Il pensiero scientifico moderno alle sue origini recepisce e trasforma, se non addirittura interpreta in modo radicalmente nuovo, alcuni aspetti del pensiero kabbalistico. Un approccio storico che permette di cogliere le ragioni delle divergenze e dei rapporti fra pensiero religioso ebraico e quello scientifico
Il tema dei rapporti fra il pensiero ebraico e il pensiero scientifico ha ricevuto fino ad oggi una ben scarsa attenzione. Le ragioni di questa marginalità sono molteplici ed una fra esse è certamente legata al fatto che buona parte dei manoscritti necessari ad approfondire l’argomento sono non pubblicati e comunque di difficile accesso (1). Ma la ragione più importante e profonda è certamente un’altra: la storia dello sviluppo del pensiero scientifico si caratterizza, almeno fino agli inizi del nostro secolo, per l’esistenza di tradizioni nazionali ben definite (al punto di poter parlare di vere e proprie “scuole” nazionali), mentre per circa due millenni non si può parlare di un’identità nazionale ebraica. Questo spiega le ambiguità del tema dei rapporti fra pensiero ebraico e pensiero scientifico e la vera e propria difficoltà di definirne i termini. Esso si confonde spesso con quello molto più sfuggente ed equivoco del “contributo” degli “ebrei” alla scienza, che in tempi a noi vicini è diventato persino un tema della propaganda razziale, tesa a dimostrare l’esistenza di un’invasione della scienza da parte degli ebrei al fine precipuo di distruggerne i connotati nazionali e di affermare una visione cosmopolita, anti-nazionale e anti-occidentale della ricerca scientifica (2). Se lasciamo da parte questo terreno scivoloso che conduce verso problematiche diverse, il tema che appare più chiaramente definibile è quello dei rapporti fra il pensiero scientifico e il nucleo più caratteristico del pensiero ebraico, ovvero il pensiero religioso e, al suo interno, la visione teologica e filosofica del cosmo e delle forme attraverso cui l’uomo può tentare di conoscerlo e comprenderlo. La maggiore facilità di definire questa visione è certamente legata al fatto che essa affonda le sue radici più lontane in un contesto in cui il pensiero ebraico aveva maggiori caratteristiche di unità.
Sotto questo profilo, è corretto affermare (pur con tutte le inevitabili semplificazioni) che il pensiero ebraico si muove entro una prospettiva alquanto diversa da quella rappresentata dalla tradizione filosofica e scientifica del pensiero greco e contribuisce con tale prospettiva alla formazione di una delle due tendenze fondamentali che, pur intrecciandosi e influenzandosi vicendevolmente, rappresentano gli elementi costitutivi del pensiero occidentale moderno. La contrapposizione (o quantomeno la distinzione) che viene qui fatta fra la speculazione ebraica che affonda le sue radici nel pensiero biblico e il pensiero filosofico-scientifico greco può essere specificata in cinque aspetti. Essi definiscono altrettanti motivi per i quali il pensiero ebraico si differenzia dalle tendenze fondamentali del pensiero scientifico moderno il quale, almeno per questi aspetti, si ricollega alla tradizione greca.
Il primo aspetto è la contrapposizione tra una visione che ha come centro il problema della conoscenza ed una visione che attribuisce invece un’importanza primaria al problema del significato. Si tratta, in definitiva, della contrapposizione fra approccio epistemologico e approccio ermeneutico. La seconda divergenza concerne la visione del mondo che, nel caso ebraico è soggettivistica, mentre nel caso greco è soprattutto oggettivistica. A questa divergenza se ne collega un’altra: mentre la visione oggettivistica della conoscenza della realtà conduce a una divisione del mondo in due (da un lato la sfera dei fenomeni naturali, dall’altro la sfera dei fenomeni psichici), nel pensiero ebraico è presente una forte spinta verso una visione unitaria del mondo. Ne discende (ed è questo il quarto aspetto) una diversa attenzione per i problemi della psiche umana: questa attenzione è molto maggiore nel pensiero ebraico. Infine, mentre l’approccio oggettivistico ai fenomeni naturali conduce alla progressiva affermazione di una visione deterministica (che diventerà nell’epoca moderna il nucleo dell’ontologia e dell’epistemologia scientifica), il pensiero ebraico è più attento al ruolo dell’ “intenzione”, della scelta soggettiva, della finalità. Questo tema rimarrà tuttavia presente anche nella speculazione scientifica moderna, ma in una posizione subordinata e costantemente combattuta dalle tendenze oggettivistiche egemoni.
