Questo articolo costituisce una sintesi di A. Guetta, Qabbalah e razionalismo nell’opera di Moseh Hayyim Luzzatto, in Ramhal, pensiero ebraico e Kabbalah tra Padova ed Eretz Israel, a cura di G. Luzzatto Voghera, M. Perani, Padova, Esedra editrice 2010, pp. 39-66.
Alessandro Guetta
Rassegna Mensile di Israel – Settembre-Dicembre 2008 – Vol. LXXIV, N. 3
La ricezione delle opere di Luzzatto è una vera questione storiografica, un soggetto di studio in sé estremamente interessante, e anche eloquente sulle atmosfere intellettuali nel campo degli studi ebraici. In Italia, dove si formò e visse la maggior parte della sua vita, il padovano non ebbe più di un semplice successo di stima: a un secolo dalla sua morte, il suo illustre discendente Samuel David Luzzatto pubblicava qualche suo estratto cabbalistico, con l’esplicita intenzione di mostrare quanto le sue attitudini alla teologia fossero state mal impiegate nell’esoterismo ebraico.[1] Se la cosa può non sorprendere in un anticabbalista dichiarato come Shadal, ricordiamo che anche l’ultimo cabbalista italiano importante, Elia Benamozegh, cita Ramchal una sola volta, e di sfuggita, nelle centinaia e centinaia di pagine scritte su soggetti cabbalistici.[2]
Bisogna dire che, probabilmente a causa delle ben note misure che costrinsero Ramchal al silenzio per quanto riguardava la qabbalà, pochi dei suoi testi erano conosciuti. Alcuni di essi hanno trovato un editore solamente da qualche decina d’anni in ambienti legati alle yeshivot (accademie talmudiche) di matrice est-europea trapiantate in Israele. Certamente il personaggio Luzzatto e le vicende drammatiche della sua esistenza hanno cominciato a essere conosciute grazie alla scoperta da parte di Shimon Ginzberg del suo epistolario e alla pubblicazione di un’affascinante biografia nel 1931.[3] Ma anche lo studioso americano, come Shadal prima di lui, vedeva nel padovano un grande talento poetico che sarebbe potuto diventare un nuovo Yehudà Ha-Levi, se non si fosse smarrito nelle astruse ricerche esoteriche, figlie di un’epoca di oscurantismo. Negli stessi anni, il più grande poeta ebraico dell’epoca moderna, Chayim Nachman Bialik, e uno storico della letteratura ebraica importante come Yerucham Fischel Lachover certificavano il valore di Luzzatto come poeta, che poteva addirittura considerarsi come il fondatore della nuova epoca di questa letteratura.[4]
Negli ultimi anni si è assistito ad un fenomeno duplice: da una parte, le opere cabbalistiche e poetiche (compreso il trattato di retorica Leshon limmudim) hanno cominciato ad essere studiate con i criteri della ricerca scientifica,[5] dall’altro, accanto al persistente successo nel mondo delle yeshivot a Benè Beraq e Gerusalemme, Luzzatto è diventato, sempre in Israele, l’oggetto di una specie di culto di tipo new-age. Un vasto pubblico composto da religiosi e non-religiosi, alla ricerca di nuove forme di spiritualità, vede in Ramchal un mistico animato da un fervore religioso e da un amore per Dio che i contemporanei hanno voluto censurare perseguitandolo.[6]
Ma, malgrado tanto interesse e tanti approcci diversi, il personaggio Luzzatto rimane, credo, un enigma, i cui elementi costitutivi sono le questioni seguenti: come si possono armonizzare le diverse componenti della produzione di Ramchal, che sembrano del tutto indipendenti tra loro, senza l’ombra di un richiamo reciproco? E ancora: come si deve comprendere un’opera cabbalistica così imponente, redatta alla fine della fioritura della qabbalà in Italia (in questo senso, Luzzatto è un epigono), e in un’epoca più incline alla diffusione del razionalismo? Luzzatto è stato un moderno oppure uno spirito legato a una cultura passata, di cui rappresenta una brillante ma anacronistica sopravvivenza?
Noi cercheremo in questa sede di analizzare la seconda questione, cioè le relazioni tra il pensiero di Luzzatto e il razionalismo settecentesco.
