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La benedizione del sole

7,00

Benedizione sulla creazione del sole che si recita ogni 28 anni
2009 – Pagine 52

Informazioni aggiuntive

Autore

Gianfranco Di Segni

Copertina

Brossura morbida

Formato

148×210 mm

Testo

Testo ebraico e traduzione italiana a fronte, Testo italiano

COD: 089 Categorie: , Product ID: 319

Descrizione

Birkàt Hachammà – Benedizione sulla creazione del sole che si recita ogni 28 anni

A cura di David Gianfranco Di Segni

Introduzione di Rav Riccardo Shemuel Di Segni

Prefazione

Il mio interesse per la Birkàt hachammà, la benedizione che ogni 28 anni si rivolge a D-o per aver creato il sole, risale al 1981 (5641) quando recitai questa berakhà per la prima (e finora unica) volta in una cerimonia che si svolse sulla terrazza del Tempio grande di Roma, così come avvenne in tutte le altre comunità ebraiche del mondo. A quel tempo studiavo al Collegio rabbinico italiano e l’allora Direttore, Rav Elio Toaff, durante la lezione settimanale nel suo studio, diede in regalo a ciascuno di noi allievi una copia del libretto sulla Birkàt hachammà pubblicato da Emanuele Pacifici e curato da Rav Riccardo Di Segni sulla base di una pubblicazione stampata a Livorno da Ya’akov Chai Meldola nel 1841 (5601). Mi è rimasta bene impressa nella memoria la frase di Rav Toaff in quell’occasione: “Tenete pure il libretto, tanto a me non servirà più”. Barukh Hashem, Rav Toaff ha avuto il merito di vivere altri 28 anni!

Un ulteriore motivo che mi ha portato a occuparmi della “benedizione del sole” è il fatto che in quegli anni, da poco laureato alla Facoltà di scienze dell’Università ebraica di Gerusalemme, iniziavo a interessarmi alle interrelazioni fra la Torà e la scienza. I rapporti fra Torà e scienza si possono manifestare in diversi modi. In alcuni casi si tratta di risolvere (apparenti) contraddizioni, come il problema dell’età del mondo o la questione dell’evoluzione/creazione delle diverse specie viventi. In altri casi si possono evidenziare sorprendenti analogie fra la descrizione tradizionale ebraica della creazione del mondo e quanto scoperto dalla scienza (anche se tali analogie forse appaiono tali solo a chi vuole vederle). Nell’ambito dei contatti fra Torà e scienza la Birkàt hachammà, però, ricopre un posto a parte. Essa costituisce un esempio illuminante (è proprio il termine adatto) di come tali rapporti possano a volte essere fecondi. Infatti, in questo caso (e in generale, per tutto ciò che concerne il calendario), la Torà e la scienza sono intrinsecamente legate. La Torà (quella “scritta” e quella “orale”, il Talmùd) ci prescrive di dire la benedizione, ma sono le osservazioni astronomiche e i calcoli matematici ad esse connesse che permettono di stabilire i modi e i tempi per dire la berakhà.

Il ciclo di 28 anni si basa su un calcolo astronomico-matematico: per arrivare a questa determinazione è stato necessario effettuare lunghe e meticolose osservazioni delle rotazioni dei corpi celesti. Non a caso Mar Shemuèl, il Maestro del Talmùd che determinò il calcolo che è alla base delle regole della Birkàt hachammà, è descritto come colui che conosceva le vie del firmamento celeste quanto quelle di Nehardea, la sua città (Talmùd bavlì, Berakhòt 58b). Senza un approccio scientifico alla natura, ossia senza la capacità di osservare i fenomeni naturali e individuarne e calcolarne le regolarità, non ci sarebbe alcuna benedizione sulla creazione del sole.

Forse non è un caso se quest’anno civile, il 2009, in cui recitiamo di nuovo la Birkàt hachammà, è stato dichiarato dall’ONU l’Anno internazionale dell’Astronomia. In questo anno, infatti, ricorre l’anniversario di due importanti eventi avvenuti 400 anni fa: nel 1609 Galileo compì le prime osservazioni astronomiche con il cannocchiale da lui messo a punto, che lo portarono a scoprire fra l’altro i satelliti di Giove, le fasi di Venere e le macchie solari; nello stesso anno Keplero pubblicò la sua opera principale, Astronomia Nova, sull’orbita del pianeta Marte, in cui delineava le prime due leggi che regolano la rotazione dei pianeti attorno al sole.

