Descrizione
Antologia di testi, racconti e giochi a cura di David Piazza
Supervisione Rav Reuvèn Colombo
Cultura ebraica a tutto campo
€15,00
Una raccolta di articoli, regole e attività per la Festa delle Capanne
2001 – Pagine 114
Copertina | Brossura morbida plastificata |
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Formato | 170×240 mm |
Testo | Testo italiano |
Antologia di testi, racconti e giochi a cura di David Piazza
Supervisione Rav Reuvèn Colombo
David Piazza
Erano gli anni ‘70 e Augusto Segre, quell’indimenticabile figura di morè, partigiano, sionista, educatore, (l’ordine è puramente casuale) pubblicava, sotto l’etichetta dell’Unione delle Comunità ebraiche Italiane, una serie, esaurita ormai da decenni, di libri dedicati alla feste ebraiche. Schiere di genitori e di insegnanti hanno tratto da quei libri con la copertina rigorosamente bianca, non solo ispirazione, ma anche preziose informazioni, raramente disponibili in lingua italiana
Purtroppo, il vuoto decennale non è stato ancora riempito da nulla di simile e paradossalmente proprio in questi ultimi anni assistiamo alla costante produzione di testi dedicati alle feste ebraiche, ma destinati alla divulgazione diretta a un pubblico più ampio, quello non ebraico. Raramente questi testi però superano la manualistica, sottolineando gli aspetti pittoreschi e folkloristici delle ricorrenze, dove non è raro trovare espressioni come “Chanukkà assomiglia grossomodo al Natale cristiano”, mortificandone ogni specificità culturale, quasi che la cultura di maggioranza possa essere l’unica pietra di paragone.
Non è quindi un esagerazione affermare che gli ebrei italiani, nel vuoto istituzionale cronico, hanno particolarmente bisogno di testi genuinamente ebraici sulle ricorrenze. Per capire invece perché le ricorrenze sono così importanti per la definizione dell’identità ebraica dobbiamo pensare che l’ebraismo di per sé viene definito la “religione del tempo” dove l’intero rapporto con il divino è scansito in momenti sacri e profani che si susseguono senza soluzione di continuità.
Lo Shabbàt ne è dunque l’apoteosi paradigmatica, proprio a causa delle sua scadenza settimanale: “Ot hi le’olmè ’ad benò uvenì – un segno eterno tra me e Lui”. Tutta una serie di atti simbolici legati alla capacità umana di poter creare, di poter aggiungere quindi alla Creazione, (come solo l’ebreo, nella sua particolarissima “umiltà”, può credere di sentirsi in partnership con il Creatore), sono per un attimo leciti e graditi, e solo un attimo dopo, iniziato lo Shabbàt, incredibilmente vietati e biasimati.
Che cosa è cambiato da un momento all’altro? Nulla, se non il contesto temporale. L’intero ciclo annuale delle ricorrenze (e i miei Maestri mi hanno insegnato che più che di ciclo, di circolarità, bisognerebbe pensare in termini di “spiralità”, con una costante spinta verso l’Alto, verso il “meglio”) presenta però, in aggiunta alla dimensione temporale, tutta una serie di complesse sfide non solo nel rapporto con il divino, ma anche con l’ “altro”, il prossimo; con gli “altri”, i popoli; con il mondo in generale, perché l’ebreo dialoga con il divino soprattutto nella dimensione della realtà concreta, tangibile.
Ogni ricorrenza quindi scopre un aspetto diverso di questa realtà. Solo per citare qualche esempio, necessariamente riduttivo: la dignità nazionale nei giorni di Pèsach, la dimensione naturale a Sukkòt, oppure quella del confronto culturale a Chanukkà. Inoltre, proprio perché il terreno di confronto è principalmente quello della realtà contingente, ogni festa non si risolve solo in riflessioni ascetiche o liturgie diverse, ma investe la quasi totalità dell’esperienza umana con rituali semplici nell’esecuzione, ma complessi nei contenuti, che coinvolgono l’udito, il tatto, la vista, fino al gusto perché è mitzvà, precetto divino, consumare quella particolare quantità di quel particolare alimento, in quella particolare data.
Quindi, a sentire l’autore del Sèfer Hachinùkh del 13° secolo, se sono quelle che a noi sembrano “piccole” azioni a condizionare il nostro modo di pensare, di ragionare sul mondo (capovolgendo secoli di pensiero occidentale, secondo il quale, sostanzialmente, è vero il contrario) ecco che le ricorrenze hanno l’insospettabile capacità di contribuire a forgiare, in misura non indifferente, con la loro ciclicità mai ripetitiva, la genuina identità ebraica, quella che ha permesso a un popolo, non solo in sparuta minoranza, ma in costante dispersione, di rigenerarsi nella continuità. Iniziamo questa serie, spinti da una lieta occasione, con la festa di Sukkòt, una festa gioiosa ma densa di significati sul nostro rapporto con la natura, e sulla capacità dell’uomo di trarre da questa un beneficio materiale.