Se la situazione è in questi termini, si potrebbe concludere che alcune delle tendenze fondamentali della speculazione ebraica manifestano una tale diversità rispetto alle caratteristiche del pensiero scientifico moderno, da suscitare seri dubbi circa l’esistenza di un rapporto e di un contributo della prima sul secondo. La partecipazione piena degli ebrei all’impresa della scienza moderna si manifestò dunque per lo più nella forma di un’adesione alla visione “greca”, razionalista e oggettivista del mondo e di un abbandono di alcuni degli elementi che costituivano l’identità più profonda e radicata della cultura ebraica (3). Un’analisi attenta delle caratteristiche del contributo ebraico alla scienza moderna – almeno in quei casi in cui l’adesione alla visione oggettivista non si manifesta in forme incondizionate – mostrerebbe la persistenza di elementi caratteristici della visione ermeneutica, soggettivistica e unitaria di cui si diceva sopra (4). E anche in quegli ambiti in cui la tradizione ebraica ha dato i contributi più netti e evidenti alla scienza – come la medicina – è difficile non scorgere la presenza di quella visione (5).
Se quindi il proposito è quello di stabilire dei rapporti e studiare i collegamenti fra il pensiero ebraico e il pensiero scientifico moderno, le osservazioni precedenti – tese a mettere in luce gli elementi di divergenza con l’oggettivismo e il dualismo caratteristici del secondo – sembrerebbero dover troncare il nostro discorso prima che inizi. L’analisi storica ci permetterà di cogliere in modo più preciso alcuni legami importanti fra alcuni temi del pensiero kabbalistico e il pensiero scientifico moderno alle sue origini: e proprio nel modo in cui quei temi furono recepiti e trasformati, se non addirittura interpretati in modo radicalmente nuovo, coglieremo le ragioni delle divergenze di cui si è accennato sopra e alcune importanti caratteristiche dei rapporti fra pensiero religioso ebraico e pensiero scientifico.
Inizieremo con un rapido tentativo di caratterizzare alcuni dei temi fondamentali del pensiero kabbalistico, nel contesto più generale del pensiero religioso e filosofico ebraico. Il ruolo dell’Ebraismo nella storia delle religioni è di solito correttamente identificato nello sforzo di affermare in modo intransigente il monoteismo contro ogni sorta di panteismo o d’identità panteistica di Dio con il cosmo e l’uomo. L’ebraismo ha scavato un abisso fra queste sfere e soprattutto un abisso invalicabile tra uomo e Dio, e ha in tal modo identificato il suo ruolo nel contesto più generale del pensiero religioso come quello di una lotta senza quartiere contro il mito. Possiamo dire, in estrema sintesi, che la tradizione kabbalistica propone un ribaltamento della concezione che divide con un abisso Dio, il cosmo e l’uomo, ricercando una descrizione sia del mistero del mondo che delle vicende storiche del popolo ebraico, nei termini di un rispecchiamento dei misteri della vita divina. In termini più precisi, la legge espressa nella Torah è nient’altro che il simbolo delle legge cosmica; così come la storia del popolo ebraico, che in essa è raccontata, è nientemeno che il simbolo del processo cosmico. Di qui la stretta interconnessione fra Dio, cosmo e uomo che si manifesta proprio attraverso la “parola”, la Torah, che non è soltanto mero mezzo di comunicazione ma dispiegamento della luce, dell’energia e del linguaggio divino. L’esegesi mistica del testo diventa quindi analisi mistica del cosmo: tutta la “scienza” (ovvero, la conoscenza del cosmo e della storia umana) è riassorbita in questa esegesi la quale ha anche un fortissimo lato razionale, perché, sebbene piegata alle esigenze dell’intuizione mistica, si sviluppa con una precisione e un rigore analitico sorprendenti.