Forse negli studi sul pensiero di Ramchal non è stato messo sufficientemente in rilievo un aspetto che pure è evidente, cioè la volontà dell’autore padovano di rendere la qabbalà comprensibile a uno spirito razionale. Non si trattava di assimilarla alla filosofia, perché le fonti dell’una e dell’altra sono diverse: la qabbalà è il frutto di una rivelazione profetica, che sia quella fatta ad Adamo, a Mosè sul Sinai, dallo Spirito santo a Yitzchaq Luria o dal maggid, la voce celeste, allo stesso Luzzatto; mentre la filosofia è il risultato dello sforzo della comprensione umana.
Nessun intelletto umano, sostengono i cabbalisti, avrebbe potuto formulare le nozioni proprie alla dottrina esoterica ebraica: e nondimeno, secondo Luzzatto, questa dottrina non è un insieme incomprensibile di nozioni astruse, esterne alla logica, trasmesse da un magistero insindacabile, bensì è un insieme di idee che possono imporsi ad uno spirito razionale.
La comprensione è una categoria centrale nel pensiero di Luzzatto: con un tratto simile a quello dei pensatori razionalisti del Medioevo, egli fa della “comprensione della gloria di Dio” (hasagat ha-kavod) il sinonimo della vicinanza tra l’uomo e il suo creatore, che è la massima beatitudine.[7] Del resto, Dio ha volontariamente limitato il suo potere per creare il mondo in modo che questo fosse comprensibile agli uomini, e gli uomini hanno il dovere di indagare per conoscerne la forma e il funzionamento.[8]
È normale, sostiene Luzzatto, che i maestri del sapere ebraico del suo tempo si siano allontanati dalla qabbalà, perché questa ha perso nel corso degli anni i suoi significati comprensibili, riducendosi a una serie di termini oscuri contenuti in libri sigillati (sefer chatum), una serie di termini di cui non si coglie il senso. Il compito che Ramchal attribuisce a se stesso è proprio quello di ritrovare il senso perduto di una dottrina che, pur essendo esoterica, non è né oscura né tantomeno oscurantistica. Si tratta di risvegliare i maestri di Israele dal loro sonno, restituendo all’antica dottrina la chiarezza che le appartiene.[9]
Nei due dialoghi che ha composto, Choqer u-mequbbal e Da‘at tevunot, gli interlocutori dell’alter ego dell’autore esigono una conoscenza chiara e precisa:
Vorrei avere, a proposito di questi principî [religiosi, ‘iqqarim], degli argomenti (sevarà) che possano darmi la tranquillità.[10]
dice nel Da‘at tevunot l’anima all’intelletto, che è significativamente il protagonista del dialogo, e continua
Lascerò da parte i particolari che non posso capire; ma che possegga almeno gli enunciati generali in modo chiaro (yesharim), che abbia degli argomenti e delle nozioni chiare per l’insieme di questi soggetti.[11]
Notiamo che Luzzatto usa il temine sevarà per esprimere un’idea comprensibile della ragione: proprio ciò di cui un secolo prima uno dei primi e più acuti critici della qabbalà, il veneziano Leone Modena, denunciava l’assenza nella dottrina esoterica ebraica.[12]
E nel dialogo tra il razionalista e il cabbalista, intitolato appunto Choqer u-mequbbal, il primo afferma che, se fino all’incontro col cabbalista non aveva trovato nella qabbalà niente che facesse pensare a una chokhmà (“sapienza” o “scienza”) e anzi non sopportava dei discorsi insipidi (cioè senza grande significato), adesso, in questa generazione (cioè, grazie a Ramchal stesso), riconosce che la qabbalà è una chokhmà superiore a tutte le altre.[13]
Credo che, in questa citazione, si debba tradurre chokhmà con “scienza”, perché è a questo che Luzzatto pensa quando definisce i caratteri della qabbalà, anche se lo fa in modo implicito.
Non ci sono in effetti dei riferimenti espliciti alla scienza in quanto tale, nelle sue opere: solo un cenno rapido ma interessante all’azione dell’uomo sul mondo terrestre e divino come una serie di ingranaggi di un orologio, in cui la ruota piccola muove le ruote più grandi determinando il funzionamento dell’insieme.[14] Questa metafora meccanicistica è un aiuto prezioso per comprendere la visione generale di Luzzatto, che è espressa in modo teorico e senza l’aiuto di esempi.