Una festa che molti in Italia stanno riscoprendo nella sua natura più diretta, sforzandosi di scegliere delle abitazioni che permettano la costruzione di una sukkà, non delegando quindi al Bet hakkenèset una mitzvà che ci deve vedere impegnati in prima persona. Così come i maestosi lulavìm, grazie al contatto con la vicina Eretz Israèl, non sono più appannaggio dei soli rabbini o dei chazanìm, ma di sempre un più vasto pubblico, che contribuisce così ad arricchire le nostre tefillòt di questa particolare festa con una coreografia che appaga anche la vista e l’olfatto.
Una parola infine sulla struttura del libro. Abbiamo scelto la forma antologica, perché ci sembrava più adatta a sottolineare la ricchezza tematica della festa, ci perdoni quindi il lettore se alcuni concetti basilari sono ripetuti; crediamo che ogni articolo scelto, nel suo approccio, possa appagare una diversa curiosità. Troverete dunque articoli di maestri italiani, già pubblicati, ma ormai introvabili, a fianco di articoli ormai disponibili nel mare di internet, tradotti dall’inglese e pagine per ragazzi, tratti da una pubblicazione in ebraico. Se dopo aver letto qualcosa di questa pubblicazione, qualcuno inizierà a riconsiderare le feste non solo come momenti sociali nel Bet Hakkenèset o grandi cene in famiglia, ma anche come tappa fondamentale nella formazione della nostra identità, avremo raggiunto sicuramente un’obiettivo che noi sta molto a cuore.
Ringraziamo dunque chi ha permesso questa pubblicazione con il suo contributo economico e tutti coloro che vi ci sono dedicati, con passione.
Roberto Della Rocca
Direttore del Dipartimento Educazione e Cultura dell’U.C.E.I.
Questa lodevole iniziativa di pubblicare dei testi sulle ricorrenze ebraiche costituisce un prezioso contributo alla valorizzazione della nostra identità. “Noi ebrei”, scriveva Martin Buber nel 1938, “siamo una comunità basata sul ricordo. Il comune ricordo ci ha tenuti uniti e ci ha permesso di sopravvivere” Nel corso dei secoli, accompagnato dalla memoria e dalla speranza messianica, l’ebreo ha individuato nella ricorrenza il punto di riferimento della sua storia, lo spazio sacro entro cui collocare la propria dimensione esistenziale. La ricorrenza intesa come il momento privilegiato per l’innesto in un tempo che è simultaneità, un tempo la cui dimensione particolare si riferisce contemporaneamente al presente, al passato e al futuro; si tratta di una dimensione dove non c’è solo l’attimo che fugge e che non è più afferrabile, ma anche un tempo che diventa fusione, prolungamento, coesistenza e quindi memoria. Il ricordare quindi non è un semplice rievocare un evento passato, poiché la catena della trasmissione del ricordo non solo custodisce l’evento stesso, ma lo riattiva in forma potenziata, lo restituisce a una nuova vita nel momento in cui viene rimesso nel circolo della narrazione e della celebrazione. Grazie a questo rapporto sempre rinnovato con il tempo, il popolo ebraico itinerante nello spazio, lontano dalla Terra d’Israele e in particolare da Gerusalemme e dal suo Santuario, ha sviluppato una profonda coscienza storica e un forte senso di memoria collettiva creando alcune province della sacralità temporali, che possono essere osservate e celebrate dovunque. Proprio l’osservanza di questi “santuari del tempo”, come vengono definiti dal filosofo Heschel, ha permesso all’ebraismo di preservarsi dall’estinzione e di non essere assorbito completamente dalle culture dominanti. A differenza delle civiltà impegnate a costruire nello spazio, come quelle egiziane, greche e romane, che esprimevano in magnificenze architettoniche le loro forme di culto e di identificazione, nell’ebraismo è prevalsa nel corso dei secoli, la santificazione del tempo. Il ricongiungersi al zèkher liziyàt mitzràyim, il ricordo dell’esodo dall’Egitto, è sempre associato al zèkher lema’asè bereshìt, il ricordo della creazione del mondo, così come al dono della Torà e alla permanenza del popolo ebraico nel deserto, nelle capanne. La Torà addirittura rende noi stessi protagonisti dell’uscita dall’Egitto e del patto del Sinai, tanta è l’intensità di questa congiunzione con il passato proiettata verso il futuro. Come scrive Elie Wiesel nel suo libro Celebration Biblique, la storia ebraica si svolge al presente e negando la mitologia, influisce sulla nostra vita e sul nostro ruolo nella società. “…Giove è un simbolo, ma Isaia è una voce, una coscienza. Zeus è morto senza essere vissuto, ma Mosè resta vivo… Tutti i personaggi biblici si esprimono attraverso ognuno di noi perché essi sono esseri viventi e non simboli, persone e non dei… Tutte le storie riferite dalla Bibbia ci riguardano, non dobbiamo fare altro che rileggerle per constatare la loro attualità sorprendente…” Il compito di trasformare il ricordo in memoria viva e trasmetterlo alle generazioni future è assegnato dall’ebraismo alla tradizione orale che, anziché essere isolata e decontestualizzata in un monumento, è inserita nella continuità di un sistema culturale. “Non esistono libri migliori dei figli istruiti nella Torà”