Le scoperte e le opere di Galileo e di Keplero furono fondamentali per il passaggio dalla teoria tolemaica, geocentrica, a quella copernicana, eliocentrica. Entrambi questi scienziati si sono incrociati con importanti personaggi della cultura ebraica. Un allievo di Galileo, quando questi insegnava all’Università di Padova, fu Rabbì Yosef Del Medigo (noto come lo Yashar di Candia, 1591-1655), il quale nel Sèfer Elìm, dopo aver spiegato la teoria copernicana e aver citato le scoperte astronomiche di Keplero (“grande negli studi”), riporta le osservazioni del pianeta Marte eseguite con il cannocchiale dal suo maestro Galileo (“Galileo rabbì”) e aggiunge: “Chiesi a lui di poter guardare attraverso lo strumento di vetro”. Rabbì David Gans (1541-1613), allievo di Rabbì Moshè Isserles (il Ramà) a Cracovia e poi del Maharal di Praga, fu collega di Keplero nell’osservatorio del castello di Benátky, a 50 km da Praga, diretto da Tycho Brahe.

Nelle sue opere Rabbì Gans parla di Copernico come dell’astronomo “più grande e celebrato fra tutti i contemporanei, senza eguali dall’epoca di Tolomeo” (il Maharal, R. David Gans e R. Yosef Del Medigo sono tutti e tre sepolti nello storico cimitero ebraico di Praga). Se pur dopo l’epoca di Gans e Del Medigo il numero di scienziati-rabbini sia andato sempre più diminuendo, forse anche a causa della difficoltà a raggiungere un’eccellenza in entrambi gli studi, alla loro epoca e ancor più in quelle precedenti era comune che uno studioso di Talmùd si occupasse anche di medicina e di “filosofia naturale”, a testimonianza del fatto che la Torà e la scienza non erano considerate due forme di conoscenza in contrasto l’una con l’altra.

* * *

Ringrazio sentitamente il Rabbino capo di Roma, rav Riccardo Shemuel Di Segni, per avermi incoraggiato a curare questa pubblicazione e avermi fornito numerosi suggerimenti, nonché per aver aggiornato l’Introduzione dell’edizione di 28 anni fa. Sono grato ai rabbini A. Di Porto, A. Locci, E. Richetti e D. Sciunnack per avermi procurato materiale e notizie sui minhaghim di altre comunità. Grazie a mio figlio Jacov per aver approntato il testo ebraico.

Un ringraziamento particolare a David e Mira Piazza per la consueta, eccellente cura editoriale. Quando già avevo iniziato a lavorare a questa piccola opera, il mio amico Rav Alberto Somekh mi ha detto di stare anche lui curando un’edizione della Birkàt hachammà: le due pubblicazioni contemporanee non devono essere viste come in competizione l’una con l’altra, quanto piuttosto nello spirito di vekhèn yirbù e beròv ’am, hadràt Mèlekh.

Dedico questo lavoro alla memoria del mio bisnonno materno Vittorio Chayim Yehudà Grünwald, nato nel 1855 a Verona (allora parte dell’impero austro-ungarico), laureatosi in matematica al Politecnico di Vienna e poi professore di matematica (e tedesco) a Venezia, Livorno e infine a Firenze, dove fu anche bibliotecario e insegnante al Collegio rabbinico italiano diretto da Rav Shmuel Margulies z.l. Il nonno Vittorio morì a Firenze nel marzo 1943, giusto in tempo per non dover essere costretto a sfuggire alle retate dei nazi-fascisti, da cui probabilmente non si sarebbe salvato (e forse neanche la sua famiglia). Pur essendo io nato numerosi anni dopo la sua morte, la sua figura è sempre stata viva nella nostra famiglia e viene in particolare ricordata sotto il binomio di matematico/studioso di Torà. Yehì zikhrò barùkh.

David Gianfranco Di Segni

Collego Rabbinico Italiano – Consiglio Nazionale delle Ricerche 

Roma, Capodanno degli alberi, Tu BiShvat 5769, 8.2.2009

Introduzione

Rav Riccardo Shemuel Di Segni

Secondo un antico calcolo della tradizione rabbinica, la sera di martedì 7 aprile 2009 il sole verrà a trovarsi nella stessa posizione in cui stava all’inizio della creazione. Il mattino successivo, mercoledì 8 aprile, entro le prime tre ore dall’alba, i fedeli, terminata la preghiera mattutina di Shachrìt, usciranno dalle Sinagoghe e davanti al sole reciteranno una preghiera speciale. Questo strano rito, detto Birkàt hachammà (benedizione del sole), si ripete nel calendario ebraico molto raramente: una volta ogni ventotto anni, perché appunto solo ogni ventotto anni il sole torna nella posizione iniziale del suo ciclo. Tutto questo ha uno strano aspetto di mistero, ma in realtà ogni particolare può essere spiegato; bisogna seguire un ragionamento un po’ complicato, che si cercherà di rendere il più chiaro possibile. Queste note ci introdurranno alla comprensione di quello che oggi è il più raro e probabilmente meno conosciuto dei riti ebraici.