Un’altra apertura alla scienza, o meglio alla natura come oggetto di conoscenza scientifica, è contenuta in un capitolo del dramma La-yesharim tehillà: qui Ramchal descrive minutamente il funzionamento del mondo vegetale, dimostrando tra l’altro una sensibilità alla natura rara per il mondo ebraico del ghetto.[15] Ricordiamo per inciso che Luzzatto precedette Moses Mendelssohn di qualche decennio: in un testo del Qohelet musar, il pensatore tedesco invitava in effetti gli ebrei ad alzare gli occhi dai loro libri per guardarsi intorno, e trovare Dio nella natura e non solo nella parola scritta.[16] Un terzo riferimento, estremamente rapido ma molto significativo, si trova in un’altra opera di Luzzatto, il Derekh ha-Shem. Qui, riprendendo l’argomentazione tipica della filosofia religiosa medievale della doppia via per ottenere le verità fondamentali, quella profetica e quella razionale, egli scrive:
È vero che conosciamo questi soggetti [che esiste un ente eterno e perfetto, il quale ha creato tutti gli enti] per tradizione, dai patriarchi e dai profeti; […] ma dovranno essere confermati in modo razionale, con argomenti dialettici. L’argomentazione è certa, provenendo dagli enti e da coloro che li conoscono, come possiamo constatare secondo le scienze della fisica, della geometria, dell’astronomia ed altre scienze: da queste si traggono premesse vere da cui dedurre la verità di questi soggetti. Però noi non ci dilungheremo su di loro in questa sede, e introdurremo delle premesse per provarne la verità, ordinandole in modo corretto, secondo la tradizione di cui disponiamo, diffusa in tutta la nostra Nazione.[17]
In altre parole, la dimostrazione della perfezione di Dio e di altre nozioni teologiche sarebbe possibile per via scientifica, ma questa via non è sviluppata da Ramchal, che si limita a dare una veste sistematica alla materia tradizionale: in ciò consiste, almeno in quest’opera, il Derekh ha-Shem, il suo razionalismo. A parte queste interessanti eccezioni, i riferimenti alla scienza da parte di Luzzatto sono di natura più implicita e indiretta. Essi riguardano la forma che deve assumere la dottrina per rispondere ai requisiti della chokhmà, si tratta cioè di requisiti formali. Il debito nei confronti del metodo di Descartes, che nel Discours de la méthode esigeva nozioni chiare e distinte,[18] e nelle Méditations métaphysiques cercava un punto certo sul quale costruire il suo sistema,[19] sembra evidente. Il cabbalista ovviamente non cita il filosofo e scienziato francese, come non cita nessun autore non-ebreo e, d’altra parte, ben pochi autori ebrei. Ma lo conosceva probabilmente, perché Descartes faceva parte del bagaglio di un uomo colto del suo tempo, e Luzzatto era un uomo colto.
Ricordiamo che il cabbalista Basilea, rabbino a Mantova e contemporaneo più anziano di Luzzatto, utilizzò la fisica cartesiana per la sua argomentazione a favore della tradizione culturale ebraica, talmudica e cabbalistica.[20]
Per Luzzatto, la distinzione dei concetti è un requisito essenziale per la corretta esposizione di quella scienza che si chiama qabbalà; a un punto tale che la comprensione coincide con la distinzione:
Disse l’Intelletto: […] «Chi vuole comprendere non deve mescolare i generi e le specie [in cui si suddividono i soggetti]». Disse l’Anima: «Questo è sicuro: la comprensione dipende solo dalla distinzione, e tutti i generi e le specie devono essere classificati con cura, per comprendere i soggetti e ciò che deriva da essi. E anche se il Pensiero supremo non funziona come quello degli uomini, e quindi ad essa non si applicano queste suddivisioni, tuttavia noi siamo uomini, e come tali dobbiamo procedere».[21]
La chiarezza – più volte invocata – e la distinzione si accompagnano ad uno spirito sistematico che, inoltre, cerca un punto di riferimento solido ed indiscutibile sul quale poggiare la sua costruzione.[22] Le caratteristiche necessarie allo studio della scienza divina sono le stesse che Luzzatto propone, tra l’altro, per studi nei quali la logica e lo spirito di classificazione sono più evidenti, come quelli del Talmud e della retorica.[23]
Questa costruzione argomentativa dovrà avvenire per gradi, per evitare di confondere l’intelletto. Bisognerà procedere a isolare gli elementi concettuali, per poi riunirli sotto categorie generali
Disse l’Intelletto: […] «Devi quindi procedere lentamente, capire i soggetti secondo il loro giusto ordine, perché il metodo (derekh) della scienza (chokhmà) è questo: acquisire conoscenze in successione, così che alla fine ogni cosa emerga un solo soggetto, completo, per il quale sono state necessari tutti quei passaggi».[24]
Senza ordine, Luzzatto scrive più avanti, e in altri luoghi, l’intelletto è smarrito e confuso. Il richiamo al Morè nevukhim di Maimonide è evidente, e la progressione nell’acquisizione del sapere ha anch’essa un precedente nel trattato del filosofo di Cordova. Ma qui la mevukhà e il bilbul (o lo ‘irbuv), cioè lo smarrimento e la confusione, non emergono dal contrasto tra i dati della rivelazione e i risultati della ricerca razionale, bensì dall’assenza di ordine nel trattare le materie, e la progressione del sapere ha un aspetto molto più sistematico che nel Morè nevukhim.