(TB Bavà Batrà 116a). Il testo scritto, infatti, non è dotato di parola, né di forza di azione, non è realmente vivo, mentre la vita dei figli continua quella dei genitori. I Maestri interpretano il verso della Torà: “Ze sèfer toledòt adàm… – Questo è il libro della posterità di Adamo…” (Gen. 5, 1), affermando che il libro di cui si parla sono i figli dell’uomo, perché essi portano nel cuore la Torà trasmettendola così ai loro discendenti. Nell’ebraismo, la cultura del libro non è rigido dogma; è invece convivenza e confronto delle contraddizioni, ed è punto di partenza e stimolo per una ricerca di nuovo significato: un invito a proseguire lo studio e la scrittura, a commentare, a chiosare a margine, ad aggiungere altre e diverse deduzioni, a lasciare in eredità nuovi insegnamenti e nuovi stimoli. È per questo impegno costante e quotidiano che la Torà orale continua a chiamarsi Torà shebe’àl pe, benché i Maestri abbiano cominciato a metterla per iscritto 17 secoli fa. La cultura del libro, nell’ebraismo è una ricerca che continua e che mai pretende di dire la parola ultima e definitiva; una ricerca in cui nulla è acquisito per sempre. È una verità in continuo movimento in cui ogni nuovo spunto si aggiunge ai precedenti senza mai cancellare gli altri; ne prosegue lo studio e la ricerca, alla pari, in un dialogo sincronico che annulla il prima e il dopo, senza mai annullare il valore di quanto già trasmesso. In questo scenario il presente non vale a priori più del passato, né un passato mitizzato può impedire il procedere del presente. La commemorazione del passato, i monumenti ai caduti, i musei, sono, al contrario, tutte forme di memoria collettiva istituzionalizzata e, di fatto, sottratta alla coscienza individuale. Delle leggi consegnate al popolo ebraico, la prima, rivelata dall’Eterno a Mosè già in terra d’Egitto, riguarda il calcolo del tempo: “Allora il Signore parlò a Mosè e ad Aronne nel paese d’Egitto dicendo: Questo mese (nissàn) sarà per voi il principio dei mesi dell’anno…” (Es. 12, 1-2). Nella doppia struttura solare e lunare, con il sole immobile che sembra agli uomini girare incessantemente sulla stessa orbita e la luna che cresce e cala ogni mese, rinnovandosi, la prospettiva ebraica è spostata più verso quest’ultima. Riattraversare ogni mese le fasi della ricerca della propria identità; e proprio per riaffermare tale identità le iniziali della parola yozrìyikh, ’osìyikh, konìyikh e borìyikh, nella Birkàt halevanà, formano il nome Ya’akòv. Per il Midràsh, Giacobbe-Israele è la luna. Afferma il Midràshche è buona regola che il grande conti con il grande e il piccolo con il piccolo; Esaù, che significa “fatto”, conta i mesi con il sole che è grande, Giacobbe con la luna che è piccola. E come la luna è presente sia di giorno sia di notte, così Giacobbe ha parte in questo mondo e nel mondo futuro. “Hakòl, kol Ya’akòv vehayadàyim yedè ’Esàv – La voce è quella di Giacobbe ma le mani sono quelle di Esaù” (Gen. 27, 22). Fino a quando i figli di Giacobbe innalzeranno la loro voce nelle case di studio e di preghiera, le mani di Esaù non potranno prevalere..
Prefazione – Roberto Della Rocca 6
Introduzione – David Piazza 9
Le halakhòt di Sukkòt 12
La sukkà e l’elefante – Cheryl-Shira Leibowitz e Roald Hoffmann 22
La berakhà di “Leshèv basukkà”– Itzchak D. Frankel 30
Questione di centimetri – David Gianfranco Di Segni 34
Il senso della sukkà – Alfonso Arbib 37
Le quattro specie – Yehuda Prero 39
La festa di Sukkòt – Davide Nizza 41
Midrashìm – Sèfer Haaggadà 43
Sukkòt: che cosa (e perché) dovremmo ricordare –
Menachèm Leibtag 47
La casa della Shekhinà e il rifugio apocalittico – Moshe Taragin 58
La natura della mitzvà del lulàv – Yehuda Amital 69
Le capanne di nuvole – David Gianfranco Di Segni 71
Sukkòt a tavola – Laura Liberanome 74
Sukkòt passo per passo – Per i più piccoli 82
Test d’ammissione… in sukkà – Principianti 100
Per chi sa già qualcosa 103
Per esperti 107
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