Un evento che accade ad una certa ora del giorno, in un giorno della settimana e del mese, corrisponde a una determinata posizione sole-terra. La terra gira intorno al sole (un tempo si pensava il contrario) e impiega un anno per tornare nella stessa posizione in cui si era verificato l’evento. Sarà nello stesso giorno del mese, ma a che ora e in che giorno della settimana? Tra i Maestri del Talmùd c’erano due opinioni sulla durata dell’anno solare: quella di Mar Shemuèl (la stessa alla base del calendario Giuliano), per cui l’anno è di 365 giorni e sei ore, e quella di Rav Addà bar Ahavà, che dava una misura lievemente inferiore che più si avvicina ai calcoli attuali. Seguendo Mar Shemuèl l’anno comprende 52 settimane e un resto di un giorno e un quarto (trenta ore in totale). Che cosa comporta questa differenza? Che l’evento viene spostato di anno in anno, rispetto al conto della settimana, di 30 ore. Se, per esempio, un bambino è nato alle 6 di mattina di giovedì 1 gennaio 2009, l’anno dopo (che non è bisestile) sole e terra torneranno nella stessa posizione reciproca che avevano al momento della nascita il primo gennaio 2010, venerdì alle ore 12. La differenza aumenta di anno in anno (sabato 1 gennaio 2011 alle 18, ecc.); dopo quattro anni sarà diventata di cinque giorni; l’evento che si considera accadrà allora nella stessa ora del primo anno, ma in un giorno diverso della settimana. Si è compiuto quello che viene chiamato il «piccolo ciclo» del Sole. Ogni quattro anni cambierà il giorno della settimana e saranno pertanto necessari 7 cicli di quattro anni perché l’evento accada nuovamente nello stesso giorno della settimana, alla stessa ora.

Ecco dunque spiegato il misterioso numero 28: sette piccoli cicli di quattro anni fanno un «grande ciclo» di ventotto anni. Ma quale è l’evento astronomico che si considera? Secondo l’opinione prevalente è ciò che la tradizione chiama tekufàt Nisàn. L’anno è diviso in quattro stagioni, tekufòt; il termine tekufà (la cui radice indica il concetto di «girare intorno») si applica più precisamente al momento di inizio della stagione: quindi la tekufàt Nisàn è il momento di inizio della primavera, corrispondente all’incirca all’equinozio primaverile. Qual è il giorno prescelto nel calendario ebraico lunare, ai fini del rito che stiamo discutendo? Per stabilirlo dobbiamo rifarci al racconto della Genesi, e alle interpretazioni rabbiniche ad esso collegate. Nel primo capitolo della storia della creazione dell’universo, il sole e le altre sorgenti di luce furono creati nel quarto giorno della settimana, quindi dopo il «tramonto» del martedì. Che mese era? Su questo i rabbini sono divisi; una corrente, che poi ha avuto la prevalenza, sostiene che il mese era Nisàn. Dunque la prima ora del quarto giorno di Nisàn, il martedì sera, corrisponde all’inizio del ciclo solare nella creazione; di qui si conta la tekufà, perché quello è il momento in cui il sole ha cominciato a «girare». Come si è detto prima, affinché la tekufà torni ad essere esattamente nella stessa ora e nello stesso giorno della creazione, devono passare 28 anni. Ma come si fa a sapere quale è l’anno in cui si comincia il conto? La risposta è molto semplice: il numero degli anni del calendario ebraico viene fatto risalire alla creazione del mondo. Quindi basta dividere il numero dell’anno per 28 e quando si ha un resto uguale ad uno, quello è l’anno che ci interessa; appunto come l’anno in corso, il 5769, in cui ha inizio il 207° ciclo. Ecco dunque chiariti tutti i particolari del conto rabbinico. (Più oltre, nel testo, verrà presentata una dettagliata spiegazione delle fonti, le norme e i diversi usi connessi con la Birkàt hachammà).