Nell’introduzione alla già citata Derekh ha-Shem, la similitudine proposta da Ramchal è addirittura di tipo neoclassico: la superiorità di una conoscenza ordinata e secondo distinzioni chiare su un’altra non sistematica corrisponde alla superiorità di un giardino ben curato nelle sue siepi, nei suoi vialetti e nelle sue piantagioni rispetto a un cespuglio o a un bosco che si sviluppa in modo disordinato (be-‘irbuv). L’intelletto umano prova piacere nella prima ed è oppresso nella seconda, perché non conoscendo i passaggi corretti non arriva alla desiderata conclusione.[25]
L’insistenza di Luzzatto sull’approccio razionale e sistematico della materia cabbalistica è tale che c’è da chiedersi se dietro a questo tratto intellettuale del pensatore di Padova non si dissimuli anche una vena polemica nei confronti di cabbalisti anteriori. Quando parla di nozioni che sono diventate dei puri enunciati perché si è perso il loro senso (kawwanà) e il loro contenuto razionale (sevarà), Luzzatto si riferisce evidentemente alla situazione della letteratura cabbalistica in Italia all’epoca in cui egli scriveva. Ora, al di là della pratiche cabbalistiche di cui Luzzatto non fa alcun cenno nelle sue opere, la qabbalà teorica era dominata dall’approccio di Moshe Zacuto (XVII secolo), che privilegiava l’esegesi allo spirito di sistema, e che non contemplava nessuna versione razionalistica della dottrina esoterica.
Se ciò è vero, Moshè Chayim Luzzatto non sarebbe solo il mistico abitato dall’amore di Dio che riceve i messaggi delle voci celesti, e non sarebbe sicuramente il talento teologico fuorviato dalle oscure speculazioni cabbalistiche come sostenevano i ricercatori otto e novecenteschi impregnati dallo spirito della Wissenschaft des Judentums. Al contrario, in opposizione a una qabbalà fideistica e esposta in forma di esegesi, Ramchal ha la necessità di capire e di dare una veste sistematica alla dottrina: le nozioni cabbalistiche si inseriscono per lui in un impianto teologico interessante ed estremamente chiaro, le cui origini sono da ricercare e i cui tratti non sono stati ancora abbastanza studiati.
La corrispondenza tra teologia razionale e cabbalistica è evidente nella giustapposizione tra le due opere Da‘at tevunot e Sefer ha-kelalim. La prima, il cui titolo è di per sé eloquente, perché comprende le nozioni di conoscenza e comprensione tra loro associate, presenta una riflessione sul problema del male, che sfocia in una costruzione teologica complessa sui rapporti tra Dio e il mondo: il tutto senza il minimo cenno alla qabbalà. La seconda ripercorre la precedente ma secondo la terminologia cabbalistica, dando delle “regole” (kelalim), cioè delle nozioni di base cabbalistiche che hanno già avuto la loro presentazione razionale nel molto più lungo e sviluppato Da‘at tevunot.
