpo, hanno il merito di essere ammesse nel Giardino dell’Èden. Per ragioni imperscrutabili alla mente umana alcune di esse sono costrette a godere dei suoi profumi standone fuori, sul muro di cinta. La nostalgia per l’Èden si rafforza ulteriormente proprio nel mese di nissàn, allorché i profumi degli alberi in fiore si spargono nell’aria. Allora esse si accostano agli alberi in fiore – suggerisce lo Zòhar – per avvertirne ancora di più il profumo, che è quello dell’Èden. È il momento di pregare per queste anime e, di riflesso, per tutti noi…
Halakhòt
Una delle mitzvòt più gioiose della primavera, anche se forse fra le meno note ai più, è la Birkàt Hailanòt, la benedizione che si recita una sola volta all’anno sugli alberi in fiore. La fonte è nel Talmùd a nome di rav Yehudà: «Colui che esce nei giorni di nissàn e vede alberi in fiore dice: ‘Benedetto Colui che al Suo mondo non ha fatto mancare nulla; anzi, ha creato in esso buone creature e buoni alberi affinché i figli dell’uomo ne traessero godimento’».
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