Tutta questa dissertazione «tecnica» deve essere ovviamente integrata da un’altra serie di spiegazioni. Un attento esame di tutto il ragionamento mostra, infatti, l’inserimento di alcune variabili, scelte tra diverse opinioni, in quello che dovrebbe essere un semplice e rigoroso calcolo astronomico. Si presuppone, infatti, che il racconto della Genesi vada interpretato letteralmente per quanto riguarda la divisione dei giorni; si sceglie l’opinione rabbinica che fissa la creazione nel mese di Nisàn; si suppone come certa la datazione «dalla creazione del mondo», che è comparsa tardivamente nella storia del calendario ebraico; si sceglie l’opinione di Mar Shemuèl sulla durata dell’anno solare, che per quanto sia comoda e arrotondata, è più imprecisa. Tutto ciò dimostra, senza dubbio, che la data stabilita per il rito non è l’espressione di una certezza scientifica, ma piuttosto una convenzione, per definire in un accordo di maggioranza il momento più opportuno per la celebrazione di un rito il cui significato poteva sollevare qualche discussione. L’esame dei testi che per primi ne fanno cenno dimostra che la questione era piuttosto aperta, e che la decisione rabbinica fu il risultato di una complessa dialettica. Per comprenderne i termini bisogna vedere in cosa consiste il rito. Essenzialmente è la recitazione di una benedizione, che in italiano suona così: «Benedetto Tu o Signore, Dio nostro Re del mondo, che fa l’opera della creazione». A questa benedizione si aggiunge la recitazione di alcuni Salmi che, nello stesso spirito, esprimono le lodi dell’uomo per la perfezione dell’opera creatrice divina. La formula della benedizione non è del resto specifica di questa occasione; ne è prescritta la recitazione davanti a spettacoli naturali di inconsueta bellezza, come fiumi, monti e valli, sui quali ancora non c’è stato un intervento dell’uomo, o davanti ad eventi naturali fuori dal comune, come il passaggio di comete o i terremoti, nonché quando si vede un fulmine. La benedizione esprime molto semplicemente il principio ebraico di fede, che distingue la realtà in Creatore e creato; per cui ogni volta in cui l’uomo si trova davanti ad una manifestazione o spettacolo naturale eccezionale deve riconoscere, esplicitamente, la responsabilità divina di ciò che vede. È un punto costante di tutta la tradizione ritualistica, dal Sabato alle benedizioni e alle regole alimentari, la quale intende educare l’uomo ad un rapporto differente con il mondo che lo circonda e inserirlo in una giusta dimensione. Quindi anche le osservazioni del ciclo solare non devono sfuggire a questa regola. In coerenza con questo principio, un anonimo maestro dell’epoca della Mishnà prescrisse che la benedizione fosse recitata vedendo il sole nella sua tekufà; ma nella Toseftà un altro maestro, il tannà Rabbì Yehudà, aggiunse che era una forma di eresia benedire per il sole. La discussione riguardo a queste due affermazioni apparentemente antitetiche è arrivata alla conclusione che benedire per il sole è lecito solo nella tekufà, intesa nel senso più limitativo possibile, ossia ogni 28 anni. Ma di che cosa si preoccupavano i maestri, per limitare tanto questo rito? È molto probabile che avessero presente il rischio di giustificare una sorta di culto solare che in varie forme poteva inquinare il senso della celebrazione, che invece deve essere rivolta esclusivamente al culto del Creatore. Quando si parla di culto solare il riferimento è a tutta una serie di riti pagani che gli ebrei certo conoscevano e che si erano probabilmente infiltrati anche in varie sette gnostiche; sorge anche il sospetto, per quanto non molto documentabile, di una sottile polemica contro il primo cristianesimo, che aveva abolito il Sabato ebraico sostituendolo con la Domenica, appunto «il giorno del sole» (il legame con il sole è rimasto esplicitamente nella parola inglese Sunday).

Il rito della Birkàt hachammà è dunque un’occasione per ribadire la concezione ebraica del rapporto con il creato; l’estrema rarità del rito è stata imposta appunto per evitare ogni possibile degenerazione del sentimento di ammirazione della perfezione della natura. È interessante notare che il primo verso del libro di Bereshìt contiene 7 parole e 28 lettere, due numeri che, alla luce di quanto abbiamo esposto, appaiono quanto mai significativi. Notevole è anche il fatto che Rashì, commentando questo verso, cita il libro dei Salmi (111, 6) dove si dice: «La potenza delle Sue opere ha rivelato al Suo popolo», in cui la parola “potenza” (kòach) ha appunto la ghematria (valore numerico) di 28.