Moshè Chayim Luzzatto ha quindi un’esigenza generale di comprensione razionale, e più in particolare di procedere a definizioni (hagdarot) e distinzioni (havchanot) che permettano di procedere secondo logica e di costruire un sistema in modo ordinato, che è sinonimo di comprensibile. Ma l’affinità con lo spirito scientifico non riguarda solo il metodo bensì anche i contenuti della dottrina. Si ha infatti l’impressione, leggendolo, che per lui la qabbalà – il cui oggetto non è l’essenza inattingibile di Dio ma le Sue opere – corrisponda alla scienza, che si occupa di ciò che l’uomo può conoscere. Naturalmente, per il cabbalista le opere di Dio comprendono, oltre alla natura oggetto unico della scienza “terrena”, anche i mondi intermedi tra Dio ed il mondo umano, a partire dalle sefirot.[26] Ma lo schema concettuale non cambia: tutti i mondi sono interconnessi, e gli oggetti di quella scienza che si chiama qabbalà sono la natura, l’energia e la dinamica tra questi mondi.[27] In altre parole il cabbalista è in grado di conoscere l’insieme della hanhagà, che si traduce generalmente con “provvidenza” ma qui acquisisce il senso di “funzionamento dell’insieme dell’universo guidato da Dio”. La qabbalà è quindi conoscenza non di Dio ma della serie di cause ed effetti inerenti alle creazioni di Dio: è quindi comprensibile che il razionalista del dialogo nel Ma’amar ha-wikkuach, convinto dagli argomenti dell’interlocutore cabbalista, definisca la qabbalà come la più grande delle scienze, di fronte alla quale tutte le altre scienze non hanno nessun valore.[28] Luzzatto dà prova, come gli scienziati suoi contemporanei, di un netto ottimismo gnoseologico. Nella sua insondabile trascendenza, Dio ha voluto che gli uomini fossero in grado di conoscere le sue opere, e le ha create perciò in un modo adatto alla comprensione umana
La Volontà suprema ha voluto che gli uomini capissero qualcosa dei Suoi modi di agire e delle Sue opere; ha anzi voluto che si applicassero a ciò investigando intensamente. Per questa ragione ha scelto di agire al modo degli uomini, in altre parole: secondo un ordine comprensibile. La regola generale è la seguente: Egli ha voluto agire secondo il metro (‘erekh) degli esseri creati, non secondo il proprio. È per questa ragione che ha dato la possibilità che si indagasse sulle Sue opere, e comprendere così almeno un poco, e forse anche di più.[29]
I limiti nella comprensione non sembrano però essere di natura quantitativa, perché altrove Luzzatto definisce la qabbalà come conoscenza della “totalità” della natura e del funzionamento dell’insieme dei mondi creati.[30] Questi limiti sembrano essere piuttosto di natura qualitativa, in quanto noi, che non conosciamo Dio, assolutamente al di là della nostra capacità intellettuale, non conosciamo nemmeno l’essenza delle sue opere (si potrebbe dire, secondo una terminologia kantiana, che non conosciamo la “cosa in sé”) bensì solo i loro effetti (i “fenomeni” kantiani). In altre parole, noi percepiamo le azioni di Dio secondo le nostre capacità, non per quello che sono realmente:
Tutto ciò che è in Esso – che sia benedetto – è al di là di ogni comprensione. Si può comprendere solo ciò che è in noi, esseri creati.[31]
Dio, secondo Luzzatto, nel creare il mondo ha quindi in qualche modo limitato la sua perfezione (è lo tzimtzum di cui parla il cabbalista cinquecentesco Yitzchaq Luria, a cui Luzzatto tenta di dare una spiegazione razionalmente comprensibile): lo ha fatto affinché gli uomini, esseri limitati, fossero in grado di conoscerlo; ma anche questo mondo limitato è concepito dagli uomini non nella sua natura reale bensì secondo le limitate capacità umane.
In realtà, il disegno divino non si ferma qui, secondo Luzzatto, perché l’imperfezione dell’universo e dell’uomo non hanno come obbiettivo finale la conoscenza del primo da parte del secondo: questa conoscenza rappresenta una fase intermedia di un progetto che va ben al di là. Ma non è questo il luogo per parlarne. Noi ci siamo limitati a esporre e a esaminare alcuni aspetti del pensiero di Ramchal che lo apparentano, almeno in modo formale, al pensiero settecentesco, fondato sulla ragione e sull’ottimismo umano quanto alla conoscenza del mondo; e che, abbandonando l’essenzialismo, si concentra sullo studio dei fenomeni. Restano interamente da esaminare i contenuti del pensiero religioso di Luzzatto, che è un pensiero cabbalistico ma anche, come egli stesso ha mostrato, esplicitandolo secondo altre categorie, un pensiero teologico.
[1] Samuel David Luzzatto, Lezioni di teologia dogmatica israelitica, Trieste 1863, p. 42 e seguenti.