Affrontiamo ora al tema del quadruplice strato di senso delle Scritture. Il celebre kabbalista spagnolo medioevale Mosé de Leon scrisse: “Le parole della Torah sono paragonate a una noce. Che cosa significa questo? Esattamente come la noce ha un guscio esterno e un nucleo interno, così anche ogni parola della Torah contiene Ma’aseh, Midrash, Haggadah e Sod, e in ogni momento rappresenta un senso più profondo di quello precedente”. I quattro strati di significato della parola cui fa riferimento Mosé de Leon possono essere così definiti: Ma’aseh è il significato letterale (ma’aseh in ebraico significa insieme racconto, opera, atto e evento); Midrash è il risultato del metodo ermeneutico con cui gli studiosi del Talmud trovavano le disposizioni rituali nel testo biblico; Haggadah è il prodotto della forma allegorica o metaforica di interpretazione del testo; Sod è il mistero, ovvero il senso nascosto più profondo. Il kabbalista mira verso il quarto livello e in ciò prende le distanze dall’approccio della tradizione rabbinica. Mosé de Léon riprende un’antica storia talmudica di quattro rabbini che entrarono in paradiso: il primo vide e morì, il secondo vide e perse il senno, il terzo isterilì le giovani piantagioni e solo l’ultimo entrò sano e uscì sano. Si vuol dire che la pura osservazione dei fatti conduce al nulla, la pura ricerca delle disposizioni legalistiche conduce alla follìa, l’interpretazione allegorica isterilisce le menti dei giovani e soltanto la ricerca del senso profondo contiene il germe della vita. Esiste un noto legame fra questa concezione kabbalistica e la tradizione teologica cristiana che parla (fin dal secolo VIII) di quattro punti di vista: quello della storia, della tropologia (ovvero del punto di vista omiletico-morale), dell’allegoria, e dell’anagogia (ovvero dell’interpretazione delle Scritture in rapporto col fine ultimo). La presenza di tematiche analoghe nel mondo musulmano e il fatto che queste idee si cristallizzino in modo chiaro nella Kabbalahspagnola, soprattutto in territorio cristiano, è un indizio di un’importante interazione che culminò nel grande interesse del pensiero umanistico per la Kabbalah. Tuttavia, se l’influsso del pensiero kabbalistico sulla cosiddetta Kabbalah cristiana e, per tale via, sul pensiero umanistico e rinascimentale, è un tema conosciuto e studiato (6), non è consentito andare oltre. Difatti, la scienza del Seicento presenta un elemento radicale di rottura proprio nei confronti della dottrina della molteplicità degli strati di senso.
La scienza dal Seicento in poi ha come cardine fondamentale l’oggettivismo, l’univocità del significato e dell’interpretazione della realtà. Questa concezione dell’oggettività del reale – di cui è massima espressione il pensiero di Cartesio – ha come presupposto la separazione totale fra osservatore e osservato: la spaccatura fra Dio e uomo e fra uomo e cosmo che il pensiero kabbalistico si proponeva di colmare, si ripresenta nei termini di una spaccatura fra uomo e cosmo. Anche la cosmologia cristiano-tolemaica proponeva una divisione del mondo in due parti rigidamente divise: da un lato il mondo terreno, mondo della generazione e della corruzione non assoggettabile a conoscenze certe e dall’altro il mondo celeste le cui leggi, scientificamente determinabili e determinate dal sistema tolemaico, erano il riflesso della perfezione divina – una divisione che era il riflesso della divisione fra uomo e Dio. La scienza moderna propone di abbattere la barriera che divide mondo terrestre e mondo celeste, unificando l’universo ma introducendo un’altra spaccatura necessaria all’introduzione di una visione oggettivistica dell’universo stesso, e cioè la divisione fra uomo e cosmo. L’uomo diviene “osservatore esterno” distinto dal mondo, la sua natura e il senso della sua vita è rinviato al dominio della teologia o al mistero – a meno di non adottare una forma di materialismo integrale che ricerchi quella natura e quel senso nelle stesse leggi oggettive dell’Universo materiale. Pertanto, se la contrapposizione fra scienza e teologia cristiana è radicale, ancora più profonda è la contrapposizione con la visione unitaria kabbalista.