[2] Eliyahu Benamozegh, Tzorì Gil‘ad. Iggeret hitnatzelut le-chakhmè Yerushalayim, in Kevod ha-Levanon, supplemento di Ha-Levanon, 1871.
[3] Simon Ginzburg, The Life and Works of Moses Hayyim Luzzatto, Philadelphia 1931; 19752. Id., R. Moshè Chayim Luzzatto u-vnè doro; Osef iggerot u-te‘udot, Tel Aviv 1937.
[4] Chayim Nachman Bialik, Ha-bachur mi-Padova, in Kol kitvè Ch. N. Bialik, Tel Aviv 1938, pp. 228-229.
[5] Ariel Rathaus, Poetiche della scuola ebraico-italiana, in Alessandro Guetta (ed.), Poesia ebraica italiana: mille anni di creazione sacra e profana, «La Rassegna Mensile di Israel» LX, 1-2, 1994, pp. 189-226.
[6] Nel maggio 2007, per esempio, si è svolta al teatro Bet Avichay di Gerusalemme un’iniziativa di più giorni, organizzata da Gai Biran, consistente in conversazioni con poeti, lettura di brani e spettacoli musicali, e tutta dedicata all’opera di Luzzatto.
[7] M. Ch. Luzzatto, Da‘at tevunot, ed. Chayim Friedlander, Benè Brak, 1998, pag. 6.
[8] Ivi, p. 36.
[9] M. Ch. Luzzatto, Ma’amar ha-wikkuach, in Sha‘arè Ramchal, ed. Ch. Friedlander, Benè Braq, 1989, p. 37.
[10] Da‘at tevunot, p. 1.
[11] Ivi, p. 2.
[12] Yehudà Ariyè mi-Modena, Ari nohem, ed. Julius Fürst, Lipsia 1840.
[13] Ma’amar ha-wikkuach, p. 62.
[14] Da‘at tevunot, p. 102; Kelalim rishonim, p. 256 (dello stesso volume in cui si trova Da‘at tevunot).
[15] M. Ch. Luzzatto, La-yesharim tehillà, Amsterdam 1743, nuova edizione a cura di Yonah David, Gerusalemme 1981. Vedi in particolare il Cheleq 2, dibbur 2, il discorso del personaggio chiamato Mechqar (ricerca). È un vero inno alla natura, meccanismo complesso e opera perfetta del Creatore.
[16] Moshe Mendelssohn, Qoheleth musar, in Kol kitvè Moshe Mendelssohn, Hotza’at ha-Yovel, ed. I. Elbogen, Y. Guttman, A. Mittwoch, vol 12, Ketavim ‘ivriyim, ed. Chayim Borodianski, Breslavia 1939, pp. 1-3.
[17] Derekh ha-Shem, Amsterdam 1896, pp. 9-10.
[18] René Descartes, Discours de la méthode, Leyde 1637, in particolare i capitoli 7-10 della seconda parte, dove l’autore tratta della necessità di ordine e progressività dello studio, in cui vengono isolati dei concetti chiari e distinti.
[19] René Descartes, Méditations métaphysiques, Paris 1641, in particolare la «Prima meditazione» e il desiderio di trovare qualcosa «di costante e sicuro nelle scienze».
[20] Avi‘ad Sar Shalom Basilea, Emunat Chakhamim, Mantova 1730, ff.4r, 4v, 16v, 26r, 26v, 30v.
[21] Da‘at tevunot, p. 21.
[22] Ma’amar ha-wikkuach, p. 43.
[23] Sefer ha-higayon, 1a ed. Varsavia 1897, 19932, è un trattato di logica; Derekh tevunot, Amsterdam 1742, è un trattato di studio del Talmud. I due testi presentano una forma molto simile: Luzzatto applicava le regole della logica aristotelica (e postaristotelica) e non quelle del pilpul tradizionale allo studio del Talmud.
[24] Da‘at tevunot, p. 9.
[25] Derekh ha-Shem, p. 3.
[26] Ma’amar ha-wikkuach, p. 49; Kelalim rishonim, p. 262-263; Qelakh pitchè chokhmภed. Chayim Friedlander, Benè Beraq 1992, pp. 19-22.
[27] Ma’amar ha-wikkuach, p. 53.
[28] Ivi, p. 62.
[29] Da‘at tevunot, p. 22.
[30] Ma’amar ha-wikkuach, p. 53.
[31] Da‘at tevunot, p. 36.