Circa le origini dell’oggettivismo scientifico ci limiteremo qui a dire che si tratta di un tema che la storia della scienza ha stranamente assai poco studiato, anche se appare chiaro il ruolo centrale che Cartesio ha avuto nel porlo come base della scienza moderna. Tenteremo piuttosto di seguire la contrapposizione sopra accennata in un altro tema che unisce in modo evidente il pensiero kabbalistico con le prime forme di pensiero scientifico. Alludo al ruolo della parola nella speculazione kabbalistica: la parola non è mai soltanto significato esteriore e neppure commento o allegoria, ma anche e soprattutto significato profondo, simbolo di un processo sostanziale che può essere scoperto scortecciando la noce degli strati di senso. Sottolineo il termine simbolo, in contrapposizione con il valore testuale della parola ma anche con l’allegoria: infatti, per la Kabbalah il simbolonon è soltanto allegoria ma è contenuto, non soltanto descrizione ma significato di un processo. Al punto che la parola ha un valore magico: “Ometti una lettera o scrivi una lettera di troppo e distruggi il mondo”, racconta un antico midrash. Ma si pensi anche alla mistica numerica, cioè all’uso delle tecniche di identificazione dei concetti mediante l’equivalenza numerica delle parole che li esprimono (7). Moshe Idel, in un affascinante saggio (8), ha ricostruito la genesi del principio Deus sive Natura in Spinoza, mostrando come l’identificazione fra Dio e natura nasca nel contesto della letteratura kabbalistica, in particolare nell’opera di Abraham Abulafià e negli sviluppi dovuti al suo allievo Joseph Gikatila ed esposti nel suo trattato Ghinat Egoz.
Assistiamo così a un affascinante paradosso. L’influsso della concezione cosmologica e cosmogonica unitaria della Kabbalah (e in particolare l’identità Dio=Natura) ha un ruolo importante nella formazione della scienza moderna, nell’idea che esistono delle leggi fondamentali della Natura e che esse sono esprimibili in termini simbolici. Ma una volta conquistata l’idea della rappresentazione simbolica, l’esigenza dell’oggettivismo e dell’univocità del significato – inerente all’ambizione della scienza di costituirsi come unico sapere certo – introduce una divisione fra cosmo e uomo, fra osservatore e osservato. La verità unica non va ricercata nel molteplice senso delle Sacre Scritture, ma nella realtà materiale da cui va estratta la struttura simbolica assolutamente univoca. Cade il molteplice strato del senso – nella materia e non nella parola noi dobbiamo ricercare la verità – cade l’identificazione Dio=Sacre Scritture, l’identificazione Dio=Natura diviene facoltativa, in quanto viene trasferita nella sfera della coscienza religiosa individuale. Il simbolo conserva però un valore cruciale, che da numerico diviene geometrico e poi, più in generale, matematico. L’idea della matematica come simbolo e non come descrizione o allegoria è fondamentale: è possibile difatti dare un’infinità di esempi del fatto che la matematica non è stata quasi mai concepita nella scienza come mero strumento e ausilio tecnico, ma piuttosto come senso ed essenza della realtà.
Ma se questo influsso è chiaro e ne sono chiare le radici, resta nondimeno la grande divergenza sul tema dell’oggettivismo e dell’univocità del senso. E’ una divergenza che seguiremo ora su un’altra traccia che non è stata finora ben vista e tantomeno studiata. Come ha osservato Scholem, un’idea fondamentale della Kabbalah è quella del reciproco intreccio di tutti i mondi e di tutti i gradi dell’essere: tutto è connesso a tutto ed è contenuto in tutto. Due immagini riflettono questi due livelli di connessione presenti in tutte le ontologie kabbalistiche: quella della catena infinita dell’essere e della connessione dei suoi anelli e quella delle bucce inserite l’una dentro l’altra, espressa nel simbolo della noce. Immagini pienamente contraddittorie dal punto di vista figurale, perché si riferiscono l’una alla concatenazione, l’altra all’inclusione. “Ma – osserva Scholem – la realtà del mondo spirituale e la sua connessione con quello naturale, che tali immagini si propongono di simboleggiare, non ha, per i kabbalisti, nulla di contraddittorio – dopo tutto entrambe le immagini si ritrovano, l’una vicino all’altra, negli scritti dell’autore dello Zohar. Anche nella catena dell’essere tutto è magicamente inserito in tutto” (9). Come dice Mosé Cordovero: “lì dove tu stai stanno a loro volta tutti i mondi.” Questa sintesi di ontologie così diverse e apparentemente contraddittorie è possibile perché nella Kabbalahmondo naturale e mondo spirituale non possono e non debbono essere divisi. La catena infinita dell’essere è immagine dell’ordine lineare, graduato e concatenato del mondo naturale; mentre l’inclusione delle bucce della noce l’una nell’altra si riferisce alla molteplicità degli strati del senso.
Il tema del catena infinita dell’essere è fondamentale nella storia del pensiero filosofico e nella formazione di alcuni aspetti centrali del pensiero scientifico moderno in quanto rappresenta l’aspetto naturalistico della connessione totale del mondo. L’interesse per questo tema fu suscitato dal libro La Grande Catena dell’Essere scritto nel 1936 dal teorico e fondatore della storia delle idee A.E. Lovejoy (10). Una ricerca accurata del ruolo del tema della “creazione” nella storia della scienza potrebbe mostrare come molte eleganti impalcature “scientifiche” nascondano aspirazioni mitico-mistiche che, se non fossero opportunamente “ricoperte”, sarebbero impresentabili nella buona società della razionalità e dell’oggettivismo. Oggi si è molto attenti all’ “abbigliamento”. Solo pochi anni fa lo si era di meno e capitava di dire senza reticenze che “il maggior problema delle scienze biologiche è senza dubbio quello che si riferisce alla trasformazione della materia morta in materia vivente.” Una frase del genere non era di Paracelso o di Simon Mago ma di un illustre chimico italiano dell’inizio del secolo, Giacomo Ciamician.
Nulla di male. La scienza ha sempre avuto una metafisica influente. Spesso ha anche una mistica influente. Molti dei presupposti ideologici di taluni programmi scientifici (come quelli odierni dell’intelligenza artificiale e dell’ingegneria genetica) non sono altro che una ripresa di temi e credenze mitologici e ai confini della magia nell’illimitata capacità creatrice dell’uomo: essi trovano alimento proprio in quelle idee mistiche che il razionalismo scientifico, che opera qui come un travestimento, si propone con tanto clamore di combattere e distruggere. Un brano di Scholem tocca proprio alcuni di questi aspetti e li collega al problema del significato: “Un giudaismo vivo, quale che sia la sua concezione di Dio, dovrebbe opporsi risolutamente al naturalismo. Dovrebbe insistere sul fatto che la nozione così diffusa di un mondo in progresso e che sarebbe lui stesso la sorgente di una libera produzione di significato – il che, di tutti i fenomeni, è il più difficile a afferrare – può evidentemente essere proposta, ma non può seriamente essere sostenuta. Certamente, l’ipotesi secondo cui il mondo è il luogo di un’assenza del significato è ricevibile, a condizione tuttavia che si trovi un solo uomo che sia pronto ad accettarne le conseguenze. La frivolezza filosofica con la quale numerosi biologi cercano di ricondurre le categorie morali a delle categorie biologiche è una delle caratteristiche più oscure del clima intellettuale della nostra epoca ma non potrebbe ingannarci circa il carattere disperato di una simile impresa. E’ sufficiente studiare attentamente uno soltanto di questi lavori per percepire gli equivoci, le petizioni di principio, le latenze teologiche, le incrinature e le fessure di questo genere di edifici intellettuali. Non sarà mai possibile dimostrare l’ipotesi secondo la quale il mondo ha un senso mediante estrapolazioni condotte al di fuori di contesti di significato determinati, perché questa convinzione è la base della fede nella creazione. Questa ipotesi si situa pertanto al di là delle teorie fisiche incessantemente in evoluzione e che, per la loro stessa natura, non hanno nulla da dire circa l’origine degli elementi ai quali vogliono alla fine far risalire tutte le evoluzioni.” (11)
Siamo così ricondotti al tema del significato e del suo carattere univoco o molteplice e al tema del postulato di oggettività di cui il pensiero scientifico sembra non poter fare a meno, esiliando nel regno dell’irrazionale tutto ciò che non appare immediatamente riconducibile all’oggettività. Difatti, la scienza, così come la conosciamo, non può fare a meno dell’oggettività. Farne a meno farebbe crollare uno dei suoi capisaldi e cioè la convinzione di offrire leggi certe, universali, eterne, basate sul principio della ripetibilità dei fenomeni descritti a partire da certe condizioni iniziali ben determinate. La fatica immensa con cui la scienza contemporanea fa fronte al problema di disfarsi del determinismo ne è una testimonianza: il massimo che essa riesce a consentire su questo terreno – e quanto di malavoglia! – è di sostituire la certezza di processi assolutamente determinati con un indebolimento della certezza, ma niente più. La condizione minima per consentire questo indebolimento è comunque almeno una precisa determinazione del campo dell’indeterminazione della descrizione. L’alternativa a questo attaccamento all’oggettivismo sarebbe che la scienza accettasse una conclusione radicale: e cioè che essa è soltanto uno degli infiniti linguaggi che inondano il mondo, rinunciando alla pretesa di conservare un posto privilegiato nell’insieme delle conoscenze.
NOTE
1) Assai importante in questa direzione è stata l’opera di recupero, pubblicazione e traduzione di numerose opere scientifiche di autori ebrei spagnoli (fino all’espulsione dalla Spagna alla fine del Quattrocento) da parte del prof. José M. Millás Vallicrosa.
2) Su questo tema si veda G. Israel, P. Nastasi, Scienza e razza nell’Italia fascista, Bologna, Il Mulino, 1998; e inoltre: G. Israel, “La matematica italiana, il fascismo e la politica razziale”, in M. Emmer (a cura di), Matematica e cultura 2000, Milano, Springer, 2000, pp. 21-48.
3) Appaiono quindi scarsamente fondati i tentativi di mostrare un’analogia di orientamento fra la scienza moderna e il filone del pensiero ebraico rappresentato dalla Kabbalah. Si consideri, ad esempio, il volume (peraltro molto bello) di A. Steinsaltz, La rose aux treize pétales, Introduction à la Cabbale et au judaïsme, Paris, A. Michel, 1989, in cui la descrizione delle visioni cosmologiche e cosmogoniche della Kabbalah è sviluppata con l’uso di termini, concetti e immagini della scienza moderna. Il rapporto fra spirituale e materiale è descritto entro contesti concettuali della filosofia della scienza moderna, con l’uso di termini del tutto incongrui come “determinismo” e “meccanicismo”; o addirittura stabilendo improbabili parallelismi, come quello fra talune nozioni della Kabbalah e quelle di struttura algebrica astratta, di sistema meccanico e di “feed-back”. Tutto ciò può rispondere al proposito di rendere più comprensibile e accettabile la Kabbalah al pensiero moderno, o di elaborare una teologia compatibile con il pensiero scientifico, ma ha poco a che fare con le caratteristiche specifiche del pensiero kabbalistico. Un approccio analogo può trovarsi anche in: A. Safran, Sagesse de la Kabbale, Paris, Stock, 1986 (trad. ital. Saggezza della Kabbalah, Milano, Mondadori, 1990).
4) L’esempio forse più caratteristico in tale direzione è rappresentato dalla psicanalisi freudiana. Colpisce il tono marcatamente “kabbalistico” della seguente osservazione di Freud in cui il valore dell’ermeneutica è affermato attraverso un’apologia del “logos” e della “magia”: “Il profano troverà difficile comprendere come disturbi patologici del corpo e della psiche possano venir eliminati attraverso le “sole” parole del medico. Egli penserà che si pretende da lui la fede nella magia. Non ha tutti i torti; le parole dei nostri discorsi quotidiani non sono altro che magia sbiadita. Ma sarà necessario prendere una via indiretta, più ampia, per far capire come la scienza riesca a restituire alla parola almeno una parte della sua primitiva forza magica.” (S. Freud, Trattamento psichico (trattamento dell’anima), 1890, in Opere, Torino, Bollati Boringhieri, 1989, p. 93).
5) Nella tradizione medica ebraica, che ha antiche e profonde origini, il problema della salute e della malattia non è mai visto esclusivamente come un problema meramente “oggettivo” e materiale, ma è considerato come un problema simultaneamente e indissolubilmente corporeo e spirituale. Ad esempio, nel Mishneh Torah di Maimonide è inserito un capitolo sui “Principi di dietetica, di igiene e di saper vivere”, all’interno di una sezione intitolata “Delle attitudini morali e della scienza dei costumi”. E Maimonide osserva: “Avere un corpo sano e intatto significa seguire le vie di Dio, perché non si potrebbe essendo malati acquisire alcuna delle nozioni o conoscenze che formano la conoscenza di Dio.” E ancora: “Come il Saggio si distingue per la sua saggezza e il suo carattere che lo tirano fuori dalla volgarità, così è necessario che egli sia riconoscibile nei suoi atti, nel suo modo di mangiare, di bere, di copulare, di fare i suoi bisogni, di parlare, di camminare, di vestirsi, di sbrigare i suoi affari o di commerciare.” (si veda, ad es. la trad. francese: M. Maimonide, Le livre de la connaissance, Paris, Presses Universitaires de France, 1981, p. 126, 137).
6) In particolare, è noto l’influsso del pensiero di Abraham Abulafià su quello di Pico della Mirandola. Abulafià era nativo di Zaragoza in Spagna e, dopo un soggiorno a Barcellona, si propose di venire in Italia per insegnare la Kabbalah al Papa. Giunse nel palazzo papale di Soriano nel Cimino, nonostante le diffide, ma, nell’istante in cui entrò, il Papa morì improvvisamente. Fu imprigionato, ma riuscì a fuggire nel trambusto. Negli anni successivi peregrinò per l’Italia (soggiornando in particolare in Sicilia) ed ebbe così un considerevole influsso sulla formazione della Kabbalah cristiana. Numerosi manoscritti di Abulafià sono stati tradotti e costituiscono oggetto di studio.
7) Nell’alfabeto ebraico ogni lettera ha un valore numerico. Pertanto, si può attribuire ad ogni parola un valore numerico che è la somma dei valori numerici delle lettere. L’accostamento di parole aventi lo stesso valore numerico è una delle tecniche fondamentali (ghematria) della Kabbalah per scoprire delle identità di significato nascoste.
8) M. Idel, Maïmonide et la mystique juive, Paris, Editions du Cerf, 1991.
9) G. Scholem, Zur Kabbalah und ihrer Symbolik, Zurich, Rhein-Verlag, 1960 (trad.it. La Kabbalah e il suo misticismo, Torino, Einaudi, 1980)
10) A.O. Lovejoy, The Great Chain of Being. A Study on the History of an Idea(William James Lectures on Philosophy and Psychology, 1932-33), Harvard University Press, 1936 (trad. ital. La Grande Catena dell’Essere, Milano, Feltrinelli, 1966).
11) G. Scholem, Fidelité et utopie, Paris, Calmann-Lévy, 1978, pp. 246-7.